Vittime del dovere: la Cassazione precisa chi ha diritto ai benefici assistenziali. E’ da considerare vittima del dovere la morte di un agente di polizia penitenziaria deceduto a seguito di un colpo di arma da fuoco esploso accidentalmente mentre era in servizio.

(Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 4 maggio 2017, n. 10792)

Ai fini dell’attribuzione dei benefici previsti per le vittime del dovere, occorre lavorare in condizioni comunque implicanti l’esistenza o anche il sopravvenire di circostanze e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto, bastando anche solo che l’evento si sia verificato nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari.

…, omissis …

Fatti di causa

1. Con sentenza n. 856/2015 la Corte d’appello di Firenze rigettava il gravame del Ministero dell’Interno contro la sentenza n. 91/14 con cui il Tribunale di Pisa aveva riconosciuto che V.A. , agente della Polizia penitenziaria in servizio presso la Casa circondariale di Pisa, era deceduto come vittima del dovere a seguito d’un colpo di arma da fuoco accidentalmente esploso il 12.7.81 mentre era in servizio di guardia presso il suddetto istituto, con conseguente condanna del Ministero dell’Interno ad inserire il fratello della vittima, Andrea, nell’elenco di cui all’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 243/06 ai fini dei relativi benefici assistenziali.

2. Per la cassazione della sentenza della Corte territoriale ricorre il Ministero dell’Interno affidandosi a due motivi, con i quali sostiene il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e nega nel caso di specie il ricorrere della condizione di “vittima del dovere”, riconoscibile soltanto in presenza di eventi eccedenti il rischio ordinario ed istituzionale connesso alle funzioni svolte.

3. L’intimato V.A. resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Ragioni della decisione

1.1. Con il primo motivo si deduce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, già invano eccepito in sede di merito; a riguardo parte ricorrente sostiene che l’attribuzione della qualità di “vittima del dovere” (e il diritto alle conseguenti provvidenze) presuppone un’attività valutativa da parte della pubblica amministrazione circa la sussistenza delle particolari condizioni ambientali ed operative all’origine del rischio, condizioni necessarie anche nelle ipotesi previste dal comma 563 (e non solo in quelle di cui al comma 564) della legge n. 266/05.

1.2. Il motivo è infondato.

1.3. In proposito va data continuità alla giurisprudenza di queste S.U. che – con sentenze nn. 23300/16, 23396/16 e 759/17 – hanno già avuto modo di statuire che, con i benefici in favore delle vittime del dovere di cui all’art. 1, comma 565, della L. n. 266 del 2005, il legislatore ha configurato un diritto soggettivo – e non un interesse legittimo – in quanto, sussistendo i requisiti previsti al comma 563 dell’art. 1 di quella legge, la pubblica amministrazione non gode di discrezionalità alcuna in ordine all’an e al quantum di erogazione di tali provvidenze e alla loro misura (cfr. nello stesso senso, sia pure in relazione alle analoghe figure delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, Cass. n. 21927/08 e Cass. n. 26626/07).

Si muova dai commi 562-565 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, che hanno esteso i benefici previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo a tutte quelle che vengono considerate vittime del dovere.

Queste ultime sono così definite nel comma 563: “Per vittime del dovere devono intendersi i soggetti di cui all’art. 3 della legge 13 agosto 1980, n. 466, e in genere, gli altri dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subito un’invalidità permanente in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi:

a) nel contrasto ad ogni tipo di criminalità;

b) nello svolgimento di servizi di ordine pubblico;

c) nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari;

d) in operazioni di soccorso;

e) in attività di tutela della pubblica incolumità;

f) a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi, necessariamente, caratteri di ostilità.”.

Il successivo comma 564 amplia ulteriormente l’area, disponendo quanto segue: “Sono equiparati ai soggetti di cui al comma 563 coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegue il decesso in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative.”.

Il comma successivo affida ad un regolamento da emanare entro novanta giorni il compito di disciplinare “i termini e le modalità per la corresponsione delle provvidenze” in discorso.

A sua volta il regolamento – poi emanato con d.P.R. 7 luglio 2006, n. 243 – non si è limitato a disciplinare termini e modalità, ma ha compiuto una serie di precisazioni in ordine alla definizione dei concetti di benefici, provvidenze e missioni.

Sempre come evidenziato dalla citata pronuncia n. 23300/16, elementi di discrezionalità,non sono evincibili neppure dalla disciplina dell’attività del Comitato di verifica, al quale gli artt. 1079 e ss. del d.P.R. n. 90 del 2010 (codice dell’ordinamento militare) affidano il compito di formulare un parere medico-legale in ordine al riconoscimento della dipendenza delle infermità invalidanti o del decesso da causa di servizio: infatti, nell’accertare tale nesso causale, il comitato deve applicare modalità e criteri stabiliti dalla legge.

La medesima normativa, poi, prevede che l’amministrazione adotti il provvedimento di attribuzione del beneficio e ne curi la liquidazione “in conformità al giudizio espresso dalle commissioni mediche ospedaliere nonché al parere del comitato di verifica”, senza discrezionalità alcuna.

Né un filtro discrezionale può essere desunto dal limite massimo di dieci milioni di Euro all’anno, a decorrere dal 2006, previsto per la spesa finalizzata all’estensione dei benefici (comma 562 della legge 266/2005), in quanto l’apposizione di un tetto alla spesa annua può giustificare il mancato accoglimento delle domande qualora il limite sia stato raggiunto e non vi siano più fondi, ma non attribuisce discrezionalità nell’erogare il beneficio.

Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, è poi estranea al concetto di discrezionalità amministrativa la valutazione – che la pubblica amministrazione deve pur svolgere – circa la sussistenza degli estremi fattuali necessari affinché una data persona possa considerarsi vittima del dovere, ossia affinché possa ritenersi che l’evento dannoso di cui sia rimasta vittima derivi dall’adempimento d’un dovere.

Infatti, la discrezionalità amministrativa consiste nella possibilità, riconosciuta alla pubblica amministrazione, di scegliere – fra più comportamenti ugualmente legittimi e idonei a soddisfare un dato interesse pubblico – quello ritenuto più adeguato a tal fine, ponderando tutti gli interessi in gioco nel contesto applicativo d’una data norma.

Nel caso di specie l’amministrazione è solo chiamata ad accertare in punto di fatto (sia pure attraverso verifiche che, se del caso, possono anche non risultare perfettamente oggettivabili) se ricorra o meno detto contesto applicativo, ma non certo a scegliere – una volta data risposta affermativa all’interrogativo che precede – se erogare il beneficio e in che misura, in che tempi e in che modi.

In breve, nella materia in discorso non v’è alcuna discrezionale ponderazione – in capo alla pubblica amministrazione – degli interessi in gioco al fine di scegliere se e quali di essi meritino (e in che misura) tutela.

Né il diritto di essere ritenuto vittima del dovere e di ricevere le provvidenze connessevi rientra nell’ambito di quelli concernenti il rapporto lavorativo dei dipendenti pubblici, perché può riguardare anche coloro i quali, lungi dal rivestire tale qualità o avendola già dismessa, nondimeno abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio pubblico.

Ciò si desume – segnala, ancora, la citata sentenza n. 23300/16 dal comma 564 della legge 266/2005, che estende la disciplina dettata (dal comma 563 e dalla legge n. 466/1980) per i dipendenti pubblici anche a coloro che abbiano subito infermità dipendenti da causa di servizio.

Si delinea, così, un’area che si estende al di là del rapporto di impiego pubblico e che ingloba, ad esempio, i militari di leva o quelli che espletino su base volontaria forme di servizio pubblico.

Infine, i benefici spettanti alle vittime del dovere sono di natura prevalentemente assistenziale, sicché anche in virtù dell’art. 442 cod. proc. civ. la giurisdizione su di essi appartiene al giudice ordinario in veste di giudice del lavoro e della previdenza ed assistenza sociale.

2. Il secondo motivo denuncia violazione del comma 563 dell’art. 1 legge n. 266/05, per non avere la sentenza impugnata considerato che la condizione di “vittima del dovere” (cui conseguono i benefici riconosciuti in sede di merito) sussiste soltanto in presenza di eventi eccedenti il rischio ordinario ed istituzionale connesso alle funzioni svolte, costituendo quid pluris rispetto alla situazione che dà luogo al riconoscimento della causa di servizio.

Per altro verso, prosegue il ricorso, la norma citata non sarebbe applicabile in presenza di eventi del tutto imprevisti, anomali ed eccezionali rispetto al rischio tipico del servizio svolto, tale dovendosi considerare il colpo di arma da fuoco d’un collega partito accidentalmente durante il servizio di guardia.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Ai fini dell’attribuzione dei benefici previsti per le vittime del dovere il già cit. d.P.R. n. 243/06 definisce, all’art. 1, lett. b) e c), le missioni come quelle “… di qualunque natura… quali che ne siano gli scopi, autorizzate dall’autorità gerarchicamente o funzionalmente sopraordinata al dipendente” e le particolari condizioni ambientali od operative “le condizioni comunque implicanti l’esistenza od anche il sopravvenire di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto”.

Su tali basi la giurisprudenza di questa S.C. (cfr. Cass. S.U. n. 759/17; Cass. S.U. n. 23396/16; Cass. n. 13114/15) ha statuito che l’attribuzione dei benefici di cui all’art. 1, commi 563 e 564, della l. n. 266 del 2005 presuppone che i compiti rientranti nella normale attività d’istituto, svolti in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, si siano complicati per l’esistenza o per il sopravvenire di circostanze o eventi straordinari ulteriori rispetto al rischio tipico ontologicamente e ordinariamente connesso a dette attività.

Tali precedenti, però, riguardano le missioni di qualunque natura, quelle cui si riferisce il comma 564, solo per le quali è previsto che l’invalidità o il decesso dipendano da causa di servizio “… per le particolari condizioni ambientali od operative.”.

Nel caso in esame, invece, la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto applicabile il comma 563, punto c), relativo agli eventi verificatisi “nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari”.

Tale comma 563, a differenza dal comma successivo, non prevede come necessario il ricorrere d’un rischio specifico diverso da quello insito nelle ordinarie funzioni istituzionali, bastando anche soltanto che l’evento dannoso si sia verificato – fra gli altri casi – “nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari”.

Tali essendo anche le case circondariali, la sentenza non merita la censura mossa perché il sinistro si è verificato durante lo svolgimento, da parte del dante causa dell’odierno controricorrente, dell’ordinaria attività di vigilanza a tale infrastruttura.

3. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

3.1. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

3.2. Non è dovuto il versamento d’un ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1-quater, d.p.r. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, I. n. 228 del 2012, che non trova applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, le quali, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr., da ultime e per tutte, Cass. n. 1778/16).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.