Tempo “tuta”: quando deve essere retribuito.

(Corte di Cassazione Civile, sez. lavoro, sentenza 26.01.2016, n. 1352)

Svolgimento del processo

Q.A.M.D. e G.C.L.P., unitamente ad altri litisconsorti, tutti dipendenti della Cooperativa sociale K.C.S. C., che prestavano assistenza ad anziani non autosufficienti presso due residenze per anziani, convenivano in giudizio la cooperativa datore di lavoro per ottenere il pagamento a titolo di lavoro straordinario del tempo necessario per indossare e svestire la divisa loro imposta per lo svolgimento della prestazione, che già dovevano avere indosso nel momento in cui timbravano il cartellino.

Argomentavano che si trattava -di una prestazione da ritenersi compresa nell’orario lavorativo così come descritto dalla normativa italiana ed europea, anche perché la divisa era necessaria per l’espletamento delle loro mansioni.

Il Tribunale di Milano rigettava la domanda e la Corte d’appello con la sentenza n. 753 del 2010 confermava il rigetto.

La Corte territoriale argomentava che, nulla disponendo sulla specifica questione il contratto collettivo, al fine di ottenere la ricomprensione del tempo occorrente per indossare e dismettere la divisa aziendale nell’orario di lavoro i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare che il datore di lavoro aveva imposto l’effettuazione di tali operazioni sul luogo di lavoro, circostanza che tuttavia non era stata allegata, né dedotta a prova.

Né valeva in tal senso la particolarità delle mansioni svolte, considerato che gli appellanti non svolgevano mansioni infermieristiche né lavoravano in strutture ospedaliere, sicché era sufficiente che si presentassero con la divisa pulita. La qualificazione della divisa come dispositivo di prevenzione individuale era inoltre una prospettazione fatta valere solo in grado d’appello, e peraltro espressamente esclusa dall’ari. 74 del D.lgs. n. 81 del 2008.

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso le due lavoratrici, affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso la cooperativa sociale, che ha proposto altresì ricorso incidentale condizionato. Le parti hanno depositato anche memorie ex art- 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale sono stati riuniti ex art. 335 c.p.c. in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

I. Come primo motivo, le ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’ars. 1 del D.lgs. n. 66 del 2003, attuativo della Direttiva comunitaria 19931104/CE e della Direttiva 2000/34/CE. Le ricorrenti asseriscono che la Corte avrebbe sottovalutato la portata innovativa delle disposizioni richiamate, che determinerebbe la ricomprensione nell’orario di lavoro del tempo durante il quale il lavoratore, per essere a disposizione dei datore di lavoro, non può liberamente utilizzare il proprio tempo, e quindi anche il tempo occorrente per indossare la divisa.

2. Come secondo motivo, lamentano il vizio di motivazione nel quale sarebbe incorsa la Corte d’appello, laddove ha affermato che non sarebbe stata dedotta né allegata l’obbligatorietà della vestizione e svestizione della divisa sul luogo di lavoro. Riferiscono di avere al contrario valorizzato nel ricorso in appello il fatto di dovere spesso prestare assistenza ad anziani non autosufficienti e con gravi disabilità, che impone l’assoluta igiene della divisa e il contatto con i residui fisiologici e i liquidi biologici.

3. Come terzo motivo, lamentano i’ ulteriore vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale avrebbe ignorato le istanze istruttorie proposte nel giudizio di merito, finalizzate a dimostrare la sussistenza dell’obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro.

4. Come quarto motivo, deducono la violazione degli articoli 40 e 43 del Digs. 626 del 1994, come integrati dagli articoli 74 e 77 del D.lgs. n. 81 del 2008, ed addebitano alla Corte d’appello di non avere considerato che la divisa deve ritenersi dispositivo di protezione individuale. Ribadiscono di occuparsi quotidianamente di anziani non autosufficienti con gravi disabilità e malattie e di entrare in contatto con liquidi biologici ed organici, oltre a coadiuvare altri operatori nella somministrazione di farmaci con terapie mediche, sicché l’uso della divisa è finalizzato a difendere gli utenti con i quali si viene in contatto nonché gli operatori stessi.

5. A fondamento del ricorso incidentale condizionato, K.C.S. C. Cooperativa Sociale ha riproposto, per il caso di accoglimento del ricorso avversario, le eccezioni svolte nei precedenti gradi di giudizio aventi ad oggetto l’erroneità del quantum richiesto in pagamento dalle controparti e la qualificazione del tempo occorrente per indossare la divisa come lavoro straordinario.

6. I primi tre motivi del ricorso principale sono connessi e possono essere esaminati congiuntamente.

Sulla problematica che ne costituisce oggetto, occorre qui ribadire che la vestizione degli indumenti necessari per lo svolgimento della prestazione di lavoro (e, più in generale, della divisa aziendale) costituisce un’operazione preparatoria della prestazione di lavoro e ad’essa strumentale. La consolidata giurisprudenza della Sezione lavoro di questa Corte ritiene che al fine di valutare se il tempo occorrente per tale operazione debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica. In particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti (anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro), la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non dev’ essere retribuito.

Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l’operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario dev’ essere retribuito (così Cass. n. 13706 del 2014, Cass. Sez. U, n. 11828 del 2013, Cass. n. 9215 dei 2012, Cass. n. 19358 del 2010 n. 19358, Cass. n. 19273 del 2006, Cass. n. 15734 del 2003).

La soluzione è coerente con la previsione contenuta nel D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art_ 1, comma 2 lett. a), (che recepisce le Direttive 93/104 e 00134 CE, concernenti taluni aspetti dell’organiz7-zione dell’orario di lavoro), secondo la quale per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, con definizione sovrapponibile a quella ripetuta nella successiva Direttiva 2003188/CE, art. 2 n. 1) che, per la sua genericità, impone e consente le specificazioni che già erano state fornite già nel vigore della regola fissata dall’art. 3 del R.D.L. 5 marzo 1923 n. 692, art. 3.

I criteri sopra enucleati riecheggiano nella stessa giurisprudenza comunitaria. Il fattore determinante che qualifica l’orario di lavoro è stato in genere ritenuto dalla Corte UE il fatto che il lavoratore sia costretto ad essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione del medesimo per poter immediatamente fornire le opportune prestazioni in caso di bisogno (v., in tal senso, sentenza Dellas e a., C-14/04, punto 48, nonché ordinanze Vorel, C-437105, punto 28, e Grigore, C-258!10, punto 63). Pertanto, affinché un lavoratore possa essere considerato a disposizione del proprio datore dì lavoro, egli deve essere posto in una situazione nella quale è obbligato giuridicamente ad eseguire le istruzioni del proprio datore di lavoro e ad esercitare la propria attività per il medesimo.

Di recente la Corte UE ha sottoposto ad ulteriore verifica tali criteri nella sentenza resa i1 10 settembre 2015 nella causa C-266/14, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (CC.00.), occupandosi dei tempo impiegato dai tecnici dipendenti di una società spagnola che effettuano l’installazione e la manutenzione degli impianti di sicurezza nelle abitazioni e nei locali industriali e commerciali siti nella zona territoriale di loro competenza, senza un luogo di lavoro fisso. Ha affermato che il tempo di spostamento impiegato da tali lavoratori per raggiungere dal proprio domicilio i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicati dal loro datore di lavoro costituisce orario di lavoro ai sensi della Direttiva 20031881CE, in quanto sussistono nel caso i tre elementi costitutivi della nozione di “orario di lavoro” enucleati dall’articolo 2, punto 1, della Direttiva 2003188.

Quanto al primo, secondo il quale il lavoratore deve essere nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni, la Corte ha ritenuto che i lavoratori che si trovano in tale situazione stiano esercitando le loro attività o le loro funzioni durante l’intera durata di tali spostamenti, in quanto essi costituiscono lo strumento necessario per l’esecuzione delle loro prestazioni tecniche nel luogo in cui si trovano tali clienti.

Quanto al secondo, secondo il quale il lavoratore deve essere a disposizione dei datore di lavoro durante tale periodo, ha rilevato che i lavoratori durante i tragitti sono sottoposti alle istruzioni del loro datore di lavoro, che può cambiare l’ordine dei clienti oppure annullare o aggiungere un appuntamento, sicché essi non hanno la possibilità di disporre liberamente dei loro tempo e di dedicarsi ai loro interessi.

Quanto al terzo, secondo il quale nel periodo preso in considerazione il dipendente dev’essere al lavoro, ha rilevato che gli spostamenti sono intrinseci alla qualità di lavoratore che non ha un luogo di lavoro fisso od abituale.

La soluzione adottata dalla Corte UE conferma quindi l’impostazione assunta da questa Corte anche in relazione alla fattispecie in esame, secondo la quale, riassuntivamente, occorre distinguere nel rapporto di lavoro tra la fase finale, che è direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell’orario di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, ma rimesse alla determinazione del prestatore nell’ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro.

6.1. Tale impostazione richiede un’ulteriore precisazione, necessaria al fine di valutare la fattispecie oggetto di causa. L’eterodeterminazione del tempo e dei luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione. Possono quindi determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’ igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro.

7. La Corte territoriale, tenuto conto del mancato intervento sulla specifica questione della contrattazione collettiva applicabile in azienda, sulla base delle premesse generali esplicitate al superiore punto 6 ha esaminato il quadro fattuale emerso in causa e ne ha concluso che potesse escludersi un obbligo per i lavoratori di indossare la divisa in azienda, in considerazione dei fatto che i lavoratori non svolgono mansioni infermieristiche né lavorano in strutture ospedaliere, “sicché è sufficiente che si presentino con una divisa pulita”, anche se indossata prima di muoversi da casa. In tal modo, la Corte tuttavia non ha valutato le risultanze di causa onde desumerne quale sia il grado di igiene richiesto per l’espletamento della prestazione (limitandosi a parlare genericamente di “pulizia” della divisa) e se esso possa essere realmente garantito dal tragitto che i lavoratori devono compiere prima di entrare nel luogo di lavoro; inoltre, non ha analizzato le caratteristiche della divisa imposta per l’espletamento della prestazione in tutte le sue componenti (che a pg. 18 del controricorso si specifica consistere in casacca a maniche corte, pantaloni, zoccoli, cuffia per chi somministra gli alimenti) per esaminare se essa potesse essere indossata dai lavoratori in luogo diverso da quello di lavoro, secondo un criterio di “normalità sociale” dell’abbigliamento.

7.1. In tal modo la Corte, pur muovendo dai principi condivisi e consolidati di questa Corte, non ne ha valutato appieno la portata, sicché i primi tre motivi del ricorso principale devono essere accolti.

8. In relazione al quarto motivo (laddove si sostiene che le divise sarebbero ricomprese nei dispositivi di protezione individuale di cui agli articoli 74 e seguenti dei decreto legislativo numero 81 del 2008) la Corte d’appello si è basata su due autonome rationes decidendi: ha osservato in primo luogo che tale deduzione era stata formulata inammissibilmente soltanto in grado d’appello ed inoltre ha aggiunto che la natura di dispositivo di protezione individuale degli indumenti da lavoro è espressamente esclusa dall’articolo 74 del D.lgs. n. 81 del 2008; la prima ratio decidendi non è stata efficacemente contestata del ricorso, laddove si riporta una deduzione contenuta a pag. 9 dell’atto di appello, che risulta quindi tardiva ai sensi dell’articolo 437 c.p.c. . Tale deduzione peraltro secondo quanto precisa la parte controricorrente era stata formulata soltanto nel ricorso in appello di Q. e non di G.. Il motivo pertanto risulta inammissibile.

9. Segue l’accoglimento dei primi tre motivi del ricorso principale, con rigetto del quarto. La sentenza dev’essere quindi cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, che dovrà compiere un nuovo esame, sulla scorta dei principi sopra enunciati, e decidere anche sulle spese del giudizio.

Resta assorbito il ricorso incidentale, il cui esame è condizionato dalla soluzione che la Corte di merito adotterà nella valutazione della questione oggetto del ricorso principale, rimessa al suo esame.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie i primi tre motivi del ricorso principale e rigetta il quarto, assorbito il ricorso incidentale.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa anche per le spese alla Corte d’appello di Brescia.