Va a rubare con un complice, ma arriva la padrona di casa. Scappa e lascia la refurtiva. Rapina impropria.

(Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 12 giugno 2017, n. 29105)

Nel caso di un imputato condannato per rapina impropria la Cassazione torna a confermare l’orientamento secondo il quale, il reato si configura sia nell’ipotesi in cui «la violenza o la minaccia sia finalizzata ad assicurare a se o ad altri il possesso della cosa sottratta », sia nell’ipotesi in cui «la violenza o minaccia sia finalizzata ad assicurare a se o ad altri l’impunità».

…, omissis …

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Napoli, in esito a giudizio abbreviato, confermava la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 26/05/2015 che aveva condannato l’imputato alla pena di anni due, mesi sei di reclusione ed Euro 600,00 di multa per i reati di rapina impropria aggravata e lesioni personali.

2. La Corte riteneva provato che l’imputato si fosse introdotto, in compagnia di un complice, all’interno dell’abitazione della vittima allo scopo di commettere un furto, rovistando tra gli oggetti personali e ponendone alcuni all’interno della federa di un cuscino.

Al sopraggiungere della persona offesa, l’imputato aveva abbandonato la refurtiva e strattonato la padrona di casa, procurandole lesioni personali così dandosi alla fuga.

3. Ricorre per cassazione P.E. , a mezzo del suo difensore e con unico atto, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.

Il fatto avrebbe dovuto essere qualificato come furto tentato o come tentativo di rapina impropria, dal momento che l’imputato non avrebbe avuto il dolo del reato di rapina, volendo solo quello di furto, non portando a compimento quest’ultimo con l’abbandono della refurtiva sul luogo, per l’intervento della persona offesa, solo occasionalmente strattonata in quanto costei si era posta tra il ricorrente e la via d’uscita.

Considerato in diritto

1. Deve escludersi che il fatto possa qualificarsi come furto tentato in concorso con il reato di lesioni personali.

Il caso all’esame è perfettamente sovrapponibile, nella prospettiva indicata, a quello che ha dato luogo alla decisione delle Sez.U, n. 34952 del 2012, Reina, secondo le quali, è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.

Nella specie, è evidente che l’intenzione del ricorrente fosse quella di sottrarre i beni personali alla persona offesa, tanto da averne introdotto alcuni all’interno di una federa di cuscino che avrebbe dovuto servire per un più comodo trasporto dei medesimi una volta compiuta tutta l’azione criminosa.

Ed è altrettanto indubitabile, in punto di fatto, che l’imputato avesse abbandonato tali oggetti e, nel tentativo di fuggire dopo essere stato scoperto dalla persona offesa che era rientrata in casa, avesse usato violenza nei confronti di costei, causandole le lesioni personali indicate al capo b), non attinto da censure difensive.

2. La questione si sposta, quindi, su altra prospettiva: quella di verificare se sia corretto qualificare il fatto come rapina impropria consumata o rapina impropria tentata.

La Corte ritiene corretta l’interpretazione fornita dai giudici di merito.

Dal momento che ciò che conta, trattandosi di rapina impropria, non è il fatto che l’agente avesse ottenuto il possesso del bene.

Poiché la norma di cui all’art. 628, comma 2, cod.pen. postula che il reato sia consumato quando si verifichi la sola “sottrazione” del bene, che, nel caso della rapina e tenuto conto della modalità violenta o minacciosa di essa, a differenza del furto, non può contemplare il caso in cui la vittima abbia la possibilità di esercitare la sorveglianza sulla res, ipotesi sulla quale si registra la più copiosa giurisprudenza in tema di furto tentato.

In altre parole, occorre verificare se l’agente abbia compiuto atti consumati di sottrazione, costituiti dalla cosiddetta “amotio” della cosa ed anche dalla “ablatio”, cioè dal fatto di avere esercitato sulla cosa, anche temporaneamente, una signoria autonoma rispetto a quella del proprietario, sia pure non ancora sfociata nel vero e proprio impossessamento della cosa sottratta.

Tanto si rinviene dalla lettura della motivazione della sentenza delle S.U. già citata (fg. 13) e da Sez. 2. n. 46412 del 16/10/2014, Ruggiero, Rv. 261021.

2.1 Applicando tali regole al caso concreto, il tentativo di rapina impropria sarebbe stato configurabile soltanto nel caso in cui il ricorrente si fosse limitato, all’atto dell’intervento della persona offesa, a mettere a soqquadro gli oggetti dell’appartamento od a compiere condotte ancor meno incisive sulle cose di proprietà altrui.

Qui si tratterebbe solo di atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto, qualificabile come tentativo di rapina impropria per la successiva violenza esercitata sulla vittima, che aveva interrotto l’azione, ed allo scopo di conseguire l’impunità (e non anche, nella fattispecie, il possesso della cosa sottratta, che era stata abbandonata sul luogo, circostanza che, tuttavia, non cambia la configurazione del reato, il quale contempla indifferentemente entrambe le condotte, quella della violenza o minaccia finalizzata ad assicurare a sé o ad altri il “possesso della cosa sottratta” – come si vede fenomeni distinti nella stessa dizione letterale della norma – o quella della violenza o minaccia finalizzata ad assicurare a sé o ad altri l’impunità).

Nel caso concreto, invece, è stato accertato dai giudici di merito che il ricorrente avesse già “selezionato” i beni della vittima da portar via, riponendoli all’interno della federa di un cuscino all’uopo predisposta con funzioni di contenitore.

Tale condotta aveva realizzato, sia pure per breve tempo e fino all’arrivo della proprietaria di casa, la sottrazione di detti beni e, dunque, il reato di rapina impropria consumata, avuto riguardo ai successivi segmenti dell’azione compiuta in quel frangente.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.