La Corte Suprema ribacchetta i Giudici del Tribunale di Sorveglianza che hanno negato un permesso premio al detenuto, invitandoli ad attenersi al “dictum” (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 29 dicembre 2020, n. 37673).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CATENA Rossella – Presidente –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta Maria – Rel. Consigliere –

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

DE MARTINO ALFONSO nato a SALERNO il 18/10/1945;

avverso l’ordinanza del 09/07/2020 del TRIBUNALE di SORVEGLIANZA di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

sentita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Elisabetta Maria Morosini;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Marco Dall’Olio, che ha concluso chiedendo che la Corte di cassazione, riunita in camera di consiglio, annulli con rinvio l’ordinanza impugnata, con le conseguenze previste dalla legge.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di sorveglianza di Roma, quale giudice di rinvio, ha rigettato il reclamo, proposto da De Martino Alfonso, avverso il provvedimento del 20/03/2018 del Magistrato di Sorveglianza di Roma, che aveva respinto una istanza di concessione di un permesso-premio in favore del detenuto.

Il Tribunale di Sorveglianza ha preso atto che:

– il detenuto aveva tenuto un corretto comportamento;

– si era impegnato con continuità nelle attività trattamentali, culturali e di studio;

– erano insorte problematiche di salute correlate all’età;

– il gruppo di osservazione aveva espresso parre favorevole alla concessione del permesso sì da consentire un maggiore avvicinamento ai figli;

– la detenzione perdurava da lunga durata.

Ciononostante ha ritenuto che il permesso premio non spettasse in quanto:

– l’interessato era stato condannato per avere ucciso quattro pazienti oncologici di un ospedale ove egli prestava servizio come infermiere;

– le sue istanze di benefici non erano mai state accolte per mancanza di revisione critica della sua devianza;

– nel manoscritto allegato alla relazione psicologica, come già rilevato nel provvedimento annullato dalla Corte di Cassazione, il De Martino “si limita ad una assunzione di responsabilità e non esprime pentimento, né consapevolezza della gravità delle condotte illecite”;

– in mancanza di una significativa osservazione psicologica non è stato possibile formulare una prognosi di superamento del profondo disagio psichico che ha portato alla commissione di gravissimi reati nel corso degli anni;

– la relazione psicologica del 9 febbraio 2018 è laconica e sostanzialmente interlocutoria a causa dell’intervenuto avvicendarsi dell’esperto.

2. Avverso il provvedimento ricorre il detenuto, tramite il difensore, articolando un unico motivo con il quale denuncia violazione di legge e vizio di motivazione sotto vari profili.

2.1. Il giudice di rinvio non avrebbe rispettato i principi dettati dalla sentenza rescindente, così sintetizzati:

– il rigetto del permesso premio non può basarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti commessi;

– non si possono eludere o ignorare le informazioni provenienti dall’attività di osservazione trattamentale e quelle relative alla attuale personalità dell’imputato;

– un eventuale giudizio sull’abiezione morale di reati commessi oltre ventisette anni prima e in un contesto ben circoscritto non legittima una pretesa di pentimento (che pure, nella specie, vi è stato) né la gravità dei reati può dare luogo a un automatico giudizio di pericolosità.

2.2. La nuova ordinanza riprodurrebbe i medesimi errori del provvedimento annullato.

L’assunto, posto a base della decisione impugnata, secondo cui difetterebbe una revisione critica del vissuto, contrasta con tutti i risultati trattamentali e psicologici a disposizione del Tribunale: il direttore dell’istituto ha espresso parere favorevole; il gruppo di osservazione e trattamento della casa di reclusione ha riferito che il detenuto era pervenuto a una rivisitazione dei delitti e ha ritenuto inverosimile che lo stesso potesse commettere altri delitti nel corso di eventuali permessi premio; la relazione personologica del 9 febbraio 2018 si esprime in termini favorevoli.

Inoltre il provvedimento fa leva su un manoscritto del detenuto, ponendo in rilievo parole che si riferiscono allo svolgimento dei fatti e al contesto ambientale da cui è scaturita l’azione omicidiaria, senza fare menzione di altre rilevanti parti del medesimo scritto in cui il detenuto esprime rammarico “di aver rovinato la propria vita e quella dei suoi cari e di aver tolto la vita a persone”.

2.3. L’ordinanza considera i tratti negativi di personalità del condannato risalenti all’epoca dei fatti, mentre non dedica alcuna attenzione alla condizione di attualità, concretezza e persistenza della pericolosità sociale di una persona di 75 anni, in precarie condizioni di salute, detenuta da 27 anni.

2.4. La motivazione del provvedimento esulerebbe del fine e dai caratteri del beneficio invocato, finalizzato a svolgere una funzione pedagogica ispirata alla progressione del trattamento penitenziario.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. Va premesso che nella materia vengono in rilievo principi costituzionali e sovranazionali di rilevante valore e pregnanza.

2.1. Il sistema penitenziario italiano si basa sul principio della progressione trattamentale del detenuto, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società.

Mano a mano che fa progressi in carcere, al condannato viene offerta la possibilità di beneficiare di misure progressive che lo accompagnino nel suo «percorso verso l’uscita».

A partire dalla sentenza n. 313 del 1990, la Corte Costituzionale ha spiegato che nella esecuzione della pena assume un ruolo centrale la risocializzazione, che deve orientare l’azione del legislatore, del giudice del processo, del magistrato di sorveglianza e delle autorità penitenziarie.

Da ultimo, con la sentenza n. 253 del 2019, la Corte costituzionale ha evidenziato che «il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento.

Esso consente “al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà” (sentenza n. 188 del 1990), mostrando perciò una funzione “pedagogico-propulsiva” (sentenza n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del 1995)».

La giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 149 del 2018) «ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017).

Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006)» (così Corte Cost. sentenza n. 253 del 2019, cit.).

«Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere» (Corte Cost. n. 253 del 2019, cit.).

«Il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto.

Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002). Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto» (Corte Cost. n. 253 del 2019, cit.).

2.1. La Corte Edu ha ripetutamente chiarito che «la dignità umana, che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà in maniera coercitiva senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà» (sentenza della Grande Camera Vinter e altri contro il Regno Unito, n. 66069/09 e altri 2, CEDU 2013; sentenza Viola c. Italia del 13 giugno 2019).

Le autorità nazionali devono dare ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserirsi (Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, nn. 15018/11 e 61199/12, CEDU 2014).

«Si tratta di un obbligo positivo di mezzi, e non di risultato, che implica di garantire per questi detenuti l’esistenza di regimi penitenziari che siano compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano loro di fare progressi in questa direzione» (Murray c. Paesi Bassi, 26 aprile 2016).

La Corte Edu ritiene che «la personalità di un condannato non rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità» (sentenza Viola c. Italia, citata).

3. L’ordinanza impugnata è stata pronunciata dal Tribunale di sorveglianza di Roma, quale giudice di rinvio a seguito dell’annullamento del precedente provvedimento, disposto dalla Corte di cassazione, investita dalla impugnazione del Procuratore generale.

Con la sentenza rescindente, n. 50976 del 29 ottobre 2019, la prima sezione penale della Corte di cassazione ha stabilito quanto segue:

– l’art. 30 ter ord. pen. qualifica il permesso-premio come parte integrante del trattamento e calcola il periodo di tempo del permesso premio come pena espiata;

– è imprescindibile considerare, nella peculiare valutazione richiesta, la documentazione penitenziaria attestante l’attività di osservazione e gli esiti della stessa, il programma di trattamento compiutamente elaborato e la sintesi esauriente circa la condotta del detenuto, la sua partecipazione all’opera di rieducazione e l’eventuale elisione della sua pericolosità sociale;

– il Tribunale di Sorveglianza non può fondare la propria valutazione sulla particolare gravità dei reati commessi, sulle ammissioni tardive e sofferte da parte del condannato e sull’apparente assenza di turbamento del medesimo nel rammentare le sue azioni, trascurando il percorso rieducativo e sulla efficacia dello stesso;

– il Tribunale non può ignorare i pareri favorevoli alla concessione del beneficio da parte del direttore dell’istituto di pena e dell’equipe di osservazione;

– nell’ambito del procedimento valutativo, assume particolare rilievo la relazione di sintesi redatta ad opera del gruppo di osservazione e trattamento sulla base dei risultati dell’attività di osservazione scientifica della personalità del detenuto: la composizione del predetto gruppo, la vicinanza — differente in conseguenza dei differenti ruoli dei componenti — al detenuto medesimo nelle sue attività quotidiane, l’esito dei colloqui con lo stesso, la visione della sua quotidianità nella restrizione, la valutazione della sua condotta e del rispetto tanto delle figure istituzionali quanto delle regole di civile convivenza comunitaria rappresentano elementi indefettibili ai fini di un giudizio – formulato grazie a specifiche competenze di natura scientifica e professionale – circa la revisione critica che il condannato compie del suo passato deviante e circa la capacità del medesimo di mettere in discussione le scelte antisociali e la sua adesione a modelli errati di comportamento o a valori di subcultura che stridono con le regole sociali comunemente accettate;

– nella valutazione della pericolosità sociale occorre poi tenere conto delle «motivazioni degli omicidi posti in essere dal ricorrente, per come esse emergono dalla sentenza di condanna: e ciò ai fini di una compiuta e complessiva valutazione della richiesta del ricorrente.

Parimenti, il riferimento fatto alla necessità di un pentimento nel condannato è fuorviante e sembra sottolineare una abiezione morale più che una pericolosità sociale intesa come elevato rischio di recidivanza, considerato che tale pericolo non viene rapportato alla natura del beneficio richiesto ed all’effettiva esistenza di un pericolo connesso con la fruizione dello stesso».

4. Il provvedimento del giudice di rinvio presenta tutti i vizi motivazionali che sono stati rilevati sia dal ricorrente sia dal Procuratore generale, nella sua requisitoria scritta.

4.1. Il primo e più grave vizio concerne il mancato rispetto della sentenza rescindente.

È vero che, nel caso di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di rinvio mantiene piena autonomia di giudizio nella ricostruzione del fatto e nella valutazione delle prove.

Va rammentato, però, che il giudice di rinvio ha l’obbligo di colmare i vuoti motivazionali e le incongruenze rilevate e gli è fatto divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di cassazione (cfr. tra le altre Sez. 2, n. 27116 del 22/05/2014, Grande Aracri, Rv. 259811).

Nella specie la prima sezione penale della Corte di cassazione ha tracciato significativi binari rispetto ai quali il Tribunale di sorveglianza è rimasto del tutto indifferente; il giudice di rinvio non solo non ha emendato i vizi motivazionali rilevati dalla sentenza rescindente, ma li ha aggravati, rendendo ancora più assertivo il provvedimento e addirittura andando a ripescare argomenti del provvedimento annullato (cfr. terza pagina), già giudicati erronei dalla Corte di cassazione.

In particolare il giudice di rinvio, inosservante del mandato ricevuto:

– ha emesso un provvedimento che ancora una volta, risulta schiacciato sulla gravità del fatto di omicidio (peraltro apprezzato in maniera astratta) senza considerare il percorso del detenuto;

– non ha tenuto in alcun conto i pareri favorevoli espressi dal direttore dell’Istituto di Pena e dall’equipe di osservazione;

– non si è rapportato alla ratio dell’istituto;

– ha omesso di valutare le motivazioni degli omicidi commessi dal condannato;

– ha persistito nella pretesa di esigere un pentimento.

4.2. L’ordinanza impugnata giunge a conclusioni del tutto disancorate rispetto ai dati valutativi che menziona nella parte iniziale ma che poi svaluta per arroccarsi su un rigetto non sorretto da alcuna reale motivazione.

Detta ordinanza non compie alcun apprezzamento della situazione concreta:

– addirittura indica erroneamente la data di nascita: il detenuto non è un cinquantenne (nato il 9 dicembre 1969, come indicato nella premessa del provvedimento), ma un uomo di 75 anni (nato il 18 ottobre 1945);

– fa erroneo riferimento a quattro omicidi (cfr. seconda pagina del provvedimento) invece di tre, indice di una valutazione quantomeno affrettata;

– menziona ma non dà alcun rilievo alle condizioni in cui i delitti sono maturati: l’omicidio (commesso attraverso la somministrazione di una combinazione di farmaci) ha riguardato tre pazienti oncologici di un ospedale ove il condannato, all’epoca, prestava servizio come infermiere;

– prescinde da una valutazione dei presupposti di attualità e concretezza della pericolosità sociale: il ricorrente è un uomo anziano in precarie condizioni di salute, detenuto da 27 anni per fatti commessi negli anni 1990 – 1993, valutato positivamente da tutti gli organi preposti.

In poche parole, con un’ottica opposta a quella che dovrebbe guidare il giudice di sorveglianza, il Tribunale continua a guardare al fatto commesso quasi trenta anni fa, piuttosto che all’uomo che ora si trova al suo cospetto.

4.3. Infine il provvedimento adottato dal giudice di rinvio, così come quello annullato dalla sentenza rescindente, si pone in contrasto con le peculiarità del permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen., finalizzato alla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, la concessione del quale è ispirato a principi costituzionali e sovranazionali (cfr. sopra paragrafo 2), che, pur ampiamente esposti nella sentenza rescindente (cfr. paragrafo 1 del “considerato in diritto”), sono stati disattesi.

5. Consegue un nuovo annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Roma che dovrà attenersi al dictum della presente sentenza, senza eluderlo.

P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Roma.

Così deciso il 17 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.