Due militari minacciano altro commilitone. Uno punta la pistola verso la vittima e simula lo sparo con la bocca. Il Tribunale Militare dichiarava non doversi procedere perché l’azione penale non poteva essere iniziata per mancanza di richiesta di procedimento del Comandante del Corpo. La Corte di Appello li condannava e la Cassazione ha confermato la condanna.

…, omissis …

Sentenza

sul ricorso proposto da: M. G. N. IL…. e M.I.R.C. N. IL ….;

avverso la sentenza n. 82/2015 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA, del 25/03/2015;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in pubblica udienza del 13/07/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUIGI FABRIZIO MANCUSO …;

nonché Il Pubblico Ministero, in persona del dott. Luigi Maria Flamini, Sostituto Procuratore generale militare della Repubblica presso questa Corte, ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

l’avv. OMISSIS, difensore dell’imputato M.I.R.C., ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;

l’avv. OMISSIS, sostituto processuale dell’avv. OMISSIS, difensore dell’imputato M.G., ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 25 marzo 2015, il Tribunale militare di Roma definiva il processo nei confronti dei militari M. G. e M. I. R. C., imputati: entrambi, del reato di minaccia continuata e pluriaggravata di cui al capo «A», commesso il 25 settembre 2012 in danno del militare M.E.; il solo M., del reato di minaccia pluriaggravata di cui al capo «B», commesso nel marzo 2012 in danno di M. E.. Il Tribunale, esclusa l’aggravante dell’uso di arma, dichiarava non doversi procedere perché l’azione penale non poteva essere iniziata per mancanza di richiesta di procedimento del comandante del corpo.

2. Su appello del Pubblico ministero, la Corte militare di appello, con sentenza in data 11 novembre 2015, dichiarava gli imputati colpevoli dei reati rispettivamente loro ascritti e, ritenuta la continuazione fra il capo «A» e il capo «B», condannava il M. e il M., rispettivamente, alla pena di mesi sei e di mesi otto di reclusione militare, con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione per entrambi.

3. M. G. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi e sottoscritto anche dal difensore, avv. Salvatore Staiano.

3.1. Con il primo motivo si deduce, richiamando l’art. 606, lett. b) e lett. e), in relazione all’art. 603, cod. proc. pen., violazione dell’articolo 6, comma 1, CEDU e contraddittorietà della motivazione. Il giudice di appello ha condannato il M. ribaltando il giudizio di proscioglimento del giudice di primo grado.

Le decisioni della Corte EDU sono nel senso che il giudice di appello non può condannare l’imputato, dopo il proscioglimento da parte del giudice di primo grado, se non sulla base dell’audizione diretta dei testimoni.

Nel caso in esame, il giudice di appello ha ritenuto che non fosse necessario sentire nuovamente i testimoni già assunti, affermando che la decisione non era basata su nuove valutazioni circa l’attendibilità dei testimoni e che il giudice di primo grado si era limitato ad affermare che l’aggravante dell’uso di arma era insussistente. In realtà, il giudice di primo grado aveva emesso la pronuncia di proscioglimento, per mancanza della condizione di procedibilità, sulla base dell’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 229, terzo comma, c.p.m.p., circa l’uso di arma nel reato contestato, ed era pervenuto a tale decisione proprio in considerazione della valutazione nel merito delle dichiarazioni della persona offesa.

E il giudice di appello, essendosi basato proprio sulle dichiarazioni di quest’ultima, avrebbe dovuto risentirla.

3.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell’articolo 229, codice penale, 339 e 585 cod. pen. e contraddittorietà della motivazione circa la configurabilità l’uso di arma. Il fatto che l’arma utilizzata per la minaccia era scarica esclude la possibilità di configurare l’aggravante.

3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione dell’articolo 192 cod. proc. pen. e contraddittorietà della motivazione con riguardo alla valutazione delle prove. Il giudice di appello non ha eseguito un rigoroso vaglio sull’attendibilità della persona offesa e dei testimoni le cui dichiarazioni sono state utilizzate per conferma della tesi accusatoria.

3.4. Con il quarto motivo si deduce violazione dell’articolo 110 cod. pen., in relazione alla responsabilità dell’apporto concorrenziale che si assume compiuto dal M.. 3.5. Con il quinto motivo si deduce violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen., per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e per la quantificazione della pena.

4. M.I.R.C. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi e sottoscritto anche dal difensore, avv. Gerardo Brasile.

4.1. Con il primo motivo si deducono, richiamando l’art. 606, comma 1 lettera b), cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione degli articoli 192 e 546, comma 1 lettera e), cod. proc. pen.

La Corte militare di appello non ha assolto all’obbligo di motivare razionalmente il provvedimento gravato ed ha erroneamente valutato il compendio probatorio acquisito.

Il giudice deve rendere ragione dell’itinerario mentale percorso per giungere alla decisione, perché il principio del libero convincimento non gli fornisce un potere sconfinato e incontrollabile.

Il giudice deve rispettare sempre le norme che disciplinano la valutazione delle prove e la motivazione delle sentenze.

Nella specie, la valutazione della prova non è razionale e la ricostruzione del fatto non è conforme ai canoni della logica né aderente alle risultanze processuali, giacché nella valutazione del compendio probatorio non si comprende quale sia il criterio che ha condotto il giudice a valorizzare elementi di prova afflittivi rispetto a quelli non afflittivi.

La Corte militare di appello ha ritenuto le dichiarazioni rese dal teste M. riferibili a un altro episodio, ritenendo implicitamente il fatto così come ricostruito non rilevante dal punto di vista della responsabilità penale, mentre in realtà esse erano specificamente relative al capo di imputazione.

Ha ritenuto le dichiarazioni della persona offesa riferite allo stesso fatto storico, pur nella loro genericità e contraddittorietà, intrinsecamente attendibili.

La valutazione probatoria non va solo considerata nel suo aspetto statico, ma piuttosto nella sua vocazione dinamica di un percorso che il giudice deve compiere per pervenire nel giusto processo a una giusta decisione.

Questo onere di motivazione non può considerarsi soddisfatto se il giudice si limita ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi di prova, senza pervenire a una valutazione unitaria. Il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto e il loro insieme.

Riguardo all’articolo 192 cod. proc. pen., i criteri adottati dal giudice devono essere indicati in sentenza, così garantendo la pubblicità del ragionamento e la controllabilità della coerenza argomentativa e della congruità sostanziale, vale a dire la sua ragionevolezza.

Anche se il giudice ha un potere di valutare liberamente le prove, la possibilità di evitare efficacemente la inammissibile caduta nell’arbitrio si fonda certamente sulla individuazione di una fonte normativa che determini in maniera trasparente e chiaramente percepibile dall’interprete lo standard probatorio minimo richiesto per la emanazione di una sentenza di condanna e, conseguentemente, per il superamento della presunzione costituzionale di non colpevolezza.

La Corte militare di appello non ha tenuto conto della introduzione nel nostro ordinamento, con la legge n. 46 del 2006, della regola che correla l’emanazione di una sentenza di condanna alla dimostrazione della responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio.

È richiesto al giudice di verificare scrupolosamente la fondatezza dell’accusa mossa all’imputato prima di condannarlo. Il giudice di appello ha omesso di evidenziare il percorso logico argomentativo che lo ha portato a una sentenza di condanna con riforma in peius di sentenza di improcedibilità resa in primo grado.

4.2. Con il secondo motivo si deducono carenze e illogicità nel testo della motivazione, anche con riferimento ad atti del processo, richiamando l’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.

La ricostruzione logica posta a fondamento della motivazione della sentenza, rivolta alla affermazione di colpevolezza del M., non tiene conto di fondamentali elementi di valutazione.

Nella sentenza di secondo grado viene contestato al M. di aver puntato l’arma contro il M., simulando anche il rumore dello sparo.

È di tutta evidenza che il modulo accusatorio va ad integrarsi e concludersi proprio nell’avere l’imputato imitato, con il suono della voce, un rumore di un colpo di arma da fuoco.

Tale comportamento non può quindi non essere recepito e vagliato nell’ambito della disamina rivolta ad accertare il ricorrere della rubricata aggravante, poiché ignorarlo corrisponderebbe all’ablazione dalla costruzione logica di un dato empirico fondamentale, risultante da tutti gli atti del processo ma soprattutto di fondamentale importanza per giudicare la condotta dell’imputato nel suo intendimento di recare minaccia, prospettando grave nocumento associabile all’impiego di un’arma da fuoco oppure di porre in essere un gesto che, anche se genericamente minaccioso, andava a sottolineare, nel suo contesto, l’assoluta innocuità dell’arma che egli maneggiava, tanto che il rilevo acustico della deflagrazione veniva riprodotto artificialmente, con l’impiego della voce.

Bisogna tenere conto anche di considerazioni di ordine cataforico che non contraddicono la valutazione endoforica cui deve attenersi il giudice.

Ciò seguendo l’indicazione della dottrina, per la quale in carenza di testi legislativi sulla precisa connotazione dei criteri della logica non è ozioso rapportarsi alla letteratura scientifica in materia di analisi del discorso.

Considerato in diritto

1. Il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse del M., con il quale si sostiene che, in applicazione della giurisprudenza della Corte EDU, la Corte militare di appello non avrebbe potuto ribaltare la decisione, emettendo una sentenza condannatoria, senza aver prima sentito come teste la persona offesa già escussa in primo grado, è infondato.

La riforma della sentenza di primo grado non è dipesa da un diverso apprezzamento circa l’attendibilità del teste, cioè da una situazione in presenza della quale la citata giurisprudenza, recepita da quella di legittimità, richiede un rinnovo dell’audizione dei testi, ma da diversità di valutazione sulla configurabilità dell’aggravante contestata inerente la modalità della minaccia.

2. Il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse del M., relativo alla configurabilità dell’aggravante dell’uso di un’arma per la minaccia, è infondato.

Invero, l’art. 229 c.p.m.p., che prevede il reato di minaccia tra militari, con pena edittale della reclusione militare fino a due mesi per l’ipotesi semplice, stabilisce nel terzo comma che la pena è della reclusione militare fino ad un anno se la minaccia è fatta in uno dei modi indicati nell’art. 339 cod. pen., fra i quali è compresa la minaccia commessa «con armi».

Ai sensi dell’art. 260 c.p.m.p., l’ipotesi così aggravata è perseguibile d’ufficio, mentre quella semplice è punibile a richiesta del comandante del corpo.

Nel caso in esame, è pacifico che la minaccia venne commessa con l’uso di un’arma, e la circostanza che questa era scarica non ha alcun rilievo ai fini dell’integrazione dell’aggravante, poiché il maggiore effetto intimidatorio della modalità adottata sull’animo del minacciato non è escluso dalla mancanza di carica.

3. Il terzo e il quarto motivo del ricorso proposto nell’interesse del M., così come entrambi i motivi del ricorso proposto nell’interesse del M., sono inammissibili.

Il giudice del merito ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, le risultanze disponibili, ed è pervenuto ad affermare la responsabilità del M. e del M., in ordine ai reati rispettivamente contestati, analizzando specificamente le condotte mediante richiamo della narrazione della persona offesa ed avvalendosi, per corroborare il giudizio sull’attendibilità di costei, anche delle risultanze delle deposizioni testimoniali di G. L.G. e M. E. E..

Lo sviluppo argomentativo della motivazione posta a sostegno della sentenza impugnata è basato su una coerente analisi critica degli elementi disponibili e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo.

Detta motivazione, quindi, supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato deve arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento delle circostanze fattuali.

Di contro, il ricorso non centra specificamente, in chiave critica, la ratio della sentenza, perché si limita a proporre, con le doglianze sinteticamente elencate supra, valutazioni di elementi di fatto che risultano espressamente già considerati dal giudice del merito o, comunque, pienamente superati dalle assorbenti osservazioni della sentenza.

I motivi, esposti lamentando violazioni di legge o difetti motivazionali, contengono, in realtà, dei tentativi – inammissibili in sede di legittimità – di proporre una rilettura, strumentale a una nuova ricostruzione, delle circostanze di fatto analizzate compiutamente in sede di merito.

La Corte militare di appello ha spiegato, fornendo su ciascuno dei punti rilevanti ampia motivazione idonea a sostenere la decisione, gli elementi dai quali si ricava il concorso del M. nel reato continuato contestato. Nella sentenza impugnata è offerta, senza salti logici e sulla base della corretta applicazione dei principi giuridici sulla valutazione delle prove, una congrua lettura degli elementi probatori disponibili.

4. Il quinto motivo del ricorso proposto nell’interesse del M., motivo con il quale si deduce la violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen., è inammissibile per eccessiva genericità.

La congrua motivazione della sentenza ora impugnata per un verso ha ricollegato l’esclusione delle generiche alla mancanza di elementi che potessero giustificarle ed ha posto in evidenza l’insufficienza a tal fine dell’incensuratezza dell’imputato, per altro verso ha richiamato per la determinazione della pena l’art. 133 cod. proc. pen. e in particolare l’intensità del dolo.

Il motivo di ricorso non offre argomenti capaci di sovvertire, sul piano logico, le considerazioni esposte dalla Corte di appello per giungere alle statuizioni in questione, ma si limita ad esporre considerazioni non decisive, asserendo la mancanza di giustificazioni per il diniego delle generiche e ricordando l’incensuratezza del M., in realtà indiscussa.

5. In conclusione, il ricorso proposto nell’interesse del M. deve essere rigettato e quello proposto nell’interesse del M. deve essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.

Il M. deve essere condannato, inoltre, al versamento della somma di euro 1.500,00 alla cassa delle ammende, non essendo dato escludere – alla stregua del principio di diritto affermato da Corte cost. n. 186 del 2000 – la sussistenza dell’ipotesi della colpa nella proposizione dell’impugnazione.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso di M. G., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Dichiara inammissibile il ricorso di M.I..R. C.