LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. MARGHERIATA MARIA LEONE – Presidente –
Dott. ROBERTO RIVERSO – Consigliere –
Dott. ANTONELLA PAGETTA – Consigliere –
Dott. FABRIZIO AMENDOLA – Rel. Consigliere –
Dott. FRANCESCO BUFFA – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 17712-2023 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 321/2023 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 07/07/2023 R.G.N. 164/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2025 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.
RILEVATO CHE
1. la Corte di Appello di Torino, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato “l’ingiustificatezza del licenziamento irrogato al dott. (OMISSIS) (OMISSIS)” dalla (OMISSIS) della (OMISSIS) (OMISSIS) e ha condannato quest’ultima a pagare un’indennità risarcitoria commisurata a 8 mensilità di retribuzione;
2. la Corte, in estrema sintesi, ha innanzitutto respinto l’eccezione di inammissibilità del gravame sollevato dall’appellata, argomentando che “dalla lettura complessiva degli atti di appello emergono con sufficiente chiarezza quali sono le parti della sentenza appellate, le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto operata dal primo giudice, le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”;
la Corte territoriale, poi, ha esaminato gli addebiti disciplinari rivolti al (OMISSIS), dirigente medico responsabile della struttura complessa di anestesia e rianimazione della casa di cura, sostanzialmente consistenti nell’aver utilizzato un farmaco in modalità off label senza aver specificatamente informato taluni pazienti circa la sua possibile utilizzazione in tale modalità;
indi, valutate le prove testimoniale, ha ritenuto trattarsi “di condotte a tutti note e da tutti condivise”, per cui da un lato la contestazione doveva considerarsi tardiva e dall’altro ha ravvisato una lieve negligenza, comunque “non tale da configurare la sussistenza della giustificatezza del licenziamento, sanzione assolutamente sproporzionata al fatto”, anche per la mancanza di precedenti disciplinari;
3. per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la soccombente con tre motivi;
ha resistito con controricorso l’intimato;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
1. i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa difesa della ricorrente;
2.1. il primo motivo denuncia: “nullità della sentenza e del procedimento anche per omessa pronuncia per violazione dell’art. 112-113 c.p.c. nonché per violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. ed in particolare per mancata pronuncia di inammissibilità dell’appello proposto dal Dott. (OMISSIS) in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.”;
2.2. il secondo motivo denuncia: “omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. e/o travisamento delle prove in violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 n.4 c.p.c. e/o comunque e in ogni caso violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 7 della L. 20.05.1970, n. 300, all’art. 3 del D.L. 17.02.1998, n. 23, convertito in L. 8.04.1998, n. 94, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”;
si deduce che “l’istruttoria orale e i documenti versati in atti smentiscono e contraddicono la sussistenza di una prassi che potesse scriminare il comportamento” del dirigente medico;
si sostiene che la sentenza impugnata non si sarebbe confrontata con “evidenze testimoniali”;
si eccepisce che la Corte territoriale avrebbe “travisato” le prove acquisite;
2.3. il terzo motivo denuncia: ““violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 3 del D.L. 17.02.1998, n. 23, convertito in L. 8.04.1998, n. 94, all’art. 2119 cod. civ., all’art. 13 del CCNL dirigenza medica 7.10.2020, all’art. 7 della L. 20.05.1970, n. 300, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”;
si critica diffusamente la sentenza gravata per aver qualificato la condotta del medico come di “lieve negligenza”, assumendo che, invece, “la gravità della violazione risiede direttamente nel disposto normativo e negli interessi primari che esso intende tutelare” e che ciò avrebbe dovuto condurre la Corte territoriale a considerare la condotta contestata “tale da pregiudicare il rapporto fiduciario, giustificando il recesso datoriale anche sotto il profilo della proporzionalità”;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. il primo motivo è infondato;
infatti, come riportato nello storico della lite, la Corte territoriale si è espressamente pronunciata sulla eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dall’appellata, di modo che di omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c. non è dato parlare, dovendosi poi ritenere che le altre doglianze contenute nell’eccezione siano state implicitamente disattese;
per altro verso la pronuncia è conforme al principio stabilito dalle Sezioni unite civili (Cass. SS.UU. n. 27199 del 2017) che hanno considerato, in relazione agli artt. 342 e434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, come, per superare il vaglio di ammissibilità dell’appello, non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”, risultando sufficiente che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze”;
si è, in particolare, ribadito che “la riforma del 2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l’appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata […] l’appello è rimasto una revisio prioris instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l’appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione”;
secondo il Supremo Collegio “la diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre all’inammissibilità dell’appello a determinate condizioni (artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ.), ha nel contempo ristretto le maglie dell’accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione;
il che impone di seguire un’interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste”;
tanto in coerenza con la “regola generale” secondo cui “le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale” (tra le successive conf. v. Cass. n. 13535 del 2018; Cass. n. 7675 del 2019);
infine, quanto alla lamentata mutatio libelli in appello, la Corte territoriale, ferma la declaratoria di illegittimità del licenziamento richiesta sin dall’atto introduttivo del giudizio, si è limitata a fornire qualificazione giuridica alle conseguenze sanzionatorie stabilite dalla legge e dal contratto, nei limiti di una tutela indennitaria inferiore e contenuta nell’originaria domanda, immutati i fatti costitutivi della medesima (cfr. Cass.n. 32932 del 2024);
2.2. il secondo motivo è inammissibile;
innanzitutto perché contiene promiscuamente la contemporanea evocazione dei numeri 3, 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c., senza una specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da è […] irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016; Cass. n. 3141 del 2019, Cass.n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019; Cass. n. 18560 del 2019);
in secondo luogo, si deduce il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti consentiti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, sollecitando una diversa valutazione del materiale istruttorio come conclamato dall’ampio riferimento nel motivo a documenti e a deposizioni testimoniali;
quanto, poi, all’eccepito travisamento della prova, le Sezioni unite hannooramai chiarito che: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale» (Cass. SS.UU. n. 5792 del 2024);
la pronuncia ha pure evidenziato che, “se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, […], rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle «carte» processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di più”, assegnando “alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito”; il che è proprio quanto sollecitato dalla censura in esame;
2.3. parimenti inammissibile il terzo motivo;
sia per difetto di adeguata specificità rispetto alla sequela di norme di cui si lamenta la violazione, atteso che il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002);
l’osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. n. 19100 del 2006) ed è dunque inammissibile un ricorso che non consenta di individuare in che modo e come le numerose norme invocate sarebbero state violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto asseritamente trasgrediti nonché i punti della motivazione specificamente viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata);
ma il motivo è inammissibile anche perché volto a contestare l’apprezzamento in ordine alla gravità e proporzionalità della sanzione espulsiva; secondo un risalente e costante insegnamento, infatti, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003);
la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020);
tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016; da ultimo, in conformità, Cass. n. 107 del 2024);
nel caso all’attenzione del Collegio, la sostanza della censura mira a contestare il giudizio di proporzionalità, senza enucleare un fatto realmente decisivo omesso che sarebbe stato trascurato dalla Corte territoriale, nonché a criticare l’apprezzamento della gravità della condotta tenuta in concreto dal medico, che, secondo la casa di cura ricorrente, avrebbe meritato la massima sanzione;
ma così si sollecita un sindacato che esonda dai confini del giudizio di legittimità perché spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa (sui limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022).
3. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presuppi processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 27 febbraio 2025.
Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2025.