Omesso versamento dei mezzi di sussistenza e risarcimento del danno: onere della prova.

(Corte di Cassazione Civile, sez. III, sentenza 18.06.2015, n. 12614)

Il caso oggetto della sentenza in epigrafe riguarda una donna cui l’ex marito aveva omesso di versare l’assegno di mantenimento disposto a suo carico nei confronti dei figli minori. Per tali reati l’uomo veniva condannato e patteggiava la pena. La donna i rivolge al Giudice di Pace chiedendo la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale. La domanda accolta in prime cure veniva rigettata dal Tribunale che accoglieva il gravame.

La Suprema Corte precisa che il reato di omesso versamento dei mezzi di sussistenza, cagiona un danno, anche non patrimoniale, non solo ai figli, ma anche al genitore che ha dovuto provvedere da solo al mantenimento, ma che comunque è corretta la decisione della Corte territoriale che si è pronunciata in favore dell’inammissibilità, perché la domanda proposta al giudice di Pace era connotata da ultragenericità.

La domanda veniva rigettata dopo avere ritenuto in facto che l’attrice non avesse allegato alcuna circostanza fattuale provante la propria domanda risarcitoria. I giudici chiariscono che il risarcimento del danno non patrimoniale derivante da reato non possa ritenersi in re ipsa, è onere di chi pretende il risarcimento descrivere e spiegare in cosa sia concretamente consistito il pregiudizio di cui domanda ristoro.

Svolgimento del processo

1. Nel 2008 S.C. convenne D.R.S. dinanzi al Giudice di pace di Forlì, chiedendone la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale.

A fondamento della pretesa l’attrice allegò di essere stata fino al 1997 unita in matrimonio col convenuto; che dopo essersi separata da quest’ultimo il Tribunale di Napoli aveva posto a carico di lui il pagamento di un assegno di mantenimento; che a partire dal 2004 il convenuto aveva sospeso il pagamento di quanto dovuto, e per tale ragione era stato rinviato a giudizio ed aveva patteggiato in sede penale una condanna ex art. 444 c.p.p..

2. Il Giudice di pace di Forlì con sentenza n. 987 del 2009 accolse la domanda e condannò il convenuto al pagamento di Euro 2.500,00.

3. La sentenza venne appellata da D.R.S. dinanzi al Tribunale di Forlì.

Il Tribunale di Forlì accolse il gravame e rigettò la domanda risarcitoria come proposta da S.C..

A fondamento della propria decisione il Tribunale osservò che in sede di separazione D.R.S. era stato onerato del pagamento d’un assegno di mantenimento in favore dei figli minori.

L’inadempimento di tale obbligo, pertanto, era ad avviso del Tribunale un illecito suscettibile di provocare un danno solo a questi ultimi: e poichè l’attrice aveva dichiarato di agire in nome proprio, non in nome dei figli minori, essa non aveva titolo per domandare alcun risarcimento in conseguenza del mancato pagamento di quell’assegno.

4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da S.C. sulla base di sette motivi.

Non si è difeso in questa sede D.R.S..

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Si assumono violati gli artt. 1223 e 2059 c.c.; art. 185 c.p..

Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 2059 c.c., nella parte in cui ha escluso che il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento dei figli minori potesse causare un danno non patrimoniale anche all’altro coniuge. Ha dedotto che la commissione d’un reato legittima non solo la vittima a domandare il risarcimento del danno non patrimoniale da esso derivato, ma anche i prossimi congiunti della vittima. Ha soggiunto che far mancare i mezzi di sostentamento ai propri figli minori è condotta che non può non causare un danno anche all’atro genitori, cui i figli siano stati affidati.

1.2. Il motivo è infondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta.

Il Tribunale di Forlì ha qualificato la domanda attorea come una richiesta di risarcimento formulata dall’attrice per conto proprio, e non per conto dei figli minori ex art. 320 c.c..

Così qualificata la domanda, ha concluso che l’attrice non potesse pretendere il risarcimento di alcun danno, perchè non lei, ma i suoi figli furono le vittime del reato di cui all’art. 570 c.p., commesso da D.R.S..

1.3. Tale motivazione è erronea in diritto, per due ragioni:

-) da un lato, perchè il bene protetto dall’art. 570 c.p., non è l’interesse della persona avente diritto al sostentamento, ma il più generale interesse dello Stato di salvaguardare la famiglia contro le gravi violazioni degli obblighi giuridici posti a salvaguardia di essa (ex multis, Sez. 6, n. 2960 del 26/01/1972 – dep. 03/05/1972, imp. Coniglione, Rv. 120975). vittima del delitto in esame può dunque ritenersi qualunque membro della famiglia, e non solo l’avente diritto al sostentamento;

-) dall’altro, perchè la commissione di un reato fa sorgere il diritto al risarcimento del danno da esso provocato non solo in capo alla vittima primaria, ma anche in capo ai suoi familiari, come già stabilito da questa corte (per tutti, Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002, Rv. 555495).

1.4. Sebbene la motivazione adottata dal Tribunale di Forlì sia stata erronea, il dispositivo della sentenza impugnata può tuttavia ritenersi conforme a diritto.

Il Tribunale, infatti, ha rigettato la domanda dopo avere ritenuto in facto che l’attrice non avesse “allegata alcuna circostanza fattuale” a sostegno della propria domanda risarcitoria. Ha rilevato come l’attrice nell’atto di citazione si fosse limitata a descrivere la condotta del convenuto, ed ha soggiunto che le prove domandate dall’attrice nel corso del giudizio avevano ad oggetto unicamente quella condotta, ma non l’esistenza e l’entità del danno patito (così la sentenza impugnata, p. 8).

Tali rilievi erano di per sè idonei a giudicare inammissibile la domanda attorea, per mancata e compiuta deduzione di uno dei fatti costitutivi della pretesa, ovvero l’esistenza e la natura d’un danno risarcibile.

Si rileva infatti dall’atto di citazione del giudizio di primo grado che l’attrice non ha mai concretamente descritto in cosa fosse consistito il danno non patrimoniale di cui domandava il risarcimento.

Soltanto nel paragrafo intitolato “Le richieste di S. C.” si legge che l’attrice “rivendica il riconoscimento e la liquidazione dei danni patrimoniali in specie morale subiettivo ed esistenziale”. Seguono ulteriori censure alla condotta del convenuto, e quindi a p. 6 della citazione si ribadisce che l’attrice domanda il risarcimento del “danno morale subiettivo per reati a suo danno (…) e per danno esistenziale da lesione di diritti fondamentali”.

1.5. Or bene, questa Corte ha più volte affermato che il risarcimento di un danno non patrimoniale derivante da reato non può ritenersi in re ipsa. E’, invece, onere di chi ne pretende il risarcimento descrivere e spiegare, nell’atto introduttivo del giudizio, in cosa sia concretamente consistito il pregiudizio di cui domanda ristoro (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014, Rv. 633405; Sez. L, Sentenza n. 25691 del 01/12/2011, Rv. 619940; e soprattutto Sez. 3, Ordinanza n. 8421 del 12/04/2011, Rv. 617669).

Nel caso di specie, pertanto, corretto è il decisum del giudice d’appello, posto che al cospetto d’una domanda ultragenerica come quella formulata dall’attrice nell’atto di citazione dinanzi al giudice di pace, altra pronuncia non era possibile che quella di inammissibilità.

Nè avrebbe dovuto, il giudice d’appello, ordinare alcuna integrazione o sanatoria dell’atto di citazione, in virtù del principio secondo cui se il giudice di primo grado omette di ordinare l’integrazione o la rinnovazione d’una citazione nulla per mancata indicazione del fatto costitutivo della pretesa (ex art. 163 c.p.c., n. 4), diventa onere dell’attore stesso invocare dal giudice la fissazione del termine per sanare la nullità. Ove ciò non faccia, il giudice del gravame non dovrà fissare alcun termine per la rinnovazione dell’atto nullo, ma dovrà definire il processo con una pronuncia in rito che accerti il vizio della citazione introduttiva (così Sez. 3, Sentenza n. 17408 del 12/10/2012, Rv. 624081).

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La ricorrente non indica in modo puntuale quale norma assuma violata;

nell’illustrazione del motivo spiega tuttavia che la Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere la “legittimazione” (rectius, la titolarità) attiva dell’attrice, dal momento che il delitto di cui all’art. 570 c.p., è un reato plurioffensivo, del quale debbono ritenersi vittime sia i figli cui il genitore faccia mancare i mezzi di sostentamento, sia l’altro genitore, affidatario dei figli.

2.2. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo motivo di ricorso.

E’ infatti evidente che, avendo formulato l’attrice in primo grado una domanda inammissibile per totale genericità, diventa irrilevante stabilire se quello previsto dall’art. 570 c.p., sia o meno un delitto plurioffensivo.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo – che non viene formalmente inquadrato in alcuno dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., – la ricorrente lamenta che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che l’attrice non avesse nè concretamente allegato, nè concretamente provato il pregiudizio non patrimoniale del quale chiese il risarcimento.

3.2. Il motivo è inammissibile.

Esso viola in modo patente l’art. 366 c.p.c., n. 4, il quale prescrive che il ricorso per cassazione debba indicare motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Nel caso di specie, invece, alle pp. 30-34 del ricorso si censura la statuizione del giudice di merito senza indicare se si intenda far valere un (vizio processuale (una pronuncia in assenza di eccezioni); un errore revocatorio (una incompleta o parziale lettura dell’atto di citazione); un error in iudicando; ovvero un difetto di motivazione.

4. I motivi di ricorso dal quarto al settimo.

4.1. I motivi di ricorso dal quarto al settimo possono essere esaminati congiuntamente, essendo tutti inammissibili.

4.2. Col quarto motivo la ricorrente lamenta che il Tribunale non avrebbe tenuto conto della mancata risposta di D.R.S. all’interrogatorio formale: esso è inammissibile per difetto di autosufficienza, poichè non è trascritto il capitolo dell’interrogatorio, e comunque perchè la domanda è stata rigettata per difetto di titolarità del credito, non per difetto di prova della condotta illecita.

4.3. Col quinto motivo la ricorrente lamenta che il Tribunale avrebbe violato il “giudicato penale”, perchè in sede penale era stata ammessa la costituzione di parte civile di S.C.. Esso è infondato, poichè l’ammissione della costituzione di parte civile non è un provvedimento suscettibile di passare in giudicato.

4.4. Col sesto motivo la ricorrente lamenta che il Tribunale non avrebbe tenuto conto che D.R.S., oltre il reato di cui all’art. 570 c.p., aveva commesso anche quello di cui all’art. 388 c.p. (inosservanza di ordini del giudice): esso è inammissibile per irrilevanza. Come già detto, infatti, il Tribunale non ha affatto negato la sussistenza della responsabilità, ma solo la titolarità del credito azionato.

4.5. Col settimo motivo la ricorrente lamenta che il Tribunale non avrebbe considerato che vi era la prova della colpa del convenuto:

esso è manifestamente inammissibile per la stessa ragione indicata al capoverso precedente.

5. Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio dell’intimato.

P.Q.M.

la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c.:

-) rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 6 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2015