REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Francesca – Presidente –
Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere –
Dott. SESSA Renata – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
DE STEFANO SALVATORE nato a NOCERA INFERIORE il 02/08/1977;
avverso la sentenza del 03/12/2018 della CORTE APPELLO di NAPOLI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Renata SESSA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. Luigi BIRRITTERI che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del GIP del Tribunale di Torre Annunziata, la quale, all’esito di giudizio abbreviato, aveva riconosciuto De Stefano Salvatore colpevole di concorso in falso ideologico in atti pubblici e condannato il medesimo alla pena condizionalmente sospesa – di anni uno e mesi quattro di reclusione.
Il De Stefano, in particolare, è imputato del reato di cui agli artt. 110, 479 c.p. in relazione all’art. 80, comma 13, Codice della Strada, perché in qualità di istigatore e beneficiario, in concorso con altri, che agivano in qualità di pubblici ufficiali, attestava falsamente nel referto di revisione relativo ad un’autovettura di proprietà del De Stefano l’esito regolare della stessa ed apponeva sulla carta di circolazione del veicolo il falso tagliando di revisione “regolare” n. NAAU6OBHR3D, revisione in realtà mai eseguita in Sant’Antonio Abate, atteso che il medesimo giorno e nel medesimo arco temporale l’autovettura circolava in Borello di Cesena.
2. Con atto a firma dell’avv. Alessandro Sintucci è proposto ricorso per Cassazione nell’interesse del De Stefano, articolato in due motivi.
2.1 Con il primo motivo si deduce manifesta illogicità della motivazione in relazione al riconoscimento del concorso ex art. 110 c.p.
Nel caso di specie, la responsabilità concorsuale dell’imputato si basa sull’assunto che il De Stefano sarebbe il diretto beneficiario della condotta illecita materialmente posta in essere dalla coimputata D’Auria Maria Sofia, firmataria del referto di revisione.
Tale supporto motivazionale risulta affetto da illogicità sotto tre diversi aspetti.
In primo luogo, esso addebita una sorta di responsabilità oggettiva al proprietario del veicolo, o comunque presume che l’utilizzo del mezzo comporti automaticamente la responsabilità penale per tutto ciò che concerne la sua gestione.
In secondo luogo, pare desumere la responsabilità della condotta illecita di istigazione semplicemente individuando il soggetto che ha tratto beneficio da questa, senza addurre ulteriori elementi idonei a suffragare la tesi.
Infine, asserire che l’imputato non poteva essere all’oscuro della falsità non equivale a dire che egli abbia istigato il pubblico ufficiale a redigere l’atto falso, poiché il solo fatto di essere a conoscenza di una condotta illecita posta in essere da altri potrebbe al limite integrare un’ipotesi di connivenza non punibile.
2.2 Con il secondo motivo si eccepisce erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 479 c.p.
Si contesta che i giudici del merito abbiano errato nella qualificazione giuridica del fatto, dal momento che la fattispecie prevista dall’art. 479 c.p. presuppone la qualifica di pubblico ufficiale del soggetto attivo e la natura pubblica dell’atto destinato a provare la veridicità di quanto ivi attestato.
A tal proposito si osserva che, oltre al ricorrente, è stata condannata, in concorso ex art. 110 c.p., la sola D’Auria Maria Sofia, la quale rivestiva la qualità di socia della s.r.l. “Centro Revisioni Abatese” e non era stata autorizzata nè abilitata alla gestione delle revisioni.
La condotta di quest’ultima potrebbe tutt’al più integrare la violazione di cui all’art. 483 cod. pen. (trattandosi di falsità ideologica commessa da un privato), solo a patto di qualificare il tagliando di revisione alla stregua di un atto pubblico.
Dopo aver richiamato le condizioni poste dalla sentenza Battaglia di questa Corte (Sez II n. 46273/11), il ricorrente ritiene di aderire all’orientamento espresso dalla Sezione V della medesima Corte di legittimità, in virtù della quale il tagliando di revisione apposto sulla carta di circolazione rimane distinto da essa, assumendo natura di certificato amministrativo e non di atto pubblico in quanto riproducente attestazione già documentata.
In altre parole, il certificato di revisione rilasciato (che si identifica nel tagliando-etichetta apposto sulla carta di circolazione) non ha una autonoma efficacia giuridica poiché riproduce il solo esito di una serie di operazioni già compiute e i cui risultati sono già documentati da altri atti in possesso della pubblica amministrazione.
Diversamente opinando, dovrebbe ritenersi che l’adesivo apposto sulla carta di circolazione faccia fede in relazione a tutte le attività di controllo eseguite sul mezzo, attività che però non vengono annotate sul documento e per le quali non si menziona nemmeno il pubblico ufficiale che vi ha proceduto.
Di conseguenza, la condotta posta in essere dall’imputato non può sussumersi nella fattispecie di cui all’art. 479 c.p., difettando l’elemento dell’atto pubblico oggetto del falso nonché la qualifica di pubblico ufficiale nella persona di D’Auria Maria Sofia.
3. Il ricorso è inammissibile essendo i motivi manifestamente infondati.
Esso non si confronta, innanzitutto, con lo stesso capo di imputazione che fa espresso riferimento sia al referto di revisione che al tagliando apposto sulla carta di circolazione.
E’ lo stesso ricorrente peraltro ad indicare che agli atti del procedimento vi sono sia la copia della carta di circolazione della vettura dell’imputato recante l’etichetta di revisione, sia due documenti — allegati al ricorso – a firma della D’Auria Maria Sofia – che ha sottoscritto gli atti apponendo la propria sottoscrizione sulla stampigliatura del timbro della società di revisione – che descrivono analiticamente le operazioni compiute per l’espletamento della revisione del veicolo, e che si qualificano pertanto a tutti gli effetti come atto pubblico – cd. referto di revisione – in quanto atti primari e non derivati – a differenza della etichetta di revisione contenente una mera certificazione; atto di natura pubblica in quanto da ricondursi a un pubblico ufficiale, trattandosi di un’attività, quella di revisione – direttamente compiuta o di un fatto avvenuto alla sua presenza – della P.A., disciplinata da norme di diritto pubblico (art. 80, commi 1 e 17, c.s.), di guisa che a coloro che la svolgono è riservata la qualifica di pubblici ufficiali in quanto formano o concorrono a formare la volontà della P.A. per mezzo dei poteri certificativi ad essi conferiti dalla legge (cfr. Cass., sez. 5, 7.3.2008, n. 14256, B. e altro, rv. 239437).
Ed allora, è ben vero che, secondo un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di falso documentale, l’etichetta di revisione applicata alla carta di circolazione di motocicli ed autoveicoli non ha natura giuridica di atto pubblico, bensì di certificato amministrativo, in quanto destinato ad attestare l’esito positivo dell’attività documentata dalla pratica di revisione, di cui si limita a riprodurre gli effetti (Sez. 5, n. 49221 del 04/10/2017 – dep. 26/10/2017, Borrega, Rv. 27141401), ma è altrettanto vero che integra gli estremi del reato di falsità ideologica in atto pubblico la condotta di colui che, in qualità di proprietario, amministratore o collaboratore di un’officina autorizzata alla revisione delle auto, attesti falsamente l’avvenuta revisione delle auto, dando atto che sono state compiute tutte le operazioni necessarie per l’espletamento della revisione del veicolo e con esito positivo quanto alla prova di regolarità delle parti esaminate.
4. Che la falsa attestazione in atto pubblico fosse stata eseguita nell’interesse del proprietario del veicolo committente, e quindi in concorso con questi, è spiegato parimenti in maniera più che esaustiva nella motivazione della sentenza impugnata, con la quale quindi il ricorso mostra di non confrontarsi neppure in parte qua; ed invero, evidenzia la sentenza impugnata – rispetto a rilievo analogo già sollevato in sede di appello e qui ripetuto – come non solo fosse del tutto inverosimile ciò che aveva dedotto la difesa, senza che peraltro l’imputato avesse mai reso una siffatta spiegazione nell’ambito del procedimento neppure mediante spontanee dichiarazioni – ovvero che l’attestazione era stata apposta sulla carta di circolazione lasciata per distrazione presso la società di revisione – ma anche come costituisse l’unica ipotesi logicamente apprezzabile ritenere che la falsità fosse stata concordata con l’imputato; questi, infatti, nonostante sapesse che il veicolo non era stato lasciato presso la sede sociale per essere revisionato, si giovò della falsa certificazione sulla carta di circolazione corredata dai documenti che attestavano anche l’avvenuto espletamento delle attività propedeutiche alla verifica del caso, essendo egli l’unico ad avervi interesse.
I motivi sono quindi manifestamente infondati, oltre che, sostanzialmente, versati in fatto quelli che attraverso vizi deducibili in questa sede, quale quello argomentativo, comportano, in buona sostanza, la verifica di circostanze afferenti il merito della vicenda.
5. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 606 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il giorno 8 giugno 2020.