REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott.ssa MARGHERITA CASSANO Primo Presidente
Dott.ssa MARIA ACIERNO Presidente di Sezione
Dott.ssa LUCIA TRIA Presidente di Sezione
Dott.ssa CHIARA GRAZIOSI Presidente di Sezione
Dott.ssa CARLA PONTERIO Consigliere
Dott. ENZO VINCENTI Consigliere
Dott. LUIGI ABETE Consigliere
Dott. GIUSEPPE TEDESCO Consigliere
Dott. EDOARDO CAMPESE Consigliere – rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 1620/2018 r.g. proposto da:
(OMISSIS)-(OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (breviter (OMISSIS) (OMISSIS)) , rappresentata e difesa, giusta procura speciale rilasciata con atto per Notar (OMISSIS) di Milano n. 173158 rep., allegata alla comparsa di costituzione di nuovo difensore datata 22 novembre 2023, dall’Avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), presso il cui studio elettivamente domicilia in Milano, alla via (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) n. 1.
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) (OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata al controricorso, dall’Avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), con cui elettivamente domicilia in Roma, alla via del (OMISSIS) n. 43, presso lo studio (OMISSIS).
– controricorrente –
e
(OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta procura speciale autenticata dal notaio (OMISSIS) A. (OMISSIS), dello Stato della Florida, in data 2 gennaio 2018, munita di apostille (ai sensi della Convenzione dell’Aja 5 ottobre 1961) dal Secretary of Statedel Dipartimento di Stato della Florida (Usa), n. 2018-1105 del 4 gennaio 2018, allegata al controricorso, dall’Avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) di (OMISSIS) e, giusta procura speciale autenticata presso il Consolato Generale d’Italia di Miami il 31 luglio 2024, dagli Avvocati (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS) e (OMISSIS) (OMISSIS), con cui elettivamente domicilia presso lo studio della prima in Roma, alla via (OMISSIS) (OMISSIS) n. 162.
– controricorrente –
e
PROVINCIA RELIGIOSA SAN (OMISSIS) (OMISSIS) DELLA CONGREGAZIONE DELLA PICCOLA OPERA DELLA DIVINA PROVVIDENZA.
– intimata –
avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI GENOVA n. 1306/2017, depositata il 13.10.2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 10/06/2025 dal Consigliere dott. Eduardo Campese;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo affermarsi i seguenti principi di diritto: “In materia di atti prodromici al processo (quali in particolare gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni), redatti in lingua diversa dall’italiano, discende dal principio della facoltatività della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (art.123 c.p.c.) che la contestuale produzione di traduzione in lingua italiana non integra requisito di validità dell’atto”; “Ai sensi degli artt. 122 e 123 c.p.c., la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per gli atti prodromici al processo (quali in particolare gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni), che, se redatti in lingua straniera, devono pertanto ritenersi prodotti validamente, avendo il giudice la facoltà, ma non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno allorché sia in grado di comprendere il significato degli stessi documenti, o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte”;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato F. (OMISSIS), che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso;
udito, per il controricorrente A. (OMISSIS), l’Avvocato M. (OMISSIS), che ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso;
udito, per il controricorrente G. (OMISSIS) (OMISSIS), l’Avvocato P. (OMISSIS), che ha chiesto rigettarsi il ricorso della controparte;
lette le memorie exart. 378 cod. proc. civ. depositate dalle parti.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto ritualmente notificato il 5 aprile 2011, (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) – (OMISSIS) (d’ora in avanti anche, breviter, (OMISSIS) (OMISSIS)) citò (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), l’USB s.g. Società Generale Private Banking di Lugano, la Provincia Religiosa San (OMISSIS) di (OMISSIS) della Congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza, la Divisione delle Contribuzioni Ticino, Ufficio Imposte di Successione e di Donazione di Lugano, e l’Ufficio Circondariale di Tassazione Lugano innanzi al Tribunale di Chiavari e, allegando la propria qualità di erede universale di (OMISSIS) (OMISSIS), propose querela di falso, in via principale, in relazione all’inventario dell’eredità di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (moglie di (OMISSIS) (OMISSIS), precedentemente defunto senza prole, a sua volta fratello di (OMISSIS) (OMISSIS)) redatto dal notaio (OMISSIS) (OMISSIS) su istanza della Provincia Religiosa San (OMISSIS) (OMISSIS), che ne aveva accettato l’eredità con beneficio di inventario.
L’attrice dedusse che l’inventario era incompleto e non veritiero perché non comprendeva alcuni beni di proprietà della de cuius.
Costituitisi il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) (OMISSIS), il primo tempestivamente ed il secondo tardivamente, e rimasti contumaci gli altri convenuti, l’adito tribunale dichiarò inammissibile la querela di falso ritenendo che le presunte imprecisioni nell’inventario non influissero sulla genuinità del documento.
2. Il gravame promosso contro questa decisione dalla (OMISSIS) fu respinto dall’adita Corte di appello di Genova, con sentenza del 13 ottobre 2017, n. 1306, pronunciata nel contraddittorio con il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) (OMISSIS) e nella contumacia della Provincia Religiosa San (OMISSIS) (OMISSIS) della Congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza.
Quella Corte:
i) rigettò l’eccezione di nullità del procedimento per violazione delle norme sull’intervento del Pubblico Ministero perché questiera stato posto nelle condizioni di partecipare al giudizio, attraverso la regolare comunicazione della lite;
ii) quanto all’ammissibilità della querela di falso, osservò che l’imprecisione e l’incompletezza delle dichiarazioni rese da terzi al notaio ed il mancato accertamento dell’esistenza di altri beni asseritamente compresi nel patrimonio ereditario non intaccavano la genuinità del documento. Affermò, infatti, che il contenuto di quest’ultimo non costituiva mezzo di prova contro l’istante in quanto la fede privilegiata era riservata solo alle dichiarazioni di provenienza del documento medesimo dall’organo che l’aveva sottoscritto ovvero di ciò che il pubblico ufficiale aveva attestato essere avvenuto in sua presenza;
iii) dichiarò che l’attrice era carente di interesse (o priva di legittimazione attiva), essendo passata in giudicato la sentenza del Tribunale di Genova,n. 815/2009, che aveva riconosciuto (OMISSIS) (OMISSIS) erede universale di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS);
iv) infine, condannò l’appellante alle spese di lite ed al risarcimento del danno, ex art. 96 c od . proc.civ., per lite temeraria.
3. Per la cassazione di questa sentenza (OMISSIS) (OMISSIS) ha promosso ricorso affidato a cinque motivi, corredato anche da memoria ex art. 380 – bis .1 cod. proc. civ.
Hanno resistito, con separati controricorsi, (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) ed (OMISSIS) (OMISSIS).
La Provincia Religiosa (OMISSIS) di (OMISSIS) della Congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza, invece, è rimasta intimata.
La Seconda Sezione Civile di questa Corte, originaria assegnataria del procedimento, con ordinanza interlocutoria del 22 marzo 2024, n. 7757, resa all’esito dell’adunanza camerale del 18 dicembre 2023, ha trasmesso gli atti alla Prima Presidente, la quale ha rimesso alle Sezioni Unite l’esame della seguente questione, oggetto di contrasto, oltre che ritenuta di massima di particolare rilevanza:
«[…] se la traduzione in lingua italiana della procura rilasciata all’estero e dell’attività certificativa, sia nelle ipotesi di legalizzazione, sia ai sensi della Convenzione dell’Aja del 5.10.1961, sia ai sensi della Convenzione di Bruxelles del 25.5.1987, integri un requisito di validità dell’atto. In caso di assenza di traduzione della procura o dell’attività certificativa va stabilito: se il giudice possa farne a meno, qualora conosca la lingua straniera in cui è stata redatta la procura; se possa o debba assegnare un termine, ai sensi dell’art. 182 c.p.c. per la traduzione dell’atto e se tale potere- dovere possa esercitarsi anche nel giudizio di cassazione; se possa o debba egli stesso disporre la traduzione tramite la nomina di un esperto».
4. Il Procuratore generale, che ha depositato memoria, ha chiesto affermarsi i principi di diritto riportati in epigrafe, così concludendo anche alla pubblica udienza del giorno 10 giugno 2025, in prossimità della quale sono state depositate memorie exart. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo di ricorso.
Il Collegio ritiene di dover premettere all’esame delle questioni sottoposte alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria del 22 marzo 2024, n. 7757, lo scrutinio del primo dei formulati motivi di ricorso, atteso il suo evidente carattere pregiudiziale.
Esso, rubricato «Ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.:
violazione di norme processuali che regolano la legittimazione e la costituzione del giudice:
nullità ex art. 158 c.p.c. della sentenza pronunciata dal Collegio ove un suo componente aveva dichiarato la propria astensione», prospetta la nullità assoluta della sentenza impugnata, ex art. 158 cod. proc. civ., perché uno dei componenti il collegio che l’ha pronunciata (la dott.ssa (OMISSIS) (OMISSIS)), con atto depositato il 19 febbraio 2014, aveva dichiarato la propria astensione sussistendo “un’ipotesi di inimicizia grave, ai sensi dell’art. 51 c.p.c.” nei confronti dell’allora appellante. Pertanto, sarebbe stata obbligatoria una nuova composizione del collegio d’appello, stante la carenza di legittimazione della dott.ssa (OMISSIS) a comporlo e, conseguentemente, a decidere la lite.
1.1. Una siffatta doglianza si rivela infondata alla stregua delle complessive considerazioni di cui appresso.
Come emerge dagli atti del giudizio di merito (cui questa Corte ha accesso, stante la natura di error in procedendo del vizio così denunciato, in quanto giudice anche del fatto processuale), la dott.ssa (OMISSIS) (OMISSIS), magistrato in servizio presso la terza sezione civile della Corte di appello di Genova, in data 19 febbraio 2014, dichiarò di astenersi dalla trattazione della causa n. r.g. 622/23, che sarebbe stata chiamata all’udienza del 20 febbraio successivo, esistendo “un motivo di astensione obbligatoria a che la stessa faccia parte del Collegio giudicante, essendo stata informata della pendenza, presso la Cortedi appello di Torino, di un procedimento introdotto da (OMISSIS) (OMISSIS), parte della suddetta causa, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi della L. n. 117/1988, con riferimento all’attività giurisdizionale di vari magistrati del distretto, tra cui la sottoscritta” e ritenendo che “la pendenza di tale procedimento instaurato dalla (OMISSIS) integra un’ipotesi di inimicizia grave ai sensi dell’art. 51 c.p.c.”.
Tale “dichiarazione”, indirizzata “Al Presidente della Terza Sezione civile della Corte di Appello di Genova”, si fonda, dunque, sull’asserita configurabilità dell’ipotesi di “grave inimicizia” tra il giudice ed una delle parti art. 51, n. 3, cod. proc. civ., allorquando quest’ultima abbia intrapreso l’azione di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117.
La stessa dott.ssa (OMISSIS), poi, risulta essere stata componente del Collegio che, il 26 settembre 2017 (oltre tre anni e mezzo dopo quella “dichiarazione”), ha deliberato la sentenza oggi impugnata.
1.2. Orbene, premesso che le ipotesi previste dall’art. 51 cod. proc. civ., ai fini della possibilità e/o del dovere del giudice di astenersi e, correlativamente, dall’art. 52 del medesimo codice, relativo alla possibilità, per le parti, di ricusarlo, sono tassative e non estensibili per via interpretativa e che l’inimicizia prevista dall’art. 51, n. 3, cod. proc. civ. deve riguardare “rapporti estranei al processo”, sicché necessita dell’allegazione di fatti e circostanze concrete che rivelino l’esistenza di ragioni di rancore o di avversione (cfr. Cass. n. 12345 del 2001e Cass. n. 22501 del 2014, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass., SU, n. 13018 del 2015), deve osservarsi che la consolidata giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite (cfr., in termini, Cass. SU, n. 13018 del 2015; in senso sostanzialmente analogo, vedi anche Cass., SU, n. 16627 del 2014), ha chiarito, richiamando anche l’orientamento, sul punto, della giurisprudenza penale di legittimità, che «Il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria ex lege n. 117/1988 non assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l’assorbente ragione che la domanda (anche dopo la legge n. 18/2015) può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi i casi di condotta penalmente rilevante, art. 13).
Né la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell’originaria azione si sia conclusa con la condanna dell’Amministrazione, muta la conclusione, perché i presupposti e i contenuti dell’azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell’azione diretta della parte privata nei confronti del solo Stato (art. 7; artt. 2 e 3).
Il che, tra l’altro, impone di escludere che anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex lege n. 117/1988 (art. 6), si instauri un rapporto diretto parte/magistrato che possa condurre alla qualificazione del secondo in termini di anche solo potenziale debitore della prima.
In altri termini, non solo la qualità di debitore si assume nel momento in cui viene riconosciuta la compiuta fondatezza della pretesa risarcitoria, e non prima, ma, nel caso del sistema della legge n. 117/1988, il magistrato la cui condotta professionale è valutata nel processo civile non potrà mai assumere la qualità di debitore della parte privata» (Cass. pen. n. 19924 del 2015)».
Da tanto consegue, allora, che la descritta “dichiarazione” della dott.ssa (OMISSIS), per come concretamente giustificata, certamente non poteva farsi rientrare nel perimetro applicativo dell’art. 51, n. 3, cod. proc. civ., sicché, come è intuitivo, nemmeno poteva, di per sé sola, produrre l’effetto di impedirleil compimento di ogni ulteriore attività processuale in ordine al giudizio n.r.g. 622/2013, pendente innanzi alla Terza sezione civile della Corte di appello di Genova, in essa richiamato.
1.3. Infine, va sottolineato che nonrisultano, in atti , iniziative giudiziali intraprese dalla (OMISSIS) al fine di ricusare quel giudice (tenuto conto, peraltro, che le parti erano in grado di avere tempestiva contezza della composizione del Collegio dal ruolo di udienza e dall’intestazione del verbale di causa ad opera del cancelliere), sicché la stessa non può oggi invocare la nullità della sentenzaper avere quest’ultimo partecipato alla decisione qui impugnata; né vi è tracciadi un qualsivoglia provvedimento del Presidente di quella Sezione che abbia autorizzato una tale astensione, ove pure la si fosse voluta intendere come una corrispondente “ richiesta ”, ex art. 51, comma 2, cod. proc. civ.
2.– L’ordinanza interlocutoria n. 7757 del 2024 e le questioni rimesse alle Sezioni Unite.
L’ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 7757 del 2024 ha ritenuto, in via preliminare, di esaminare la questione – proposta da (OMISSIS) (OMISSIS) nella sua memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. datata 6 dicembre 2023 – concernente la nullità della procura speciale rilasciata dal controricorrente (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) al proprio difensore.
In tale memoria, la ricorrente eccepì, in particolare (cfr. pag. 1-2), «l’inammissibilità del controricorso di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) per un duplice ordine di ragioni: nullità della procura giudiziale in quanto rilasciata all’estero senza l’osservanza dei requisiti richiesti dall’art. 12 legge 218 del 1995, per mancata traduzione in italiano dell’attività certificativa della sottoscrizione che doveva essere stata svolta dal notaio rogante, sia perché manca qualsiasi attestazione che il notaio abbia proceduto all’identificazione del soggetto che ha rilasciato la procura, la cui identità neppure risulta essere stata da lui accertata ».
2.1. Quell’ordinanza ha spiegato, innanzitutto, che «si tratta di procura speciale rilasciata da (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) innanzi al “notary public” dello Stato della Florida; essa contiene l’attestazione del rilascio in sua [cioè del notaio. Ndr] presenza in lingua inglese, con allegata asseverazione giurata (“subscribed and sworn before me, this second day of January, 2018 a Notary Public”), contiene la firma del notaio e della parte, l’attestazione di conformità ed è corredata da apostille in lingua inglese, ai sensi della Convenzione dell’Aja del 5.10.1961, anch’essa non tradotta».
2.2. Quindi ha osservato «che, per il disposto dell’art.12 della Legge 31 maggio 1995, n.218, la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché, in tali evenienze, la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della “lex loci“; è necessario, però, che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore (Cassazione civile sez. III, 15/11/2017, n.26951; Cassazione civile sez. un., 13/02/2008, n. 3410; Cass., sez. un., 24 luglio 2007, n. 16296; Cass., sez. un., 5 maggio 2006, n. 10312; Cass. 25 maggio 2007, n. 12309; Cass. 30 settembre 2005, n. 19214; Cass. 29 aprile 2005, n. 8933; Cass. 12 luglio 2004, n. 12821).
Il Collegio remittente ha ricostruito il quadro giurisprudenziale di riferimento, evidenziando la non univocità degli orientamenti in merito all’obbligo di contestuale traduzione della procura alle liti rilasciata all’estero edalle conseguenze ravvisabili in ipotesi di mancata traduzione della stessa.
In particolare, ha rimarcato che il ravvisato contrasto vede contrapposti:
a) l’indirizzo che, partendo dalla tesi della natura della procura alle liti quale mero atto preparatorio del processo, esclude la necessità che la traduzione della procura medesima e dell’attività certificativa esista al momento della costituzione in giudizio della parte e predica l’applicabilità dell’art. 123 cod. proc.civ., che prevede il potere-dovere del giudice di disporre la traduzione, attraverso un interprete,dei documenti relativi al processo redatti in lingua straniera (cfr . Cass., SU, n. 26937 del 2013);
b ) l’indirizzo che reputa la traduzione in lingua italiana un requisito di validità dell’atto, altrimenti nullo ex art. 12 della legge n. 218 de 1995 (cfr . Cass., SU, n. 5592 del 2020).
Nell’ambito di tale secondo indirizzo, inoltre, ha segnalato che solo in alcuni casi il giudice, ritenendo che tale nullità possa essere sanata con la rinnovazione della procura, ai sensi dell’art. 182 cod.proc. c iv ., ha concesso un termine perentorio per la sanatoria (cfr. Cass. n. 11165 del 2015; Cass.n. 8174 del 2018 e Cass.n. 27598 del 2023, che hanno sottolineato, altresì, l’obbligo,in capo al giudice, di assegnare il termine ex art. 182 cod. proc. civ.), mentre, in altri, in assenza della traduzione, l’impugnazione è stata dichiarata inammissibile (cfr. Cass., SU, n. 5592 del 2020 e Cass. n. 28217 del 2019).
2.3. Rilevato il contrasto, il Collegio ha trasmesso gli atti alla Prima Presidente, la quale ha rimesso alle Sezioni Unite l’esame della seguente questione, oggetto di contrasto, oltre che ritenuta di massima di particolare rilevanza:
«[…], se la traduzione in lingua italiana della procura rilasciata all’estero e dell’attività certificativa, sia nelle ipotesi di legalizzazione, sia ai sensi della Convenzione dell’Aja del 5.10.1961, sia ai sensi della Convenzione di Bruxelles del 25.5.1987, integri un requisito di validità dell’atto. In caso di assenza di traduzione della procura o dell’attività certificativa va stabilito:
i) se il giudice possa farne a meno, qualora conosca la lingua straniera in cui è stata redatta la procura;
ii) se possa o debba assegnare un termine, ai sensi dell’art.182 c.p.c., per la traduzione dell’atto e se tale potere -dovere possa esercitarsi anche nel giudizio di cassazione;
iii) se possa o debba egli stesso disporre la traduzione tramite la nomina di un esperto».
3.– Il quadro normativo e dottrinale.
Ai sensi dell’art. 12 della legge n. 218 del 1995 (secondo quanto già previsto dall’art. 27 disp. prel. cod. civ., poi abrogato da quest’ultima), la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché, in tali evenienze, la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci.
Anche in tema di procura alle liti trova applicazione, quindi, il principio per cui l’atto pubblico, o comunque l’atto formato con l’intervento di una pubblica autorità straniera, è valido se è tale in base alla legge che deve essere seguita dal pubblico ufficiale che ne cura la redazione.
Occorre, tuttavia, che «il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che in particolare consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore» (cfr. Cass., SU, n. 3410 del 2008; Cass., SU, n. 11165 del 2015).
3.1. In passato, per la validità della procura rilasciata all’estero era sempre necessariala cd. legalizzazione (in base alla disciplina prevista dagli artt. 15 e ss. della legge n. 15 del 1968, ora abrogata, e, attualmente, dal d.P.R. n. 445 del 2000), definita, dall’art. 1 del predetto d.P.R., come l’attestazione ufficiale della legale qualità di chi ha apposto la propria firma sopra atti, certificati, copie ed estratti, nonché dell’autenticità della firma stessa.
Trattavasi, cioè, di un onere formale ed accessorio che la legge poneva a carico della parte interessata alla utilizzazione davanti alle amministrazioni italiane di un atto formato all’estero.
3.2. Nel panorama normativo nazionale e sovranazionale, però, si è assistito aduna progressiva erosione dei requisiti richiesti per poter far valere atti e certificati formati in un altro Stato, in risposta alla crescente esigenza di realizzazione di un unico grande spazio giuridico, fondato sull’accettazione, da parte di tutti i soggetti coinvolti, di standardminimi di qualità e controllo.
Ne sono testimonianza le numerose convenzioni, bilaterali e plurilaterali, per mezzo delle quali i Paesi firmatari si sono impegnati reciprocamente a tenere esenti dalla legalizzazione gli atti pubblici che, redatti in altro Stato parimenti firmatario, debbano farsi valere di fronte alle proprie amministrazioni.
Si pensi, ad esempio:
a) alla Convenzione sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri,adottata a L’Aja il 5 ottobre 1961 e ratificata dall’Italia con la legge 20 dicembre 1966, n. 1253 (concretamente applicabile nella fattispecie oggi all’attenzione del Collegio);
b) alla Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, ratificata dalla legge 24 aprile 1990, n. 106, con la quale si è eliminato sia l’onere della legalizzazione che quello dell’apostille per tutti gli atti formati e diretti in uno Stato membro dell’Unione Europea;
c) alla Convenzione Europea per la soppressione della legalizzazione degli atti formati dai rappresentanti diplomatici o consolari, firmata a Londra il 7 giugno 1968 e resa esecutiva con la legge 28 gennaio 1971, n. 222.
3.3. Per quanto di specifico interesse in questa sede, con la Convenzione adottata all’Aja, tra i Paesi ad essa aderenti è stata abolita la legalizzazione da parte delle rispettive autorità diplomatiche o consolari all’estero e viene richiesto unicamente che l’atto sia munito dell’apostille, da apporre sull’atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, secondo il modello allegato alla stessa Convenzione.
L’apostille è rilasciata dall’autorità competente dello Stato nel quale l’atto è stato formato edattesta, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della Convenzione medesima, l’autenticità della firma, la qualità dei firmatari e, all’occorrenza, l’autenticità del timbro o del sigillo apposto sull’atto.
Detta Convenzione si applica a tutti gli atti pubblici, con la precisazione che devono intendersi tali, tra gli altri, i rogiti notarili e visti per data certa e i certificati di firma apposti su un atto privato, come disposto dall’art. 1, lett. c) e d).
In essa, pertanto, rientra anche la procura alle liti, che è un atto di natura sostanziale avente funzione processuale (cfr. Cass. n. 5877 del 1994; Cass. n. 5021 del 1995; Cass. n. 10901 del 2002), come specificato dall’art. 1, e ciò sia ove rilasciata sotto forma di atto pubblico (art. 1, lett. c]) che di scrittura privata autenticata (art. 1, lett. d]).
L’autenticazione della firma avvenuta tramite il procedimento ivi previsto, peraltro, non esime il notaio (o altro pubblico ufficiale autorizzato) dall’obbligo di accertare l’identità della persona che sottoscrive l’atto, atteso che il rispetto della lex fori italiana richiede che dall’autenticazione sia chiaramente desumibile che la sottoscrizione è stata apposta alla presenza del notaio (o del pubblico ufficiale autorizzato)e che questi ha accertato l’identità del sottoscrittore (cfr. Cass.n. 17713 del 2019, sebbene concernente una procura a vendere rilasciata all’estero con scrittura privata autenticata secondo il procedimento previsto dalla Convenzione di L’Aja e, dunque, regolarmente munita di apostille, ma per la quale il notaio straniero non aveva proceduto ad accertare l’identità della persona che aveva sottoscritto la procura).
Va precisato, peraltro, che l’apposizione della “apostille” attesta l’autenticità esclusivamente della firma, del titolo secondo il quale il firmatario abbia agito e della identità del sigillo o del bollo apposto sull’atto, ossia assolve la funzione di rendere certa la provenienza dell’atto, attestando l’autenticità della firma del notaio o del pubblico ufficiale straniero e la relativa qualifica, ma non sostituisce la funzione di verifica della legalità dell’atto stesso ai fini dell’utilizzo nell’ordinamento italiano, perché non attesta l’autenticità del contenuto dell’atto cui si riferisce e non si estende alla reale riferibilità dei dati alla situazione di fatto (cfr. Cass. n. 17713 del 2019).
Da ciò consegue che la “apostille” non ha la forza di conferire all’atto cui è apposta l’efficacia di fede privilegiata dell’atto pubblico formato ex art. 2700 cod.civ.
Essa, cioè, non ha efficacia certificativa del contenuto dell’atto cui si riferisce, né è idonea a garantire la reale riferibilità dei dati indicati nel documento alla situazione di fatto; in sede di giudizio, dunque, il giudice non è vincolato a ritenere come certo l’intrinseco del documento stesso, ossia il suo contenuto, facendo esso fede fino a querela di falso solo con riferimento all’autorità che lo ha emanato (cfr. Cass. pen. n. 35890 del 2012).
Anche il requisito dell’apostille, comunque, è stato successivamente abolito, a livello eurounitario, dalla già citata Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987.
3.4. Tanto premesso, giova rimarcare che, sullo specifico tema, oggi sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, della procura rilasciata all’estero, ove redatta in lingua non italiana e priva della traduzione della procura medesima e dell’attività certificativa, la dottrina si è raramente soffermata, essendosi occupata, invece, diffusamente ed approfonditamente, di altri profili ad esso connessi, soprattutto con riferimento alla sua assoggettabilità alla legge italiana, alla legalizzazione ed alle ipotesi di esenzione dalla legalizzazione medesima o di sua sostituzione con formalità quali l’apostille, nonché ai limiti territoriali del potere certificante del difensore.
La dottrina che si è specificamente occupata del peculiare tema di cui oggi si discute ha affermato, per lo più, la validità della procura alle liti redatta all’estero in lingua non italiana priva di traduzione, ritenendo ad essa applicabile il principio della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto fissato dall’art. 123 cod.proc.civ.
Secondo tale impostazione, la procura alle liti rilasciata in uno Stato straniero destinata ad essere utilizzata nell’ambito del processo in Italia deve essere tradotta nella lingua italiana, ma non è necessario che tale traduzione esista al momento della costituzione in giudizio della parte, posto che detta procura deve considerarsi come un atto preparatorio del processo e non già un atto processuale in senso proprio.
In ipotesi di mancata traduzione è esclusa, dunque, qualsiasi forma di invalidità dell’atto processuale e di inammissibilità dell’azione svolta, poiché l’inosservanza del precetto relativo all’uso della lingua italiana, nella specie, non attiene ad un atto processuale in senso proprio.
Va segnalata, poi, un’opinione, peraltro risalente, la quale, pur senza interrogarsi sulle conseguenze dell’inadempimento di tale onere, ritiene che alla procura redatta in lingua straniera vada allegata una traduzione asseverata nella lingua italiana.
A supporto di tale assunto, viene evocato il principio di esclusività dell’uso della lingua italiana nel processo fissato dall’art. 122 cod.proc.civ.
Più precisamente, tale dottrina ricollega l’obbligo di traduzione alla previsione testuale dell’art. 17 della legge n. 15 del 1968, disposizione attualmente trasposta nell’art. 33 del d.P.R. n. 445 del 2000, che, in via generale, prevede l’obbligo di allegare la traduzione per atti e documenti formati all’estero da autorità straniere e da valere nello Stato (disposizione che, tuttavia, secondo la dottrina più recente, trova applicazione per l’uso dei documenti presso i pubblici uffici ma non, invece, per la loro produzione giudiziale).
3.5. Al di là di queste specifiche trattazioni sulla procura alle liti, spunti utili possono trarsi, comunque, dagli argomenti di quegli Autori che si sono occupati, in via generale, dell’uso della lingua italiana nel processo, come disciplinato dagli artt. 122 e 123 cod.proc.civ.
Può considerarsi assolutamente pacifico che la prima regola sulla forma degli atti processuali è quella che prescrive l’uso della lingua italiana in tutto il corso del processo, come sancito dall’art. 122 cod. proc. civ.
È un principio, questo, che viene percepito quale riflesso della «unità e indivisibilità della Repubblica» costituzionalmente protetta e, comunque, perimetrata soprattutto in negativo dalle limitazioni necessarie alla tutela delle minoranze linguistiche (anch’esse costituzionalmente tutelate in base agli artt. 3 e 6 Cost.).
Va rimarcato, peraltro, che la dottrina generalmente esclude che, nel processo civile, l’inosservanza dell’obbligo dell’utilizzo della lingua italiana, in violazione dell’art. 122 cod.proc. c iv . , possa portare alla nullità dell’atto, in ciò rinvenendo, soltanto, una mera irregolarità.
Questa conclusione si fonda sul principio ditassatività delle nullità, sancito dall’art. 156 cod. proc. civ., e valorizza la diversa disciplina del processo penale, per il quale l’art. 109 cod. proc.pen., al comma 1, prescrive che gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana e, al successivo comma 3, commina la nullità per l’inosservanza di tale disposizione.
Si afferma, poi, che l’obbligatorietà della lingua italiana, prescritta dall’art. 122 cod.proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non si estende ai documenti prodotti dalle parti, che invece sono disciplinati dall’art. 123 cod. proc. civ., a tenore del quale, secondo il noto brocardo documenta per productionem fiunt communia, i documenti sono validamente acquisiti al processo per il solo fatto della loro produzione, indipendentemente dalla lingua in cui sono redatti, dall’assenza di una traduzione e da qualsiasi ulteriore attività della parte che li ha prodotti, della controparte o del giudice. Scatta poi, per quest’ultimo, l’obbligo di esaminare tutti i documenti prodotti in causa.
Si sostiene, pertanto, che la liceità della produzione dei documenti in lingua non italiana è testualmente, se pur implicitamente, sancita dall’art. 123, comma1, cod. proc. civ., né vi è motivo alcuno per ritenere che essa sia subordinata alla contestuale produzione di una traduzione più o meno formale.
Neppure – secondo la medesima opinione – può condurre a diversa conclusione l’obbligo previsto, in via generale, di allegare la traduzione per atti e documenti formati all’estero da autorità estere e da valere nello Stato, sancito dall’art. 33 della legge n. 445 del 2000 (come già, prima, dall’art. 17 della legge n. 15 del 4/1/1968 e, ancora prima, dall’art. 11 del d.P.R. n. 678 del 2/8/1957).
Tale disciplina, infatti, non ha specifico riguardo alla produzione giudiziale dei documenti, ma, genericamente, al loro uso presso i pubblici uffici.
3.6. Così individuata la diversa disciplina applicabile in riferimento all’obbligatorietà dell’uso della lingua italiana ed al correlato dovere di traduzione in base alla distinzione tra atti processuali in senso proprio redatti preparatori al processo, va ricordato pure che la dottrina ha costantemente ricondotto la procura alle liti a quest’ultima categoria, sicché, nell’affrontare il problema dei limiti e delle modalità di esercizio del potere del giudice di nomina del traduttore previsto da tale disposizione, la stessaha privilegiato la natura facoltativa di tale nomina (come desumibile anche dalla lettera dell’art. 123 cod. proc. civ., secondo cui “il giudice può nominare un traduttore”), così sottintendendo, dunque, che può anche avvalersi di altri mezzi, fermo restando, peraltro, che la traduzione deve essere necessariamente disposta in ipotesi di contrasti tra le parti in ordine al significato da attribuire al testo.
3.7. L’opinione che, invece,considera la traduzione della procura e della relativa attività certificativa come requisito di sua validità parte, analogamente al primo orientamento finora ricordato, dalla distinzione dell’ambito applicativo degli artt. 122 e 123 cod.proc. civ. ed esclude dalla sfera di operatività della prima disposizione gli atti prodromici al processo, come la procura.
Al contempo, sostiene che «il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto» sancito dall’art. 123 cod. proc.civ. comporta l’obbligo di traduzione, dal cui inadempimento deriva la nullità. Nell’ambito di questo orientamento, vi è, poi,chi ritiene che tale nullità non possa essere oggetto di sanatoria e chi la ritiene sanabile per rinnovazione nelle forme di cui all’art. 182 cod.proc. civ.
4. – La soluzione delle questioni poste dalla ordinanza di rimessione.
Le questioni delineate nell’ordinanza interlocutoria toccano diversi livelli in sequenza, ma è opportuno precisare, fin da ora, che ad esse resta estraneo il sopra ricordato principio – pacifico in dottrina ed in giurisprudenza – per cui la procura alle liti rilasciata all’estero è soggetta, ai sensi dell’art. 12 della legge n. 218 del 1995, alla legge processuale italiana, nel senso che la sottoscrizione del conferente debba sempre essere autenticata secondo modalità comunque idonee ad integrare i requisiti stabiliti dagli artt. 2699 e 2703 cod. civ., ancorché le specifiche formalità da adempiere e l’individuazione del soggetto investito dell’autorità di accertare l’identità del sottoscrittore rimangano regolate dalla legge dello Stato in cui è formato l’atto.
4.1. Muovendo, allora, dal rilievo che, giusta l’art. 83, comma 2, c od . proc. civ., la procura alle liti, generale o speciale, deve rivestire la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata, ne consegue che il requisito previsto dalla norma interna, in tema di conferimento della procura al difensore, è di natura squisitamente formale.
Inoltre, posto che la legge processuale italiana, laddove consente l’utilizzazione dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, occorre ricordare che, circa quest’ultima, l’art. 2703 cod. civ. sancisce che “La scrittura privata deve essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato” (comma 1) e che “ L’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è avvenuta in sua presenza ed il pubblico ufficiale, per autenticare la sottoscrizione, deve previamente accertare l’identità della persona che sottoscrive” (comma 2).
Da quanto fin qui detto deriva, quindi, che alla procura alle liti proveniente dall’estero si applicano i requisiti di forma dell’ordinamento del foro, inclusi i requisiti di fondo dell’autenticazione accolti dall’art. 2703 cod. civ., considerato come norma di applicazione necessaria.
Per la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata, dunque, occorre « che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che li caratterizzano nell’ordinamento italiano e che in particolare consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e che egli ha preventivamente accertato l’identità del sottoscrittore» (cfr. Cass., SU, n. 3410 del 2008 ).
In altri termini, la legge processuale italiana, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicchéla procura alla lite può essere conferita anche con atto redatto in conformità alla lex loci, all’estero, da un notaio o altro pubblico ufficiale da quest’ultima autorizzato ad attribuire pubblica fede ai documenti da lui redatti, sempre che tale atto sia equivalente, nella forma e nell’efficacia, a quello previsto dalla legge italiana di diritto processuale.
Pertanto, se si tratta di scrittura privata, l’atto deve contenere una sottoscrizione autenticata ed a tal fine è necessario (art. 2703 cod. civ.) che dall’autenticazione sia chiaramente desumibile che la sottoscrizione è stata apposta alla presenza del notaio e che questi ha accertato l’identità del sottoscrittore, anche se poi tale autenticazione non è redatta nello stesso giorno in cui è avvenuta la sottoscrizione, ma successivamente (cfr. Cass. n. 13228 del 2008).
4.2. Fermo quanto precede, il primo quesito posto a queste Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria n. 7757 del 2024 è se la traduzione di una procura rilasciata all’estero non in lingua italiana e della relativa attività certificativa integri, o non, un requisito di validità della procura medesima e se, quindi, in sua assenza, la procura sia, o meno, nulla.
Ad avviso di queste Sezioni Unite, la risposta ad un tale interrogativo deve essere negativa alla stregua delle complessive considerazioni di cui appresso.
4.3. Innanzitutto, va ribadito che la procura alle liti –necessaria tutte le volte in cui la legge non consenta alla parte di stare in giudizio personalmente – non è un atto del processo, ma un atto ad esso prodromico.
Più precisamente, essa è un atto di natura sostanziale, avente funzione processuale: è un atto, cioè, esterno al processo ma posto in essere al fine di consentire la corretta instaurazione di quest’ultimo.
Né detta finalità, diversamente da quanto pretesodalla ricorrente nella sua memoria datata 30 maggio 2025 (cfr. pag. 3 e ss.), è idonea a modificare la natura sostanziale di quell’atto.
Non vi è chi non veda, infatti, che i concetti di naturae funzione di un determinato atto (nella specie, appunto, la procura speciale alle liti) sono evidentemente diversi: il primo volto ad individuare la tipologia (atto pubblico, scrittura privata, etc.) dell’atto medesimo ed il secondo diretto a stabilire la ragione per cui quest’ultimo è (o deve essere) posto in essere.
Nulla osta, dunque, alla conclusione che la carenza o il vizio (ove insanabile) di un atto esterno al processo, come la procura de qua, possa avere ripercussioni negative su quest’ultimo, laddove specificamente previste dalla legge, ove il primo sia finalizzato proprio alla corretta instaurazione del secondo.
Da ciò la ulteriore conseguenza che, nell’ipotesi di procura rilasciata all’estero non in lingua italiana e priva della sua traduzione e di quella della relatività certificativa, non può trovare applicazione il disposto dell’art. 122, comma 1,cod. proc. civ. (“In tutto il processo è prescritto l’uso della lingua italiana”), riferito agli atti processuali in senso proprio, vale a dire soltanto alle attività processuali ed agli atti che si formano nele per il processo e non agli atti che siano solamente coordinati o preparatori a quelli processuali.
Detta traduzione, dunque, non costituisce requisito di validità della procura medesima, né è configurabile una nullità di quest’ultima ove non corredata dalla prima.
Tale conclusione, del resto, si armonizza perfettamente con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 15 del 1996, allorquando si è osservato che «Una – quella italiana – è, a norma dell’art. 122, la lingua nella quale si formano e si esprimono gli atti del processo […]. La lingua ufficiale del processo continua a essere una […]. Nell’esercizio di una professione come quella legale, che sicuramente presenta aspetti pubblicistici, l’obbligo dell’uso della lingua ufficiale non appare discutibile». Essa, inoltre, è assolutamente coerente con il principio ditassatività delle cause di nullità sancito dall’art. 156 , comma 1, c od . p roc . c iv . (“ Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”) e mostra di tenere conto della diversa disciplina del processo penale, per il quale l’art. 109 cod. proc. pen. prescrive, al comma 1, che “ Gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana” e, al successivo comma 3 , espressamente commina la nullità per l’inosservanza di tale disposizione.
A tanto deve aggiungersi che l’imporre (praeter legem, stante il diverso tenore delle riportate norme di cui agli articoli, rispettivamente, 156 cod. proc. civ., e 109 cod. proc. pen.) l’obbligo di traduzione in lingua italiana della procura rilasciata all’estero come requisito di validità dell’atto comporterebbe l’introduzione di un palese ostacolo al diritto di azione senza che questa costrizione sia giustificata da un preminente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo adeguato alla funzione ad esso assegnata, vieppiù considerandosi che nel processo civile – diversament e da quello penale (ove l’intermediazione linguistica assicura la piena esplicazione del diritto di difesa el’effettività della tutela giurisdizionale) – l’uso della lingua italiana si limita ad assolvere la funzione di ausilio per il giudice per l’assolvimento delle sue funzioni quanto alla sua pubblica autorità edalla integrità della cognizione degli elementi della causa.
Un obbligo come quello predetto, allora, sarebbe in palese contrasto con l’orientamento della Corte costituzionale che reputa manifestamente irragionevole la (pur discrezionale) conformazione degli istituti processuali ogniqualvolta emerga una ingiustificabile compressione del diritto di agire exart. 24 Cost. (cfr. sent. n. 335 del 2004).
4.4. Queste stesse Sezioni Unite, del resto, sempre in tema di procura, hanno osservato, nel risolvere la questione ad esse sottoposta, che « la soluzione del problema non può prescindere dalla considerazione della centralità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost. e dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Tale diritto, come più volte ribadito sia dalla Corte costituzionale che dalle Corti Europee, per poter essere concretamente esercitato, impone che gli ostacoli di natura procedurale impeditivi al raggiungimento di una pronuncia di merito siano limitati ai casi più gravi, nei quali non è possibile assumere una decisione diversa (si veda, tra le pronunce più recenti, la nota sentenza della CEDU 28 ottobre 2021, pronunciata nel caso Succi contro Italia, nella quale la Corte Europea ha evidenziato che le limitazioni all’accesso alle Corti Supreme non devono essere interpretate in modo troppo formale).
Tutto ciò sulla base dell’indiscutibile affermazione secondo cui il processo deve tendere per sua natura ad una decisione di merito, perché risiede in questo l’essenza stessa del rendere giustizia» (cfr. Cass.,SU, n. 36057 del 2022).
Inoltre, proprio la giurisprudenza più recente delle medesime Sezioni Unite (cfr. Cass, SU, n. 35466 del 2021; Cass., SU , n. 36057 del 2022; Cass., SU, n. 2077 del 2024; Cass., SU, 29812 del 2024) ha preso le distanze da un approccio formalistico in tema di validità e specialità della procura nel ricorso per cassazione, superando un orientamento rigoroso adottato da una parte della giurisprudenza di legittimità, malgrado le stesse Sezioni Unite avessero espresso un’interpretazione più flessibile.
4.5. La Corte EDU, dal canto suo, ha più volte sostenuto che il «diritto a un tribunale, non è assoluto e si presta a limitazioni implicitamente ammesse, in particolare per quanto riguarda le condizioni di ammissibilità di un ricorso, poiché esso richiede per la sua stessa natura una regolamentazione da parte dello Stato, il quale gode a questo proposito di un certo margine di discrezionalità.
In ogni caso, le restrizioni applicate non devono limitare l’accesso al giudice in un modo tale che il diritto risulti pregiudicato nella sua stessa sostanza» (cfr. Corte EDU, sentenza Trevisanato c. Italia, n. 32610/07, § 33, 15/9/2016, nonché, tra le pronunce più recenti, Corte EDU, sentenza Succi c. Italia, n. 55064/11, 28/10/2021, con la quale i giudici di Strasburgo hanno evidenziato che le limitazioni all’accesso alle Corti Supreme non devono essere interpretate in modo troppo formale. In particolare, le limitazioni di accesso adun giudizio si conciliano con l’art. 6, § 1, CEDU solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito).
4.6. In definitiva, il principio di strumentalità delle forme costituisce un canone interpretativo che il giudice deve osservare nell’applicazione delle norme sulle invalidità processuali, ivi comprese quelle che comminano la sanzione “forte” dell’inammissibilità, verificando se alla deviazione della forma -contenuto rispetto al paradigma legale sia effettivamente conseguito il mancato raggiungimento del risultato pratico avuto di mira dal legislatore in relazione alla fattispecie concreta, nonché allo scopo generale del processo rappresentato dalla definizione del giudizio mediante una pronuncia di merito.
La valenza ermeneutica del principio suddetto risulta corroborata dai canoni sovranazionali di effettività, funzionalità e celerità dei modelli processuali, oltre che dal principio, di matrice eurounitaria, di proporzionalità e di ragionevolezza.
Il diritto vivente, pertanto, non può coniare -in nome di un approccio formalista concettualista – nuovi requisiti di accesso al giudizio di legittimità, in spregio al ragionevole contemperamento tra la necessità della forma e l’effettività della tutela.
4.7. Escluso, dunque, che la traduzione in lingua italiana della procura e dell’attività certificativa integri un requisito di sua validità dell’atto , riferendosi, come si è detto, l’art. 122 cod. proc. civ. solo agli atti processuali in senso proprioe non anche agli atti prodromici al processo, a questi ultimi, ossia agli atti giuridici dei soggetti del processo che a questo sono semplicemente coordinati o agli atti, come la procura alle liti, che sono preparatori del processo, va applicato, invece, come ad ogni altro documento esibito dalle parti, l’art. 123 cod. proc. civ., a tenore del quale “ Quando occorre procedere all’esame di documenti che non sono scritti in lingua italiana, il giudice può nominare un traduttore, il quale presta giuramento a norma dell’articolo 193”.
Trattasi, come è evidente, di una disposizione che sancisce un «principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto» (cfr. Cass., SU, n. 26937 del 2013; Cass. n. 19900 del 2023; Cass. 30035 del 2011), dal quale discende che la traduzione in lingua italiana non integra requisito di validità dell’atto, rimettendo, così,al potere del giudice disporre la nomina del traduttore. In altri termini, gli atti prodromici al processo (quali, in particolare, gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni), se redatti in lingua straniera, devono ritenersi prodotti validamente, avendo il giudice la facoltà, ma non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno allorquando sia in grado di intendere il significato degli stessi documenti perché di agevole comprensione, o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte.
4.8. In definitiva, la produzione di documenti redatti in lingua straniera e l’impiego della procura estera non muniti contestualmente di traduzione allegata, non sono vietate dall’ordinamento processuale e, quindi, non possono ritenersi comunque “inutilizzabili”, categoria che, in ogni caso, non può prescindere da un riferimento normativo, assente nel caso di specie.
Ne deriva che l’art. 122 cod.proc. civ., che prescrive l’uso della lingua italiana in tutto il processo, non esonera il giudice dall’obbligo di prendere in considerazione la procura estera, ancorché espressa in lingua diversa da quella italiana, restando affidato al suo potere discrezionale il ricorso ad un interprete, exart. 123 cod. proc. civ., a seconda che sia, o meno, in grado di comprenderne il significato o che in ordine ad esso sorgano contrasti tra le parti (cfr. Cass. n. 1608 del 2011; Cass. n. 6093 del 2013; Cass. n. 12515 del 2015. Significativa risulta pure Cass. n. 5200 del 2025, secondo la quale, ovei documenti siano redatti in lingua straniera «il giudice, ai sensi dell’art.123 c.p.c., ha la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, della quale può farsi a meno allorché le medesime parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto ovvero esso sia accompagnato da una traduzione che, allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa»).
Alteris verbis, la discrezionalità del giudicante, rispetto alla nomina, o non,di un traduttore, dipende dalla sua possibilità, o meno, di comprendere comunque il significato del documento in lingua straniera, pur in assenza di una traduzione, ovvero dal fatto che sugli stessi documenti non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte (cfr. Cass. n. 33079 del 2022; Cass. n. 24980 del 2020).
È inipotizzabile, allora,qualsiasi rischio di violazione del contraddittorio (per la cui salvaguardia le norme in esame sono dettate), poiché, comunque, resta sempre ferma l’obbligatorietà della traduzione in ipotesi di contrasto tra le parti sul significato da attribuire al testo o sulla sua traduzione giurata allegata dalla parte.
4.9. Le conclusioni fin qui esposte, oltre a scongiurare interpretazioni ispirate adun rigido formalismo (già disattese, peraltro, come si è anticipato, da queste Sezioni Unite nelle piùrecenti pronunce rese sul tema della procura speciale alle liti, e tenuto altresì conto del fatto che (OMISSIS) (OMISSIS), pur affermando che la mancanza di traduzione le aveva precluso la corretta comprensione dell’atto, non ha minimamente spiegato in cosa fosse consistito il concreto pregiudizio così lamentato), si rivelano assolutamente coerenti con i principi, consacrati a livello nazionale e sovranazionale, di strumentalità e di proporzionalità delle limitazioni di accesso al giudizio, imposti dal rispetto del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost. e dall’art. 6 Cedu.
Del resto, le sanzioni che, come l’inammissibilità, sono insuscettibili di sanatoria non possono che essere interpretate in senso restrittivo e, cioè, circoscrivendone l’ambito di applicazione ai soli casi in cui il rigore che contraddistingue tale forma di invalidità risulti veramente giustificato (cfr . Cass., SU, n. 15439 del 2022).
D’altronde, la non persuasività dell’impostazione che giunge all’inammissibilità dell’impugnazione o dell’avvenuta costituzione della parte convenuta in giudizio in assenza di traduzione della procura e dell’attività certificativa tanto più emerge se si considera che, nei tempi attuali, alla luce della globalizzazione dei rapporti, è sempre più sentita l’esigenza della creazione di un “unico spazio giuridico”, che consenta la libera circolazione degli atti sulla base di un mutuo riconoscimento degli stessi, tramite l’accettazione, da parte di tutti i soggetti coinvolti, di standard minimi di qualità e controllo. Scopo al quale tendono proprio le varie convenzioni stipulate tra Paesi che hanno rinunciato a d una serie di formalità (Convenzione dell’Aja, Convenzione di Bruxelles, Convenzione di Londra).
4.10. Calando, allora, le conclusioni suddette nella fattispecie in esame, ne consegue l’infondatezza della descritta eccezione di nullità formulata da (OMISSIS) (OMISSIS) quanto alla procura speciale rilasciata, per l’odierno giudizio di legittimità, da (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) ai propri difensori con atto autenticato dal notaio (OMISSIS) (OMISSIS), dello Stato della Florida, in data 2 gennaio 2018, munita di apostille (ai sensi della Convenzione dell’Aja 5 ottobre 1961) dal Secretary of Statedel Dipartimento di Stato della Florida (Usa), n. 2018-1105 del 4 gennaio 2018, allegata al controricorso, stante la redazione del testo della procura medesima in lingua italiana e l’agevole comprensibilità della corrispondente attività certificativa (“Subscribed and sworm before me, this second day of January, 2018 a Notary Public”) e della relativa apostille. Resta solo da aggiungere che, il testo – giova ripeterlo, in italiano – della procura speciale de quareca pure l’indicazione delle generalità di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (con indicazione di luogo e data di nascita dello stesso, oltre che del suo codice fiscale), sicché appare del tutto ragionevole opinare che, nel ricevere la sottoscrizione di quell’atto innanzi a sé, il menzionato notaio, autenticandola, abbia anche implicitamente identificato il conferente la procura.
4.11. Con riferimento alle questioni sottoposte a queste Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria n. 7757 del 2024, vanno enunciati, dunque, i seguenti principi di diritto:
«In materia di atti prodromici al processo, quale, nella specie, la procura speciale alle liti, la traduzione in lingua italiana di quest’ultima e dell’attività certificativa, sia nelle ipotesi di legalizzazione, sia ai sensi della Convenzione di L’Aja del 5ottobre 1961, sia ai sensi della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, non integra un requisito di validità dell’atto , sicché la sua carenza non dà luogo ad alcuna nullità»; «Ai sensi degli artt. 122 e 123 cod. proc. civ., la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per gli atti prodromici al processo (quali, in particolare, gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni), che, se redatti in lingua straniera, devono pertanto ritenersi prodotti validamente, avendo il giudice la facoltà, ma non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno allorché sia in grado di comprendere il significato degli stessi documenti o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte».
5.– La decisione degli altri motivi di ricorso.
I residui motivi di ricorso secondo, terzo, quarto e quinto, formulati da (OMISSIS) (OMISSIS) denunciano, rispettivamente:
II) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: violazione e falsa applicazione di norme di diritto relativamente agli artt. 221, comma 1, e 295 c.p.c., anche in riferimento all’art. 164 c.p.c.: omessa sospensione exart. 295 c.p.c. data la pendenza di querela di falso avverso la procura alle liti della parte sostanziale». Viene lamentata la mancata sospensione del giudizio di secondo grado malgrado l’avvenuto deposito, da parte della odierna ricorrente, all’udienza di precisazione delle conclusioni, di una querela di falso, proposta in via principale da un soggetto terzo rispetto al giudizio, avverso la procura alle liti rilasciata da (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (unico convenuto legittimato passivo sostanziale) al proprio difensore costituito Avv. (OMISSIS) (OMISSIS), unitamente alla certificazione della cancelleria di pendenza del corrispondente procedimento;
III) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 70 e ss. c.p.c., in combinato disposto con l‘art. 221 c.p.c.: tardività della comunicazione al P.M. della pendenza della lite ove il suo intervento è obbligatorio». Viene dedotta la mancata, tempestiva comunicazione al Pubblico Ministero della pendenza del giudizio avente ad oggetto la querela di falso dell’inventario redatto dal notaio dott. (OMISSIS) (OMISSIS), malgrado la partecipazione a detto giudizio del primo fosse obbligatoria;
IV) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 221 e ss. c.p.c., anche in combinato disposto con gli artt. 770 e ss. c.p.c. e 100 c.p.c.: sui requisiti dell’ammissibilità dell’azione di querela di falso, sulla natura dell’inventario e sull’interesse ad agire della ricorrente». Si chiede a questa Corte di «dichiarare che la sentenza impugnata veicola una errata applicazione e interpretazione – e con ciò una violazione – delle norme in tema di querela di falso proposta in via principale con precipuo riferimento alla proponibilità della stessa avverso l’inventario di un’eredità»;
V) «Ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: violazione di legge con riferimento ai requisiti sostanziali di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c.», contestandosi gli assunti posti dalla corte distrettuale a fondamento della pronunciata condanna della odierna ricorrente al pagamento della somma di € 5.000,00, ex art. 96 comma 3, cod. proc. civ., in favore del notaio dott. (OMISSIS) (OMISSIS).
5.1. Il descritto secondo motivo di ricorso è infondato.
Invero, giova precisare che:
i ) l’odierno giudizio di legittimità investe la decisione resa dal giudice di secondo grado sulla querela di falso proposta, in via principale, da (OMISSIS) (OMISSIS), in relazione all’inventario dell’eredità di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (la ricorrente ha dichiarato di agire “quale erede universale” di (OMISSIS) (OMISSIS), sostenendo che nel patrimonio da questa relitto facessero parte anche diritti sull’eredità morendo dismessa dalla (OMISSIS). Cfr. pag. 5 della sentenza qui impugnata) redatto dal notaio (OMISSIS) (OMISSIS) su istanza della Provincia Religiosa (OMISSIS) di (OMISSIS), che aveva accettato quell’eredità con beneficio di inventario, ritenuto dall’attrice incompleto e non veritiero perché non comprendente alcuni beni di proprietà della de cuius;
ii) la censura in esame lamenta la mancata sospensione di quel giudizio di secondo grado malgrado l’avvenuto deposito, da parte della (OMISSIS), all’udienza di precisazione delle conclusioni, di un’altra querela di falso, proposta in via principale da un soggetto terzo rispetto al giudizio, avverso la procura alle liti rilasciata da (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (unico convenuto legittimato passivo sostanziale) al proprio difensore costituito Avv. (OMISSIS) (OMISSIS) al fine di costituirsi nel giudizio medesimo unitamente alla certificazione della cancelleria di pendenza del corrispondente procedimento.
Tanto premesso, rileva il Collegio che la sospensione necessaria del processo è prevista quando la decisione del medesimo “dipenda” dall’esito di altra causa, con ciò alludendosi al fatto che la pronuncia da prendersi in detta altra causa abbia portata pregiudiziale in senso stretto, e cioè sia idonea a spiegare effetti vincolanti, con l’autorità propria del giudicato sostanziale, in quanto suscettibile di definire, in tutto o in parte, il tema del dibattito del giudizio da sospendere (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass., SU, n. 14060del 2004; Cass. nn . 8174 e 9901 del 2006; Cass. n. 15353 del 2010 ).
La sospensione exart. 295 cod. proc. civ., dunque, presuppone l’esistenza di un nesso di pregiudizialità sostanziale, ossia una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi (dedotti in via autonoma in due diversi giudizi), uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo.
Nel caso di specie, invece, la pregiudizialità che si configura è meramente processuale (investendo la sola validità, o non, della costituzione del (OMISSIS) (OMISSIS) nel giudizio di querela di falso intrapreso da (OMISSIS) (OMISSIS), ma non pregiudicandone, di per sé, in alcun modo l’esito) e non sostanziale, sicché sarebbe stata inipotizzabile, già solo per questo, la sospensione del giudizio di appello ex art. 295 cod. proc. civ. oggi invocata dalla ricorrente.
Devono considerarsi, poi, le regole desumibili dall’art. 355 cod.proc. civ. Questa norma, infatti, consente al giudice d’appello di sospendere il giudizio soltanto se “nel” giudizio d’appello è proposta querela di falso. La sospensione del processo d’appello è consentita, pertanto, nel caso di querela di falso proposta in via incidentale.
Se ne desume, in virtù del noto principio inclusio unius, exclusio alterius, che se, pendente il giudizio di appello, venga proposta una querela di falso in via autonoma, non è consentita la sospensione del giudizio di impugnazione (cfr. Cass. n. 13376 del 2023).
In senso contrario non vengono in rilievo l’art. 221, comma1, cod. proc. civ., né l’art. 295 cod. proc. civ.
Il primo di essi stabilisce che “La querela di falso può proporsi tanto in via principale quanto in corso di causa”, ma poiché il successivo art. 355 cod. proc. civ., come già rilevato, consente la sospensione del processo solo se la querela di falso è proposta “nel” giudizio d’appello, le due norme vanno coordinate nel senso che la parte interessata resta libera di proporre la sua querela di falso nel giudizio d’appello o in via autonoma: ma, se sceglie la seconda strada, rinuncia ipso facto al beneficio della sospensione (cfr. Cass. n. 13376 del 2023).
Chi propone in via autonoma una querela di falso, pendente il giudizio d’appello, nemmeno può richiedere la sospensione di quest’ultimo invocando l’art. 295 cod.proc.civ. (secondo cui “ Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”).
Tale norma, infatti, potrebbe giustificare la sospensione del processo di merito soltanto se questo fosse introdotto dopo la proposizione in via autonoma del giudizio di falso. Se, invece, venga introdotto per primo il giudizio di merito, e né nel primo, né nel secondo grado di esso la parte interessata si avvalga della facoltà di proporre la querela di falso in via incidentale, resta esclusa la possibilità di sospendere il suddetto giudizio di merito soloperché una delle parti abbia introdotto in via autonoma un giudizio di falso.
Anche in tal caso, infatti, troverà applicazione l’art. 355 cod.proc.civ., che è insuscettibile di interpretazione estensiva e che,per quanto detto, consente la sospensione del giudizio di appello solo nel caso di querela di falso proposta in via incidentale (cfr. Cass. n. 13376 del 2023).
Il possibile conflitto tra il giudizio di impugnazione e il giudizio di falso, poi,sarà composto in base alle norme generali.
5.2. Il terzo motivo del ricorso di (OMISSIS) (OMISSIS) si rivela inammissibile ex art. 360-bis.1 cod. proc. civ.
Invero, non solo costituisce ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte (né le argomentazione della odierna censura offrono significativi elementi per rivisitarlo), il principio secondo cui l’obbligatorietà dell’intervento del Pubblico M inistero, nei casi espressamente previsti dalla legge (nella specie, giudizio di falso), comporta il dovere di informarlo del procedimento, al fine di porlo in condizione di esercitare i poteri attribuitigli dall’articolo 72 c.p.c., ma non postula anche che un rappresentante di quell’ufficio debba necessariamente essere presente a tutte le udienze, ovvero prendere conclusioni orali o scritte (cfr., ex aliis, Cass. n. 12254 del 2020; Cass. 1593 del 1984; Cass. n. 1948 del 1976), ma è stato anche ulteriormente precisato che l’obbligatorietà dell’intervento del Pubblico Ministero, come nel caso del giudizio di falso ai sensi dell’articolo 221, ultimo comma, cod. proc. civ., impone la comunicazione della pendenza della causa, per metterlo in grado, al pari di qualsiasi altro litisconsorte necessario, d’intervenire, mentre la concreta assunzione di conclusioni e partecipazione ai singoli atti istruttori (per i quali non si richiede un formale avviso) rientra nelle scelte discrezionali del medesimo Pubblico Ministero, al quale soltanto spetta altresì di eccepire o meno l’eventuale inefficacia degli atti compiuti prima della sua chiamata in causa (cfr. Cass. n. 12254 del 2020; Cass. n. 1390del 1986).
Il giudice di merito, dunque, ha deciso in diritto in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, ritenendo sufficiente che il Pubblico Ministero fosse stato avvisato, nel corso del giudizio di primo grado, quantunque all’udienza di precisazione delle conclusioni, di guisa che, ove lo avesse ritenuto, soltantoal Pubblico Ministero medesimo sarebbe spettato di dedurre l’inefficacia degli atti in precedenza compiuti: non risulta, tuttavia, dalla sentenza impugnata che il Procuratore Generale presso la Corte d’appello abbia lamentatol’essere stato informato il Pubblico Ministero, in primo grado, della pendenza del giudizio, per i fini del suo intervento, solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.
5.3. Il quarto motivo di ricorso di (OMISSIS) (OMISSIS) è complessivamente infondato.
Invero, la Corte distrettualeha rimarcato, richiamando la corrispondente giurisprudenza di questa Corte (in particolare, Cass. n. 6793 del 2012), che i presupposti di ammissibilità della querela di falso sono:
i) l’essere insorta contestazione sulla genuinità del documento;
ii ) l’essersi fatto uso di quest’ultimo, anche al di fuori del processo;
iii) l’essere il contenuto del medesimo documento suscettibile di costituire mezzo di prova contro l’istante.
La sentenza impugnata ha ritenuto, poi, sulla base degli atti di causa e con chiara, logica ed esaustiva motivazione, che l’appellante, odierna ricorrente,non avesse contestato la genuinità della formazione del l’inventario redatto dal notaio (OMISSIS), oppure che quest’ultimo avesse volutamente omesso di indicare beni da lui accertati come appartenenti alla de cuius e, come tali, da ricomprendersi nell’inventario stesso, ma, esclusivamente, “l’imprecisione e l’incompletezza delle dichiarazioni rese da terzi al notaio e il mancato accertamento dell’esistenza di beni asseritamente compresi nel patrimonio ereditario”.
La Corte suddetta, inoltre, ha negato che quel documento potesse costituire una prova contro l’istante, atteso che la fede privilegiata attribuita all’atto redatto dal notaio concerne solo la provenienza del documento da chi l’ha sottoscritto, la conformità al vero della “veste estrinseca” del documento (data, sottoscrizione) e la conformità al vero di quanto il pubblico ufficiale attesta essere avvenuto in sua presenza.
È innegabile, dunque, l’avvenuta corretta applicazione, ad opera di quella Corte, dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’atto pubblico redatto dal notaio fa fede fino a querela di falso relativamente alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, alle dichiarazioni al medesimo rese ed agli altri fatti dal medesimo compiuti, ma tale efficacia probatoria non si estende anche ai giudizi valutativi che lo stesso abbiaeventualmente svolto (cfr., e multis , anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 18848 del 2023; Cass. n. 27489 del 2019; Cass. n. 3787 del 2012; Cass. n. 9649 del 2006).
In altri termini, l’atto pubblico fa piena prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ma nei limiti della sola attività materiale, immediatamente e direttamente richiesta, percepita e constatata dallo stesso pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni; non prova, invece, la veridicità o l’esattezza delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale dalle parti medesimee, pertanto, le stesse possono essere accertate con ogni mezzo di prova ma non con la querela di falso (cfr. Cass. n. 20214 del 2019; Cass. n. 22903 del 2017; Cass. n. 10569 del 2001; Cass. n. 6090 del 2000; vedasi, pure Cass. n. 18328 del 2022, a tenore della quale un problema di falso ideologico, da far valere necessariamente attraverso querela di falso, potrà porsi solo nel caso dell’atto rogato dal notaio o da pubblico ufficiale e solo nei limiti nei quali a questo è attribuito valore di piena prova).
La ricorrente, inoltre, censurala sentenza impugnata anche nella parte in cui ne ha rilevatola carenza di interesse ad agire perchéla qualità di “erede universale” di (OMISSIS) (OMISSIS), spesa dalla prima nell’intraprendere il giudizio di querela di falso in questione sul presupposto che nel patrimonio relitto da quest’ultima facessero parte anche diritti sull’eredità dismessa, morendo, da (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS), non aveva tenuto conto della sentenza della Corte di appello di Genova n. 815/2009, divenuta definitiva per effetto del rigetto, con sentenza di questa Corte n. 8272 del 2012, del ricorso per cassazione contro la stessa promosso (sentenza che aveva dichiarato essere (OMISSIS) (OMISSIS) erede universale di (OMISSIS) (OMISSIS)).
Anche in parte qua la doglianza non merita accoglimento, atteso che, giusta l’appena citata sentenza della Corte di appello di Genova n. 815/2009 passata in giudicato, (OMISSIS) (OMISSIS) non può vantare alcun diritto sui beni di cui alla successione di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) e, conseguentemente, nemmeno se ne vede l’interesse all’accertamento della consistenza di quel patrimonio ereditario.
5.4. Il quinto motivo di questo ricorso, infine, si rivela infondato.
Invero, la chiara ed esaustiva motivazione con cui la Corte distrettuale ha giustificato la condanna, in quella sede, della odierna ricorrente ex art. 96, comma 3, cod. proc. civ. (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata, laddove siè rimarcato che « […], l’appellante, sia nell’atto di citazione che in quello di appello, ha tenuto una condotta difensiva difforme dal consolidato orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità circa l’inammissibilità della querela di falso e sulla partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio, dissertando, invece, ampiamente sulla legittimazione e sull’interesse ad agire della (OMISSIS), seppure tale questione non sia stata esaminata nel giudizio in esame. […]
Tali difese hanno costretto la parte appellata ad una attività difensiva altrimenti non dovuta […]»), risulta assolutamente coerente, – anche tenuto conto dell’esito negativo dei motivi di impugnazione secondo, terzo e quarto formulati in questa sede – con la giurisprudenza di questa Corte che ha tipizzato, tra le condotte sanzionabili ex art. 96, comma 3, cod. proc. civ., la insistenza colpevole, in grado di appello, su tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero su censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame (cfr. Cass. n. 34693 del 2022).
4. In conclusione, quindi, l’odierno ricorso di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) – (OMISSIS) deve essere respinto, restando a suo carico le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalle costituitesi parti controricorrenti (nessuna pronuncia, invece, essendo ipotizzabile relativamente a quelle rimaste solo intimate), altresì dandosi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre « spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento».
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) e la condanna al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti costituitesi, in € 7.000.00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione, il giorno 10 giugno 2025.
Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2025