La compagna gli affida un pacco regalo da portare in Italia. La P.G. scopre la droga nascosta all’interno dei tacchi. Arrestato e poi assolto chiede i danni (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 15 marzo 2019, n. 11501).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente –

Dott. CIAMPI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MENICHETTI Carla – Consigliere –

Dott. FERRANTI Donatella – Consigliere –

Dott. TORNESI Daniela R. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.G.J.A., nato il (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 18/06/2018 della CORTE APPELLO di ROMA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa TORNESI DANIELA RITA;

lette le conclusioni del P.G. che ha chiesto l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma per nuovo giudizio.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Roma, con ordinanza del 18 giugno 2018, rigettava l’istanza proposta da A.G.J.A. di riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta in relazione al periodo in cui veniva sottoposto a misura cautelare personale per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, dal quale veniva assolto in via definitiva dal Tribunale di Civitavecchia con la formula perchè il fatto non costituisce reato in data 10 marzo 2014.

1.1. I Giudici della Riparazione rigettavano l’istanza ritenendo sussistente, a suo carico, una condotta gravemente colposa consistita nell’avere accettato di trasportare, su richiesta della compagna, in un viaggio internazionale, dal (OMISSIS) all’Italia, un pacco contenente tre paia di scarpe da bambina che dovevano essere recapitate al fratello di una sua cara amica e al cui interno venivano rinvenute, occultate dentro i tacchi a zeppa, delle buste di cellophane contenenti circa 300 grammi di sostanza stupefacente.

In particolare veniva addebitato all’istante di non avere adeguatamente controllato gli oggetti di cui gli veniva richiesto il trasporto.

2. A.G.J.A., a mezzo del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione elevando, quale unico motivo, il vizio di violazione di legge e il vizio della motivazione.

Sostiene che il mancato controllo delle scarpe non può integrare, nel concreto contesto fattuale, gli estremi di una condotta gravemente colposa; ciò in ragione della circostanza che tali oggetti gli erano stati consegnati dalla sua compagna, H.M.G.C.d.P., soggetto di cui poteva fidarsi, non emergendo alcun elemento che avrebbe potuto o dovuto metterlo in allarme o insospettirlo.

Inoltre le concrete modalità di occultamento dello stupefacente all’interno dei tacchi delle scarpe ed in un quantitativo tale da non alterarne in maniera rilevante il peso, avrebbero, in ogni caso, reso vana qualsiasi forma di verifica preventiva.

Evidenzia, poi, che unitamente alla sua compagna, appositamente rientrata dal (OMISSIS), aveva reso ampie dichiarazioni che permettevano di individuare i responsabili del fatto.

3. Il Procuratore Generale presso questa Suprema Corte, con requisitoria scritta ritualmente presentata, conclude per la fondatezza del ricorso.

4. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con la memoria depositata in data 31 ottobre 2018, ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.

2. Principio costantemente ribadito da questa Corte è che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002 – dep. 15/10/2002, Rv. 222263).

Il giudice della riparazione, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale valutato dal giudice del processo penale deve seguire un “iter” logico-motivazionale del tutto autonomo, perchè è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione (in tal senso, espressamente, Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996 -, Rv. 203638).

E’ però precluso al giudice della riparazione affermare circostanze che sono state escluse dall’accertamento nel merito.

In particolare, quanto al compendio degli elementi valutabili, il S.C. ha ripetutamente puntualizzato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, Rv. 247664; nel medesimo senso già Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996 -, Rv. 203636).

La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione deve concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della cognizione e che possano essere di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver determinato l’imputazione), o di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi); il giudice è peraltro tenuto a motivare specificamente sia in ordine l’addebitabilità all’interessato di tali comportamenti, sia in ordine all’incidenza di essi sulla determinazione della detenzione (Sez. 4, n. 4372 del 21/10/2014 – 2015 – Rv. 263197, Sez. 4, n. 8163 del 12/12/2001 – dep. 2002 -, Rv. 220984).

Vale anche precisare che idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 1, – è non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche “la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell'”id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo.

Poichè inoltre, anche ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto art. 314 c.p.p., comma 1, quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso” (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996 -, Rv. 203637).

3. Ciò posto, va rilevato che la Corte distrettuale – attraverso una inesatta ricostruzione del percorso motivazionale della sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti del ricorrente – ha attribuito valore ostativo a circostanze di fatto già ampiamente esaminate ed escluse nel giudizio di merito omettendo di considerare che l’occultamento della sostanza stupefacente (poco più di 300 grammi) era stato realizzato in modo tale che un semplice esame esterno degli oggetti a lui affidati non potesse rivelarne il loro effettivo contenuto.

La ordinanza impugnata presenta, inoltre, profili di manifesta illogicità laddove, per altri versi, riconosce, in linea con il giudice della cognizione, che il peso esiguo della sostanza (circa 300 grammi) poteva facilmente ingannare l’istante in ordine al giusto peso di tre paia di scarpe, tanto più che il predetto viaggiava con un bagaglio di notevoli dimensioni, salvo poi affermare, che, comunque, la mera natura intercontinentale del viaggio avrebbe dovuto innalzare il suo livello di attenzione e a condurlo ad operare una valutazione approfondita degli oggetti trasportati.

Inoltre non risulta adeguatamente valorizzato il comportamento tenuto dall’istante successivamente all’arresto, avendo collaborato attivamente ai fini della individuazione dei responsabili di tale traffico illecito.

4. Alla stregua delle considerazioni sopra esposte l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Roma cui viene rimessa anche la regolamentazione delle spese fra le parti per questo giudizio.

P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato e rinvia per nuovo esame alla Corte d’Appello di Roma, cui demanda anche la regolamentazione delle spese fra le parti per questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2019