All’avvocato che delinque, per conto della criminalità organizzata (cosca Bellocco), è interdetto dalla professione (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 29 ottobre 2020, n. 30063).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IASILLO Adriano – Presidente

Dott. CIAMPI Francesco Mari – Consigliere

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere

Dott. BONI Monica – Rel. Consigliere

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

CACCIOLA GREGORIO nato a ROSARNO il 10/06/1958;

avverso l’ordinanza del 14/10/2019 del TRIBUNALE di PALMI;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MONICA BONI;

lette le conclusioni del PG, Dott. Ferdinando LIGNOLA, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza in data 14 ottobre 2019 il Tribunale di Palmi, pronunciando quale giudice dell’esecuzione, respingeva l’istanza, proposta nell’interesse di Gregorio Cacciola, volta ad ottenere la revoca o l’accertamento dell’avvenuta espiazione della pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione forense per la durata di cinque anni, inflittagli con sentenza del Tribunale di Palmi del 24 aprile 2015, irrevocabile il 15 novembre 2017.

A fondamento della decisione, il giudice rilevava che quella irrogata all’istante costituisce sanzione penale, che non è configurata come alternativa alla sospensione cautelare dalla professione, disposta dall’Ordine degli avvocati e che la determinazione della sua durata, ancorché superiore a quella della pena principale, è stata operata correttamente in fase di cognizione, avvalendosi dei poteri discrezionali di cui all’art. 133 cod. pen. ed al di fuori del vincolo imposto dall’art. 37 cod. pen. senza che in quel giudizio fossero state sollevate contestazioni sul punto con le impugnazioni.

2. Ricorre per cassazione Gregorio Cacciola a mezzo del difensore, avv.to Armando Veneto, che deduce violazione di legge per inosservanza dell’art. 54, comma 4, della legge n. 247 del 2012 e degli artt. 31 ultima parte e 37 cod. pen. e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

Secondo la difesa, il Tribunale ha omesso di pronunciare in ordine alla questione principale posta con l’incidente di esecuzione, ossia sulla richiesta di computo ex art. 54, comma 4, legge n. 247/2012 del periodo di interdizione dalla professione, che aveva avuto corso dal 15 novembre 2017, momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, nella durata della sospensione cautelare dall’esercizio della professione, disposta dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Palmi con delibera n. 45 del 25 febbraio 2014 con durata ininterrotta sino al 15 novembre 2017 e quindi per un periodo complessivo superiore ai cinque anni di sanzione accessoria, disposta dall’autorità giudiziaria. Il che è già sufficiente, in tesi difensiva, per ottenere l’annullamento del provvedimento e la declaratoria della già avvenuta esecuzione della pena medesima.

Oltre a ciò, il Tribunale ha ritenuto inapplicabile il principio di alternatività, citando un passaggio del parere del pubblico ministero, riguardante il computo ex art. 54 sopra citato, norma che introduce una regola dal tenore chiarissimo, prevedendo il cumulo e la fungibilità tra pena accessoria penale e sanzione disciplinare.

Inoltre, il Tribunale ha ignorato che l’istituto dell’alternatività era stato invocato in riferimento alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’interdizione dall’esercizio della professione, che è stata imposta ai sensi dell’art.31 cod. pen..

Quanto all’invocata applicazione della disposizione di cui all’art. 37 cod. pen., il Tribunale ha richiamato la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 28910 del 2019, senza tener conto che non sarebbe stato possibile far valere la questione in sede di cognizione, poiché l’entità della pena principale era stata stabilita all’esito del giudizio di legittimità, allorché la Corte Suprema aveva in parte annullato senza rinvio la sentenza di appello, eliminando un anno di reclusione e determinando la pena complessiva in quattro anni ed otto mesi di reclusione, sicché l’unico rimedio era costituito dall’incidente di esecuzione.

Il Tribunale di Palmi aveva poi imposto l’interdizione dall’esercizio della professione quale conseguenza ex lege della condanna principale e, non essendo per tale pena stabilita espressamente la durata da parte della legge, la stessa va parametrata a quella della pena principale o meglio di quella stabilita per il reato più grave tra quelli unificati per continuazione, pari a due anni e sei mesi.

Infine, va contestato anche il rilievo sostenuto dal pubblico ministero, per il quale la sospensione applicata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palmi avrebbe natura volontaria perché disposta ex art. 20, comma 2, della legge professionale.

L’argomento non è giuridicamente fondato, in quanto:

a) nella parte motiva della delibera si legge che la richiesta di sospensione presentata dal Cacciola si è trovata in coincidenza con la procedura disciplinare in atto, che ha imposto l’adozione del provvedimento cautelare;

b) a riprova, anche la decisione del Consiglio di Disciplina Distrettuale di Reggio Calabria del 10 ottobre 2018 ha respinto la richiesta di revoca della sospensione dalla professione per l’esigenza di evitare il c.d. “strepitus fori”, che nell’ipotesi di cui all’art. 20 non avrebbe avuto ragione d’essere.

3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, dr. Ferdinando Lignola, ha chiesto il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato e non merita dunque accoglimento.

1. La vicenda processuale all’odierno esame riguarda il tema della commisurazione temporale della sanzione accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione forense, inflitta al ricorrente nella misura di anni cinque con sentenza di condanna irrevocabile, che ne ha accertato in via definitiva la responsabilità per plurimi delitti di violenza o minaccia per costringere alla commissione di un reato e di favoreggiamento personale, commessi dal 27 luglio al 23 agosto 2011 in concorso con altri ed aggravati dalla finalità di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta nella sua articolazione operante in Rosarno e zone limitrofe, nota quale cosca Bellocco.

La vicenda criminosa, sulla quale si è formato il giudicato, riguarda le pressioni e le minacce reiterate, attuate dai familiari con l’ausilio di Cacciola e di Vittorio Pisani, esercenti all’epoca la professione di avvocato, per costringere Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia, a fare rientro a Rosarno dalla località protetta ove era stata collocata, a ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese all’Autorità giudiziaria a carico di esponenti della cosca Bellocco ed a commettere i delitti di autocalunnia e favoreggiamento personale.

1.1 La domanda proposta nelle forme dell’incidente di esecuzione non ha trovato risposta positiva da parte del giudice di merito sul presupposto che la questione della durata della sanzione accessoria era stata già determinata nel processo di cognizione e che su di essa, in assenza peraltro di contestazioni difensive, si era formato il giudicato, sicché non era ammissibile un intervento postumo di riduzione della durata, che era stata stabilita in coerenza con la norma di cui all’art. 30 cod. pen..

1.2 La pretesa del ricorrente di ottenere una risposta favorevole, che comporti la rideterminazione in termini meno gravosi della durata della pena accessoria e l’accertamento della sua integrale esecuzione si fonda su plurime deduzioni, nessuna delle quali meritevole di accoglimento.

2. In primo luogo, non assume rilievo al fine di riscontrare l’illegittimità del provvedimento impugnato la dedotta omessa considerazione e pronuncia in ordine all’applicabilità al caso di specie della disposizione di cui all’art. 54, comma 4, della legge n. 247 del 2012.

Sebbene la censura trovi riscontro nell’omessa disamina del tema, non condotta nemmeno per implicito, nel percorso argomentativo dell’ordinanza in esame, tuttavia l’omissione denunciata non vulnera la correttezza giuridica della decisione reitettiva se solo si considera il tenore letterale della disposizione di legge, che dovrebbe regolare i rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale quanto allo specifico profilo delle sanzioni comportanti la privazione della capacità di esercitare la professione forense ed alla rispettiva durata, applicabili secondo le previsioni dei rispettivi ordinamenti.

2.1 L’art. 54, comma 4, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, che ha introdotto la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, prescrive: “la durata della pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione inflitta dall’autorità giudiziaria all’avvocato è computata in quella della corrispondente sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione”.

Il tenore letterale della disposizione indica chiaramente la volontà del legislatore di coordinare, non di cumulare, quanto all’aspetto della protrazione temporale della misura interdittiva, la durata della sanzione disciplinare con quella della corrispondente pena accessoria irrogata nel processo penale e ciò a ragione dell’incidenza inibitoria di entrambe sulla facoltà di esercitare la professione forense.

Il dato testuale autorizza però a ritenere che il rapporto così disciplinato operi con una duplice limitazione.

Da un lato è la commisurazione temporale della sospensione disciplinare a dover tener conto ed a scomputare la durata della sanzione accessoria penale e non l’opposto, sicché non è in base alla disposizione in esame che il professionista legale, che sia stato dichiarato responsabile di un illecito penale e condannato alla pena complementare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività forense ai sensi dell’art. 31 cod. pen., può chiedere nella fase dell’esecuzione penale la rimodulazione della durata di quest’ultima misura punitiva in funzione della durata della sanzione disciplinare, come avvenuto nel caso specifico.

Dall’altro lato la disposizione riguarda soltanto il rapporto tra la pena accessoria penale e sanzione disciplinare, ossia inflitta al professionista nell’ambito ed all’esito del procedimento disciplinare celebrato davanti agli organi preposti alla funzione disciplinare della categoria di appartenenza.

Resta estranea al meccanismo di computo di cui all’art. 54 la misura della sospensione cautelare dall’esercizio della professione, adottata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati nei confronti di un iscritto sottoposto a procedimento penale per rispondere di un fatto costituente reato.

2.2 L’istituto della sospensione cautelare dall’esercizio della professione forense all’epoca della commissione dei fatti di reato era disciplinato dall’art. 43, commi 3 e 4, del Regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, per il quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati può disporre tale misura nei confronti dell’avvocato, che fosse sottoposto a misura di prevenzione della sorveglianza speciale o contro il quale fosse stato emesso mandato o ordine di comparizione o di accompagnamento in un procedimento penale sul presupposto della contestazione della commissione di un fatto di reato, della gravità dell’addebito e del discredito conseguente per la professione forense.

La norma non stabiliva limiti di durata della sospensione, che era distinta dalla sanzione disciplinare vera e propria, irrogabile a conclusione del relativo procedimento.

Così delineato, l’istituto era risultato incoerente con il nuovo codice di procedura penale del 1988, che aveva eliminato il mandato o l’ordine di comparizione e di accompagnamento; pertanto, la successiva interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità civile e da quella disciplinare forense ne aveva adattato l’applicazione al contesto del nuovo sistema processale, stabilendola nei casi di contestazione in sede penale di comportamenti gravi sul piano disciplinare e deontologico, della sottoposizione dell’avvocato a misure cautelari personali, oppure della pronuncia della sentenza di condanna, sebbene non ancora irrevocabile.

La legge 31 dicembre 2012, n. 247, nell’introdurre la nuova disciplina dell’ordinamento professionale forense, ha trattato anche del procedimento disciplinare ed all’art. 60 ha previsto la sospensione cautelare dall’esercizio della professione di avvocato con la previsione di sensibili modifiche rispetto al regime previgente, in quanto la sua irrogazione, demandata al Consiglio Distrettuale di disciplina, è subordinata alla ricorrenza di alcuni presupposti tassativamente previsti, tra i quali non è richiesta la già avvenuta apertura del procedimento disciplinare e l’elevazione di un’accusa specifica a carico del professionista e sono stabiliti limiti massimi di durata, pari ad un anno, oltre che l’inefficacia della sospensione, se nel termine di sei mesi dalla sua irrogazione non venga adottato il provvedimento sanzionatorio.

Costituisce pacifico principio di diritto, affermato dalla giurisprudenza di legittimità civile, che si occupa delle controversie relative al potere sanzionatorio nei riguardi dei professionisti, che qualunque sia la disciplina applicabile ratione temporis, la sospensione cautelare “non ha natura di sanzione, costituendo piuttosto un provvedimento amministrativo a carattere provvisorio, avente natura propriamente discrezionale, (…) la cui ratio va individuata nell’esigenza di tutelare e salvaguardare la dignità e il prestigio dell’Ordine forense” (Sez.U. civ., n. 28505 del 23/12/2005, rv. 587955; Sez. U. civ., n. 26148 del 24/10/2017, rv. 645815; Sez. U. civ., n. 19652 del 24/07/2018, rv. 649831; Sez. U. civ., n. 9558 del 13/03/2018, rv. 264104).

Secondo le chiare ed ineccepibili indicazioni ermeneutiche, fornite dalle Sezioni Unite civili sino alle pronunce più recenti, cui si ritiene di aderire, la sospensione cautelare “non è né un provvedimento giurisdizionale, né una forma di sanzione disciplinare, come tale suscettibile di applicazione soltanto dopo il procedimento disciplinare, ma costituisce, al contrario, un provvedimento cautelare incidentale di natura amministrativa non giurisdizionale a carattere provvisorio, svincolato dalle forme e dalle garanzie del procedimento disciplinare, nel senso che non richiede la preventiva formale apertura di un procedimento disciplinare.

Tali caratteristiche, del resto, sono rimaste immutate anche con la nuova formulazione dell’istituto di cui all’art. 60 della legge 247/2012, che rimarca in maniera espressa la indipendenza del provvedimento di sospensione cautelare dalla formulazione di un capo di incolpazione e dalla apertura di un procedimento disciplinare” (Sez. U. civ., n. 18984 del 31/07/2017, rv. 645130).

In conseguenza di siffatta qualificazione giuridica della sospensione cautelare e della natura non giurisdizionale del provvedimento che la dispone resta esclusa l’applicabilità a tale istituto della disciplina attinente alle sanzioni di carattere deontologico, compresa la disposizione di cui all’art. 54, comma 4, legge n. 247/2012.

2.3 Del resto, anche considerata la questione in riferimento alla regolamentazione della durata delle pene accessoria, contenuta nel sistema penale, le uniche disposizioni che prevedono lo scomputo dalla durata delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici o dall’esercizio di professione o arte, dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, della decadenza dalla responsabilità genitoriale di una misura di contenuto corrispondente sono costituite dall’art. 662, comma 2, cod. proc. pen. con riferimento al periodo di sottoposizione dell’imputato alle misure cautelari interdittive di cui agli artt. 288, 289 e 290 cod. proc. pen., che nel caso non risultano applicate al ricorrente e dall’art. 139 cod. pen., per il quale “nel computo delle pene accessorie temporanee non si tiene conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva o è sottoposto a misura di sicurezza detentiva, né del tempo in cui egli si è sottratto volontariamente alla esecuzione della pena o della misura di sicurezza”.

Secondo quest’ultima norma, che detta il criterio di raccordo cronologico tra le diverse sanzioni irrogate con lo stesso titolo e criteri di priorità di esecuzione, l’espiazione di pena o di misura di sicurezza detentiva o la volontaria sottrazione da parte del condannato non rilevano ai fini del calcolo della durata della pena accessoria temporanea, che verrà differita rispetto a quella principale, non appena la cessazione dell’esecuzione di quest’ultima lo consentirà.

La giurisprudenza di questa Corte al riguardo ha confermato l’interpretazione esposta, secondo la quale la pena accessoria temporanea, che sia incompatibile con la detenzione presso istituto penitenziario o con l’esecuzione mediante misura alternativa alla carcerazione, deve essere eseguita soltanto dopo che sia stata scontata la pena principale detentiva, dipendendo la contestuale esecuzione dalla loro compatibilità (sez. 1, n. 13499 deò 9/03/2011, Lieto, rv. 249865).

2.4 Sulla scorta di tali rilievi, di incontestata validità giuridica e del tutto pretermessi nell’analisi compiuta dalla difesa, che mostra nei fatti di confondere sul piano ontologico la sanzione disciplinare vera e propria e la sospensione cautelare, nell’impugnazione difetta anche l’illustrazione compiuta e documentata dei presupposti fattuali che dovrebbero sostenere la fondatezza della domanda. Invero, si ignora quando la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione di avvocato sia stata posta in esecuzione nei riguardi del ricorrente e se ciò sia mai avvenuto.

Il ricorso mostra di ritenere la stessa eseguita dal 15 novembre 2017, data di irrevocabilità della sentenza di condanna, ma l’assunto è teorico, confonde l’esecutività della pronuncia penale irrevocabile, ossia l’idoneità a realizzare la potestà punitiva dello Stato nei riguardi del cittadino giudicato responsabile e punito e la concreta attuazione del relativo comando giudiziale, che ha stabilito e dosato la punizione del reo.

Inoltre, ignora il disposto dell’art. 662, comma 1, cod. proc. pen., per il quale l’esecuzione penale delle sanzioni complementari a quella principale avviene ad iniziativa del pubblico ministero e con gli adempimenti ivi previsti.

Oltre all’erronea impostazione giuridica, nessuna informazione viene fornita sui tempi e modi dell’esecuzione della pena principale detentiva, sicchè il Collegio si trova nell’impossibilità materiale di verificare sotto il profilo dedotto in ricorso se al momento attuale sia interamente decorso il periodo di interdizione inflitto a Cacciola.

3. Si assume da parte del ricorrente anche la patita violazione del principio di alternatività, stabilito dall’art. 31 cod. pen., tra l’interdizione dai pubblici uffici e l’interdizione dalla professione forense, posto che con la sentenza penale di condanna gli sarebbero state inflitte entrambe le sanzioni e che sul tema nessuna argomentazione sarebbe stata spesa dal Tribunale, limitatosi ad affrontare la tematica sotto il profilo del concorso di sospensione cautelare ed interdizione dalla professione.

3.1 Sebbene nell’ordinanza impugnata la questione non abbia ricevuto trattazione, deve rilevarsi d’ufficio che la stessa soggiace agli effetti preclusivi del giudicato esecutivo.

Il tema della corretta applicazione e della durata della pena accessoria dell’interdizione dalla professione legale, applicata a Cacciola con la sentenza di condanna, in relazione alla sottoposizione anche alla interdizione dai pubblici uffici è stato affrontato dopo la formazione del titolo esecutivo, una prima volta con la sentenza della prima sezione penale di questa Corte n. 42541 del 25/06/2018, che, decidendo in ordine al ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. avverso la precedente sentenza di legittimità n. 1003 del 15/11/2017, dep. 2018, aveva respinto il motivo, rilevando l’impossibilità di emendare in sede esecutiva la statuizione irrevocabile sulla pena accessoria, anche se giuridicamente erronea, e comunque la indeducibilità di vizi della sentenza relativi alla inapplicabilità della interdizione dalla professione per effetto dell’irrogazione della interdizione dai pubblici uffici in quanto “rimette in discussione un tema di carattere valutativo già scrutinato e deciso in sede di cognizione e non risulta suscettibile di riesame attraverso l’incidente di esecuzione proposto … ogni censura sul punto si sarebbe dovuta svolgere pertanto attraverso l’impugnazione ordinaria’ e non utilizzando ex post l’istanza di correzione di errore materiale” (pag. 11 motivazione).

Una seconda pronuncia di egual tenore sullo stesso tema è contenuta nella sentenza n. 48086 del 7/10/2019, emessa dalla quinta sezione di questa Corte, che l’ha affrontato nell’ambito dell’incidente di esecuzione proposto da Gregorio Cacciola per censurare la mancata correzione dell’errore relativo sempre alla pena interdittiva e che ha respinto ogni doglianza per ragioni di infondatezza, rilevando che la corretta interpretazione dell’art. 31 cod. pen. non implica il riconoscimento di un potere discrezionale di scelta tra le due sanzioni alternative, rimesso al giudice, perché la norma si riferisce “a due diverse situazioni relative all’irrogabilità della pena, in considerazione della qualità soggettiva del reo (pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio oppure esercente una professione, arte, industria…).

Ne consegue che se il condannato riveste la duplice ed inseparabile qualità di pubblico ufficiale o esercente il pubblico servizio e di esercente una professione, legittimamente possono applicarsi insieme l’una e l’altra pena accessoria”, situazione che è stata ravvisata nel caso di Cacciola, professionista e condannato a pena detentiva che rientra nella previsione dell’art.29 cod. pen..

Infine, sulla medesima tematica è intervenuta una terza pronuncia di questa Corte, quinta sezione penale, la n. 13639 del 15/02/2019, che ha dichiarato inammissibile un ulteriore ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen. proposto avverso la sentenza n. 42541 del 25/06/2018, escludendo che questa decisione fosse inficiata da di errori di fatto, sia quanto alla determinazione della durata dell’interdizione dall’esercizio della professione legale in relazione al disposto dell’art. 37 cod. pen., sia quanto alla pretesa alternatività di tale sanzione rispetto all’interdizione dai pubblici uffici in base a quanto disposto dall’art. 31 cod. proc. pen..

Si è affermato testualmente che “la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha espresso un giudizio basato sulla esegesi delle norme applicabili alla fattispecie e che non è incorsa in nessun errore “di fatto”, in quanto è partita ed ha sviluppato il discorso sulla base di dati nemmeno contestati dal ricorrente: il fatto, cioè, che l’inapplicabilità congiunta delle pene dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’interdizione dalla professione non sia stata dedotta in sede cognitiva; il fatto che l’art. 30 cod. pen. non predetermini, in maniera “non discrezionale”, la durata dell’interdizione dalla professione (sia pure si ammettesse, per assurdo, che un’errata lettura dell’art. 30 cod. pen. possa determinare un “errore di fatto”)”.

3.2 Giova richiamare al proposito quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18228 del 21/01/2010, Beschi, rv. 246651, che ha offerto una puntuale ricognizione dei presupposti applicativi della preclusione, derivante dalla pronuncia di precedente statuizione giudiziale su un medesimo tema di rilievo nell’esecuzione penale, oggetto di domanda riproposta per una reiterata deliberazione, che rinviene il proprio referente dr sistema nel principio generale che vieta il bis in idem e la disciplina positiva nella disposizione dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., per la quale il giudice dell’esecuzione dichiara inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui medesimi elementi, di altra già valutata.

3.2.1 Premessa l’impropria evocazione della nozione di giudicato in riferimento ai provvedimenti del giudice dell’esecuzione, suscettibili di revoca per la natura provvisoria delle determinazioni assunte, espressione di «un accertamento giudiziale a contenuto limitato», e per il perseguimento da parte della relativa disciplina della finalità rieducativa della pena, si è evidenziato che ragioni di economia e di efficienza processuale giustificano «la stabilizzazione giuridica di siffatto accertamento, (che, n.d.r.) deve essere designata con il termine “preclusione”, proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato», più propriamente riferibile al provvedimento emesso nel giudizio di cognizione. Si è altresì segnalata la limitata portata dell’effetto «autoconservativo» di siffatto accertamento, perché circoscritta alla deduzione dello stesso oggetto in relazione a presupposti di fatto e ragioni di diritto, identici a quelli rappresentati con precedente istanza, già esaminata e decisa.

3.2.2 I successivi interventi delle singole sezioni di questa Corte hanno ulteriormente precisato l’ambito di operatività della preclusione e rilevato che il provvedimento del giudice dell’esecuzione, una volta divenuto formalmente irrevocabile, perché non impugnato o per il rigetto dell’impugnazione proposta, impedisce una nuova pronuncia sul medesimo petitum, non in termini assoluti e definitivi, ma soltanto allo stato delle questioni trattate.

Poiché l’art. 666, comma 2, cod. proc. pen. commina l’inammissibilità della domanda se mera riproposizione di una richiesta “basata sui medesimi elementi”, è consentito investire il giudice dell’esecuzione della nuova istanza a condizione che si rappresentino nuove tematiche giuridiche o nuovi dati di fatto, sia sopravvenuti, sia preesistenti, ma non esposti e non presi in considerazione nella decisione antecedente (sez. 1, n. 9780 del 11/01/2017, Badalamenti, rv. 269421; sez. 1, n. 19358 del 05/10/2016, dep. 2017, Crescenza, rv. 269841; sez. 3, n. 6051 del 27/09/2016, dep. 2017, Barone, rv. 268834; sez. 3, n. 50005 del 01/07/2014, Iacomino e altro, rv. 261394; sez. 1, n. 29983 del 31/05/2013, Bellin, rv. 256406; sez. 1, n. 36005 del 14/06/2011, Branda, rv. 250785; sez. 1, n. 3736 del 15/01/2009, Anello, rv. 242533).

La rassegna degli orientamenti interpretativi, formatisi sul tema, va completata con la precisazione che l’effetto preclusivo ricollegabile alla decisione esecutiva non opera esclusivamente quando si sia già formato il giudicato formale, ma è riconoscibile anche al provvedimento, seppur impugnato, nel senso che con la decisione il giudice dell’esecuzione esaurisce il proprio potere cognitivo e la propria funzione, sicché l’istante, per conseguire il risultato denegato, non può nuovamente interpellarlo tramite proposizione di ulteriore incidente di esecuzione per provocarne una nuova valutazione dei medesimi temi in fatto o in diritto, già oggetto di pronuncia allo stato immodificabile, in assenza di spunti innovativi (sez. 1, n. 25345 del 19/03/2014, Nozzolino, rv. 262135; sez. 3, n. 10224 del 04/02/2010, Colia, rv. 246346; sez. 1, n. 5687 del 18/11/1998, dep. 1999, Marra, rv. 212793).

La ratio della disposizione, finalizzata a comporre e ad impedire l’insorgenza di contrasti tra decisioni diverse, intervenute sulla medesima questione a fronte di presupposti coincidenti, ne impone un’ampia applicazione poiché l’inconveniente che intende evitare può porsi anche soltanto per effetto della contestuale pendenza di giudizi distinti sullo stesso oggetto in presenza di una immutata situazione di fatto o di identiche questioni di diritto.

Per le medesime considerazioni é pacificamente riconosciuta la possibilità di rilevare anche d’ufficio nel giudizio di legittimità l’eventuale inammissibilità di un’istanza proposta nelle forme dell’incidente di esecuzione, se manifestamente infondata, oppure reiterativa di una domanda già esaminata in mancanza di profili originali, con la comunicazione della medesima sanzione d’inammissibilità anche al ricorso per cassazione proposto avverso la decisione esecutiva, che, errando, l’abbia esaminata nel merito e l’abbia respinta in luogo di dichiararla inammissibile, come dovuto.

3.2.3 Ed è quanto verificatosi nel caso all’odierno esame, in cui il condannato, dopo avere proposto un primo ricorso straordinario avverso la sentenza di legittimità che ha definito il processo in fase di cognizione, ha introdotto un incidente di esecuzione riguardante la sentenza che aveva parzialmente respinto la sua impugnazione ex art. 625-bis cod. proc. pen., quindi ha investito il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Palmi delle medesime questioni in fatto ed in diritto riguardanti durata della sanzione accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione ed alternatività della stessa rispetto all’interdizione dai pubblici uffici, senza dedurre nessun profilo innovativo rispetto alle precedenti istanze.

In altri termini pur, avendo già sperimentato tutto lo strumentario che l’ordinamento riconosce per contestare sui due punti predetti il titolo esecutivo, ha reiterato la stessa domanda per conseguire il medesimo effetto favorevole dell’esclusione della misura interdittiva della professione forense, sebbene le decisioni della Corte Suprema avessero già dato atto della indeducibilità nella fase di esecuzione delle questioni sollevate e della corretta interpretazione delle norme di riferimento, operata nelle sentenze di legittimità succedutesi nel tempo.

3.3 Rileva il Collegio che, anche qualora non si volesse tener conto del “giudicato esecutivo” già formatosi e si volesse valorizzare il dato dell’avere Cacciola in precedenza inteso aggredire soltanto le sentenze di legittimità intervenute nei suoi confronti e non la statuizione resa dalle stesse irrevocabile, resta ineludibile la constatazione dell’inammissibilità della pretesa modifica della condanna definitiva in punto di pene accessorie, che nessuna norma di legge consente, a fronte della pacifica possibilità per il condannato di devolvere le medesime questioni nel processo di cognizione mediante gli strumenti impugnatori, che pure aveva esperito.

Infatti, proprio perché col ricorso per cassazione proposto contro la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria egli ne aveva sollecitato l’annullamento senza rinvio quanto al delitto di cui all’art. 610 cod. pen., il cui accoglimento avrebbe comportato la eliminazione della pena di un anno di reclusione, stabilita nei gradi precedenti a titolo di aumento per continuazione sulla pena per il reato più grave, avrebbe dovuto e potuto prospettare i temi della durata della interdizione dai pubblici uffici e, senza essere condizionato dall’esito di quel giudizio, anche della concorrenza con l’interdizione dall’esercizio della professione.

Per contro, da quanto è dato leggere dalla sentenza n. 1003 del 17/11/2017, allegata all’impugnazione all’odierno esame, nessun motivo di ricorso aveva in assoluto riguardato le sanzioni accessorie.

Né è dato ravvisare sotto nessun possibile profilo l’illegalità quanto a durata della interdizione dall’esercizio della professione: l’art. 30 cod. pen. stabilisce la possibile determinazione tra i due estremi temporali di un mese e di cinque anni e quella irrogata a Cacciola si mantiene entro tale intervallo.

La pretesa determinazione della sua durata in replica della commisurazione della pena principale detentiva alla stregua del criterio dettato dall’art. 37 cod. pen. è manifestamente infondata: come già affermato da Sez. U., n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, rv. 276286, quando la pena accessoria temporanea sia stabilita con previsione di una soglia minima e di una massima, oppure col limite del non superamento di una di esse, la durata non è unica e fissa e compete dunque al giudice stabilirla nell’esercizio dei propri discrezionali poteri di apprezzamento della fattispecie concreta senza doversi attenere all’entità della pena principale.

Il contrario orientamento espresso nella sentenza citata in ricorso, sez. 3, n. 20428 del 2/04/2014, S, rv. 259650, è ormai superato dalla più autorevole statuizione delle Sezioni Unite senza che siano state esposte ragioni che ne consentano il superamento.

4. Infine, non ritiene il Collegio di dover affrontare anche gli argomenti con i quali in ricorso si è inteso replicare a quanto sostenuto nel parere del pubblico ministero, dal momento che gli stessi non risultano recepiti nell’ordinanza impugnata.

Per le considerazioni svolte in corso, infondato in tutte le sue deduzioni ed in parte inammissibile, va respinto con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.