Cambio delle lire in euro: prescrizione decennale (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 4 febbraio 2022, n. 3592).

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

TERZA SEZIONE CIVILE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere

Dott. AMBROSI Irene –  Consigliere

Dott. CRICENTI Giuseppe – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 11334-2019 proposto da:

(OMISSIS) PIERLUIGI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) 9, presso lo studio dell’avvocato ANDREA (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NAZIONALE, 91 C/O BANCA D’ITALIA, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GUIDO (OMISSIS);

– controricorrenti –

nonché contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6203/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/06/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito l’Avvocato.

FATTI DI CAUSA

1.- Pierluigi (OMISSIS) ha agito in giudizio nei confronti della Banca d’Italia e dello Stato italiano per far valere il diritto al cambio in euro di alcune lire in suo possesso: esattamente 110.300.00.

In forza dell’articolo 3 della legge n. 97 del 1996 il termine per poter cambiare le lire in euro era fissato al 28 febbraio 2012, trascorsi cioè 10 anni dalla cessazione del valore legale di quella moneta.

Tuttavia, con d.I. n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, il suddetto termine è stato anticipato al 6 dicembre 2011, data di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto.

Il ricorrente asserisce di essersi recato nella filiale della Banca d’Italia di Cagliari, pochi giorni dopo l’entrata in vigore di questa legge che ha abbreviato il termine, per chiedere la conversione in euro di quelle sue lire, e di essersi visto rifiutare il cambio in ragione del fatto che il termine era, per l’appunto, scaduto.

Tuttavia, poiché la Corte Costituzionale, con sentenza 216 del 2015, ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’abbreviazione del termine per convertire le monete, il ricorrente, con istanza formale del 28 gennaio del 2016, ha diffidato la Banca d’Italia ad effettuare il cambio, ricevendone diniego poiché, in base alle istruzioni ricevute dal Ministero dell’economia, occorreva dimostrare di aver chiesto il cambio delle monete nel periodo tra il 6 dicembre 2011, ossia il nuovo ed incostituzionale termine, ed il 28 febbraio 2012, ossia il termine originario.

2.- Pierlugi (OMISSIS), conseguentemente, ha agito in giudizio per fare accertare l’illegittimità di tale rifiuto, ed il suo conseguente diritto a cambiare le lire in euro, ritenendolo ancora in essere, dopo la abrogazione della legge che aveva abbreviato il termine.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno rigettato la domanda.

Quest’ultima in particolare ha ritenuto che la dichiarazione di incostituzionalità dell’abbreviazione del termine, ha fatto rivivere il termine precedente, e dunque ha ritenuto che fosse corretta la tesi della Banca d’Italia secondo cui occorreva allora dimostrare che entro quel termine (28 febbraio 2012), ossia quello originario e tornato in vigore dopo la pronuncia della Corte costituzionale, era stata formalmente chiesta la conversione delle banconote.

Ha ritenuto altresì la Corte di Appello che alcuna responsabilità in capo allo Stato potesse poi ipotizzarsi per avere promulgato una legge poi dichiarata incostituzionale, in quanto, a tacere di ogni altra ragione, il danno che per il ricorrente era derivato, era da imputarsi esclusivamente a quest’ultimo, il quale, da un lato, non aveva agito per la dichiarazione di incostituzionalità, per altro verso non aveva comunque fatto istanza formale di conversione delle monete pur entro il termine originario.

Ha comunque osservato il giudice di Appello che, anche ad ammettere che il termine originario non sia tornato in vigore, varrebbe il termine ordinario di prescrizione decennale, il cui decorso non è stato impedito dalla legge incostituzionale, potendo tale ostacolo, di mero fatto e non di diritto, essere rimosso ad iniziativa dell’interessato.

3.- Il ricorso di (OMISSIS) è basato su sei motivi, contestati sia dalla Banca d’Italia che dalla Presidenza del Consiglio con rispettivi controricorsi.

Ricorrente e Banca d’Italia hanno depositato memorie.

Il PM ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.- Il primo motivo ha un rilievo assorbente rispetto agli altri.

Esso consiste nella denuncia di violazione dell’articolo 3 I. 97 del 1996 a seguito della decisione n. 216 del 2015 della Corte Costituzionale, e censura la ratio della decisione impugnata quanto alla tesi della reviviscenza del vecchio termine a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del nuovo.

La Corte di Appello ha affermato tale reviviscenza distinguendo tra abrogazione di una legge, la quale non necessariamente fa rivivere quella precedente, e dichiarazione di incostituzionalità, che, invece, operando retroattivamente, produce la reviviscenza della legge precedente a quella dichiarata incostituzionale.

In sostanza, secondo la Corte di Appello, essendo venuta meno retroattivamente la norma che ha abbreviato il termine per cambiare le lire, è tornato a vigere il vecchio termine, quello abrogato dalla norma dichiarata incostituzionale, e ciò in quanto la dichiarazione di incostituzionalità, che è cosa diversa dalla abrogazione legislativa o referendaria, opera retroattivamente.

Questa ratio è contestata dal ricorrente, richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale ed in parte di questa stessa Corte, per la quale la reviviscenza di una norma abrogata opera automaticamente solo in caso di mera abrogazione, non già nel caso di modifica o di sostituzione, come nella fattispecie.

Ossia: altro è il caso di mera abrogazione, in cui la norma X si limita ad abrogare la norma Y, caso nel quale se la norma X è dichiarata incostituzionale, la norma Y rivive; altro è il caso in cui la norma X modifica o sostituisce quella Y, ed è poi dichiarata incostituzionale: non necessariamente, in tal caso, rivive la norma Y.

Con la conseguenza che, poiché la legge n. 201 del 2011 non ha costituito una mera abrogazione della legge n. 96 del 1997, ma ne ha costituito modifica, quest’ultima non rivive.

Con l’ulteriore conseguenza che, dichiarata incostituzionale l’abbreviazione del termine per cambiare le monete, e non rivivendo il termine originario, deve ritenersi, secondo il ricorrente, che non vi sia più alcun termine per procedere al cambio; né questo esito è inverosimile, dal momento che il Regolamento (CE) n. 974 del 1998 ha solo previsto che le monete nazionali dovessero perdere valore legale ad un certo momento, ma ha lasciato liberi gli Stati circa la disciplina dei tempi con cui cambiare le vecchie monete, ancora in possesso dei cittadini, tanto che alcuni Stati conseguentemente hanno deciso di non porre alcun termine a tale valore di scambio.

Il motivo è infondato, ma la motivazione della decisione impugnata va corretta.

Va infatti disatteso l’argomento principale utilizzato dalla Corte di Appello che distingue tra abrogazione e dichiarazione di incostituzionalità. Pur trattandosi di due vicende diverse, non v’è ragione di trattarle diversamente quanto al problema della reviviscenza (contra Cass. 5320/ 1987).

Non si può sostenere che in caso di dichiarazione di illegittimità, la norma precedente – a quella dichiarata incostituzionale- rivive sempre a cagione della retroattività della dichiarazione di incostituzionalità: che sia retroattiva la perdita di efficacia della legge incostituzionale nulla dice circa la reviviscenza di quella precedente, che è problema da risolvere a parte e diversamente.

L’efficacia retroattiva della dichiarazione di incostituzionalità comporta solo che la norma dichiarata illegittima viene meno sin dall’origine, ma non significa che conseguentemente quella precedente rivive pienamente.

Infatti, la giurisprudenza della Corte Costituzionale è pacifica nel senso di distinguere, agli effetti della reviviscenza, tra il caso in cui la norma dichiarata incostituzionale aveva meramente abrogato quella precedente, ed il caso in cui invece la norma illegittima aveva modificato o sostituito quella precedente.

Solo nel primo caso, ossia quello di una mera abrogazione, la prima norma rivive pienamente, non nel secondo (Corte cost. n. 7 del 2020 § 3.2.1. del Considerato in diritto; Corte cost. 218 del 2015 § 3.1. del Considerato in diritto; Corte cost. n. 13 del 2012 § 5.1. del Considerato in diritto).

Ai fini della reviviscenza della norma abrogata, non si distingue, in sostanza, a seconda della fonte dell’abrogazione, che sia referendum o dichiarazione di incostituzionalità.

Conta piuttosto la portata della riforma: se mera abrogazione o se modifica della precedente disciplina.

Significativa sul punto Corte cost. n. 7 del 2020: “secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate « non opera in via generale ed automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate» (sentenza n. 13 del 2012)….

In particolare, l’ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che sia meramente abrogativa di una norma precedente, la quale torna per ciò stesso a rivivere (sentenze n. 255 del 2019; n. 10 del 2018; n. 218 del 2015) non ricorre nel caso oggetto del presente giudizio, atteso il carattere non meramente abrogativo della disposizione censurata, la quale ha invece un contenuto più ampio e sostitutivo di quella previgente”.

Pertanto, per stabilire se la precedente disciplina del termine (il 28 febbraio 2012) sia divenuta nuovamente efficace, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della norma (I. 201 del 2011) che l’aveva modificata, portando il termine al 31.12.2011, serve stabilire se si sia trattato di una mera abrogazione o di una modifica dal “contenuto sostitutivo”.

La norma in questione prevedeva che: “In deroga alle disposizioni di cui all’articolo 3, commi 1 ed 1 bis, della legge 7 aprile 1997, n. 96, e all’articolo 52-ter, commi 1 ed 1 bis, del decreto legislativo 24 giugno 1998, n. 213, le banconote, i biglietti e le monete in lire ancora in circolazione si prescrivono a favore dell’Erario con decorrenza immediata ed il relativo controvalore è versato all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnato al (( Fondo per l’ammortamento )) dei titoli di Stato.”

Innanzitutto, la nuova disciplina dispone un effetto “in deroga” rispetto alla precedente, e già questo è indice del fatto che non si è trattato di una mera abrogazione, bensì di una modifica del termine per scambiare lire in euro.

La mera abrogazione presuppone che la disciplina successiva abbia come unico contenuto ed unico effetto di eliminare una disciplina precedente: non si può parlare di mera abrogazione se una norma non ha come esclusivo contenuto l’abrogazione di una precedente ma contiene una nuova e diversa disciplina, rispetto a quella abrogata, di una o più situazioni giuridiche, di uno o più rapporti giuridici.

Come è evidente, l’articolo 26 del 201 del 2011 non ha limitato il suo scopo alla mera abrogazione dell’articolo 3, I. 97 del 1996, ma piuttosto ha sostituito il termine in quella legge previsto con uno ad effetto immediato, producendo una modifica di una situazione giuridica: esisteva un valore di cambio di quelle monete, che sarebbe scaduto più in là, e questo valore è stato estinto, vale a dire che le lire che avevano valore di cambio in quel momento, lo hanno perduto: un effetto opposto a quello della mera abrogazione, la quale avrebbe comportato che non vi sarebbe stato alcun termine, ossia che, abrogato quello previsto dalla legge n. 97 del 1996, vi sarebbe stato quanto alla scadenza un vuoto normativo.

E’ questo, del resto, l’effetto della mera abrogazione: togliere di mezzo una disciplina, senza curarsi di sostituirla con altra.

Ed invece la legge n. 201 del 2011, elimina il termine, non con l’intento che dunque non ne viga alcuno, ma allo scopo di introdurne uno diverso.

Anche a volerla intendere come una disciplina che ha fatto venire meno il diritto, come pure si legge nelle note del PM, ma cosi non è come vedremo, l’esito non cambia, poiché passare da una norma che pone un termine all’esercizio di un diritto (28 febbraio 2012) ad una che quel diritto estingue immediatamente non è vicenda da mera abrogazione, come ognuno vede, ma di sostituzione o di modifica normativa.

Del resto, questa indicazione si trae dalla stessa pronuncia della Corte costituzionale (la n. 216 del 2015) che ha per l’appunto dichiarato illegittima la successiva disciplina, proprio perché, modificando la scadenza per cambiare le lire, ha leso un affidamento: esito che non si sarebbe avuto se si fosse trattato di una mera abrogazione, la quale, si ripete, riguardando un termine, avrebbe solo eliminato quest’ultimo rendendo sine die la situazione giuridica prima soggetta al limite temporale: una mera abrogazione del termine vigente, in sostanza, rendendo esercitabile il diritto sine die, non avrebbe leso alcun affidamento.

Ciò premesso, giusta la regola posta dalla Corte costituzionale, la reviviscenza opera solo in caso di mera abrogazione, e non già in quella di sostituzione o modifica della disciplina precedente, con la conseguenza che non opera né il nuovo termine (dichiarato incostituzionale) né quello precedente (abrogato e sostituito da quello incostituzionale).

Si aggiunge, ed è ratio della decisione impugnata, che, se anche si ammettesse che non rivive il termine originario per la conversione delle lire, allora, creandosi un vuoto normativo- quanto ovviamente al termine per cambiare le monete-, si deve applicare la regola generale che vede prescritti i diritti soggettivi in dieci anni (artt. 2934 e 2946 c.c.).

Questa ratio è fondata, ma va chiarita a sua volta: essa presuppone che la legge che ha previsto il cambio delle lire in euro ha riconosciuto un diritto soggettivo ai possessori delle lire sottoponendolo ad un termine di esercizio, termine poi venuto meno.

Solitamente, si può dire che oggetto della regolazione è un diritto quando il legislatore, riconosciuto un interesse, attribuisce al titolare un fascio di poteri strumentali al soddisfacimento, e conseguentemente che la modifica, o estinzione del diritto, presuppongono modifica o estinzione dei poteri che caratterizzano la situazione di vantaggio.

Nella fattispecie, quando è entrato in vigore l’euro, la lira valeva, per due mesi ancora, come bene di pagamento, e venuto meno tale “valore”, dopo i due mesi, ha mantenuto un diverso “valore” di scambio, grazie alla legge n. 96 del 1997 fino al 28 febbraio del 2012, con la conseguenza che ì possessori delle lire avevano il potere di scambiarle con euro fino a quella data.

Quando, dopo due mesi dall’entrata in vigore dell’euro, le lire hanno perso valore legale, sono venuti meno i poteri di utilizzarle quali strumenti di pagamento, ma non sono venuti meno i poteri di utilizzare quelle stesse lire quali valori di scambio con l’euro, poteri che, inizialmente, erano esercitabili fino ad ancora altri dieci anni.

Nella fattispecie, il limite temporale posto inizialmente al valore di scambio (28 febbraio 2012) è stato sostituito con un diverso limite temporale (6 dicembre 2011).

Si è visto che entrambi questi limiti sono venuti meno: il secondo perché dichiarato incostituzionale; il primo perché abrogato dal secondo e non rimesso in vita dalla incostituzionalità di quest’ultimo.

Con la conseguenza che il potere di scambiare la moneta, non più disciplinato dalle leggi in questione, è risultato essere un potere esercitabile senza termine, ma non perché la legge lo abbia reso tale, implicitamente o esplicitamente, bensì in forza del vuoto legislativo che si è creato.

La mancanza di un termine, espressamente indicato da una norma, all’esercizio del potere, ossia del diritto a scambiare le lire in proprio possesso, non è dunque effetto di una volontà legislativa, o della conformazione stessa del diritto, ma è effetto di un vuoto di disciplina creatosi a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della norma che aveva introdotto un termine abbreviato.

Il che rende ragione della applicazione della disciplina generale (art. 2946 c.c.), che , per l’appunto, si applica quando la legge non abbia diversamente previsto: sappiamo che il vuoto legislativo che si è creato non è “una diversa previsione legislativa”, ma , è per l’appunto, un vuoto, colmato dalla regola generale che, in tal caso, prevede la prescrizione decennale.

5. – Secondo motivo.

Si denuncia omesso esame di un fatto controverso e rilevante, oltre che violazione dell’articolo 115 c.p.c.: il ricorrente ha riferito di essersi recato a fine dicembre del 2011 nella filiale della Banca d’Italia di Cagliari per scambiare le sue lire con gli euro, e di aver appreso che pochi giorni prima (6 dicembre) era entrata in vigore la legge- poi dichiarata incostituzionale- che ha privato di valore di scambio le lire con effetto immediato.

Egli invoca questa circostanza quale atto interruttivo della prescrizione, trattandosi di un atto che faceva valere il diritto di scambio, e sostiene che la prova di tale fatto era nella non contestazione da parte dei convenuti, non contestazione che il giudice di appello avrebbe omesso di considerare.

Inoltre, il ricorrente osserva che questa sua richiesta di esercitare il diritto di scambio non può essere ritenuta irrilevante per difetto di forma, ossia per via del fatto che una certa ed ignota istruzione ministeriale ha previsto, successivamente peraltro, che le richieste di cambio delle lire potessero rimettere in termini il possessore solo se effettuate con determinate formalità (pec, richiesta scritta ecc.): questa formalità non è, secondo il ricorrente, nella legge, e vìola peraltro gli stessi princìpi di affidamento riconosciuti dalla già citata decisione della Corte Costituzionale.

Questo motivo è evidentemente inammissibile: non coglie la ratio della decisione impugnata, che non è quella di aver ritenuto la forma della richiesta di cambio come ad probationem, o addirittura ad substantiam, ma è di aver ritenuto non provato che il ricorrente sia andato a dicembre 2011 in Banca d’Italia a Cagliari per chiedere il cambio delle lire.

Né questa prova può ricavarsi per mancata contestazione da parte della Banca d’Italia controricorrente, che invece ha espressamente eccepito tale difetto probatorio, ed eccepire che un fatto non è provato, non vuol dire ammettere che sia avvenuto.

E così deve concludersi per il motivo 2 bis, che denuncia violazione degli articoli 2943 e 1219 c.c.: la richiesta orale alla Banca d’Italia di Cagliari ha costituito in mora la Banca medesima, la quale ha formalmente affermato di non voler adempiere (rectius, ha fatto presente che non era più tenuta a farlo a cagione della nuova disciplina), e questa affermazione è in grado di interrompere la prescrizione.

L’obiezione è la medesima: ciò presuppone sempre che sia stato dimostrato quel fatto (richiesta orale e rifiuto in sede), solo la cui prova può consentire di discutere dei suoi effetti sulla prescrizione.

6.- Terzo motivo.

Si denuncia violazione dell’articolo 2935 c.c.

La tesi del ricorrente mira a contestare l’idea che la vigenza di una norma dichiarata incostituzionale non è di ostacolo allo scorrere della prescrizione, in quanto costituisce solo un impedimento di fatto e non già di diritto.

Chiede di abbandonare questa visione, e conseguentemente di affermare che la prescrizione non è decorsa per tutto il tempo in cui la norma incostituzionale è rimasta vigente (2011-2015).

L’orientamento di questa Corte è consolidato, e non può essere oggetto di revisione, ed è nel senso che il diritto, già inibito dalla norma illegittima, diviene azionabile sin dalla promulgazione della norma- illegittima- ed il relativo termine di prescrizione (art 2947, comma primo cod. civ.) comincia a decorrere comunque (art 2935 cod civ).

Con la conseguenza che il cittadino che conformi il suo comportamento alla norma illegittima e si astenga dall’esercitare il diritto, che detta norma gli inibiva, lo fa a proprio rischio e deve subire, anche ai fini della prescrizione, le conseguenze della propria inerzia (Sez. Un. 1568/ 1970; Sez. Un. 27/ 1999; Sez. 1, 29609/ 2018).

E ciò in quanto “la pregressa vigenza di una disposizione di legge di natura preclusiva o ostativa all’esercizio di un diritto, successivamente dichiarata incostituzionale, non può in alcun modo qualificarsi come “impedimento giuridico” all’esercizio del diritto medesimo, costituendo di esso, per converso, un mero ostacolo “di fatto”, ovviabile attraverso la proposizione dell’incidente di costituzionalità, idoneo, se del caso, a rimuoverlo” (Sez. L. 16404/ 2004), e gli ostacoli “di fatto”, all’esercizio del diritto, a differenza di quelli “di natura giuridica”, non impediscono il decorrere della prescrizione (tra le tante Sez. 1., 20642/ 2019).

7.- Quarto e quinto motivo.

Il ricorrente assume una violazione del diritto dell’Unione, e chiede anche rimettersi la questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, sostenendo che la restrizione, operata mediante il provvedimento amministrativo che ha imposto, come si è visto al secondo motivo, una forma particolare per la richiesta di cambio, costituisce una ingerenza nel pacifico godimento dei diritti, tutelato dal diritto dell’Unione, costituendone una illegittima restrizione.

Inoltre, l’interpretazione che ne segue costituisce (quinto motivo) una violazione grave del regolamento 974/ 1998 che ha disciplinato il transitorio valore di scambio della lira.

I motivi sono infondati: non c’è una violazione del diritto dell’Unione nel fatto di avere temporalmente limitato il valore di cambio della moneta, né nel fatto di aver preteso che lo si eserciti in modo formale, tanto è vero che si ammette che il diritto dell’Unione ha lasciato gli Stati liberi di regolare il valore residuo delle monete nazionali, il che esclude, per forza, l’imposizione di un interesse da rispettare; non c’è in sostanza un interesse dell’Unione nella questione del termine da assegnare al valore di mero scambio- non ovviamente al corso legale della moneta, che è altra cosa. E dunque non c’è violazione alcuna.

Conseguentemente non ci sono ragioni per sollevare la questione presso la corte europea (motivo 5 bis), vertendosi in situazione di “acte claire” per quanto appena osservato..

8.- Sesto motivo.

Nelle sue sotto articolazioni, pone una questione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione o della Costituzione e dunque postula una violazione dell’articolo 2043 c.c. nella circostanza di aver negato quella responsabilità.

Il motivo è infondato.

Quanto alla prima questione, ossia alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, si è detto che non c’è un interesse dell’Unione al termine entro cui scambiare le monete nazionali con euro, termine rimesso alla discrezionalità degli Stati membri e dunque non imposto dall’Unione stessa, con la conseguenza che qualsiasi condotta dello Stato che abbia deciso in un modo o nell’altro, non è antigiuridica nell’ordinamento dell’Unione, che appunto, ha lasciato libertà di scelta agli Stati membri, tanto che alcuni hanno posto il termine, mentre altri no.

Quanto alla responsabilità dello Stato per violazione della Costituzione, viene ravvisata nella legge del 2011, che, come si è visto, aveva ridotto il termine per lo scambio delle lire, facendolo scadere con effetto immediato al momento della sua entrata in vigore (6 dicembre 2011).

Questa legge è stata dichiarata incostituzionale: dunque lo Stato con una legge che ha immediatamente prescritto il valore di scambio delle lire, ma illegittima, ha fatto un danno ai possessori di lire, come il ricorrente, e lo ha fatto violando la Costituzione: si postula di conseguenza una responsabilità da atto legislativo illegittimo.

Qui non è il caso di ripercorrere la questione che ha portato ad escludere che lo Stato possa rispondere di illecito extracontrattuale per avere promulgato una legge poi dichiarata incostituzionale (ma v. Sez. 3, 23730/ 2016): basta osservare che il danno è interamente imputabile al ricorrente il quale avrebbe dovuto, come illustrato al terzo motivo, agire in giudizio e promuovere questione di legittimità costituzionale prima che il suo diritto si prescrivesse, e non avendolo fatto, non può attribuire l’avvenuta prescrizione, e dunque il danno che ne è derivato, alla legge illegittima dello Stato.

Il ricorso va pertanto rigettato.

La novità e particolarità delle questioni involte impongono la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Roma 15 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.