REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21161/2014 proposto da:
ASL (OMISSIS), in persona del Direttore Generale Dott. CO.GI., elettivamente domiciliata in ROMA, V.DELLA CROCE 44, presso lo studio dell’avvocato ERNESTO GRANDINETTI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
F.A., C.P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TACITO 10, presso lo studio dell’avvocato ENRICO DANTE, rappresentati e difesi dall’avvocato SERGIO ROMANELLI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
e contro
MILANO ASSICURAZIONI SPA, B.G.;
– intimati –
Nonchè da:
B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA E Q VISCONTI 103, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO DELLAGO, rappresentato e difeso dagli avvocati FEDERICO PARDINI, ROBERTO GIROMINI giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– ricorrente incidentale –
contro
MILANO ASSICURAZIONI SPA, F.A., C.P., ASL (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 430/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 28/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2017 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale; assorbito il ricorso incidentale condizionato;
udito l’Avvocato ERNESTO GRANDINETTI;
udito l’Avvocato ERICA DUMONTEL per delega.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 28/3/2014 la Corte d’Appello di Genova, in accoglimento del gravame interposto dai sigg. C.P. e F.A. (quali esercenti la potestà sul figlio minore F.S.- e in conseguente riforma della sentenza Trib. La Spezia 6/9/2008, accertata la formazione della cosa giudicata in ordine alla domanda proposta (in ragione di dedotte “omissioni diagnostico-terapeutiche” comportanti l’erronea datazione della gravidanza della medesima e il non essersi “accorto di un ritardo di accrescimento del feto”) nei confronti del sig. B.G., ginecologo di fiducia della C., ha accolto la domanda proposta nei confronti della A.S.L. (OMISSIS) di risarcimento dei danni dal suindicato minore F.S. subiti in conseguenza di patologia neurologica sofferta a cagione di “omissioni diagnostico-terapeutiche” dei “medici dell’Ospedale (OMISSIS) che assistettero al parto cesareo della C. “, non essendosi i medesimi “accorti tempestivamente che era in atto un distacco di placenta, che aveva provocato la sofferenza fetale alla base della cerebropatia del neonato”.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la A.S.L. (OMISSIS) propone ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi.
Resistono con controricorso i sigg. C. e F., nella qualità, che hanno presentato anche memoria, e, con separato controricorso, il B., che spiega altresì ricorso incidentale condizionato sulla base di unico motivo, illustrato da memoria.
L’altra intimata non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 motivo la ricorrente denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2964 e 2969 c.c., e “dei principi che regolano l’istituto della decadenza”, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che – con “motivazione… errata e illegittima” – la corte di merito abbia ritenuto tardive le contestazioni alla CTU mosse in sede di comparsa conclusionale, a tale stregua “pronunciando d’ufficio una decadenza invero inesistente”.
Lamenta che “ai sensi dell’art. 2969 c.c., la decadenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice”, e che, “ritenendo maturata la… illegittima decadenza”, la corte di merito ha completamente omesso di motivare sulla questione relativa ai difetti della consulenza sottoposta al suo esame dalla ricorrente”.
Con il 2 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1218, 1228, 2043 e 2230 c.c., art. 195 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “omessa ed errata motivazione” su fatto decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia “omesso l’esame delle contestazioni alla CTU”, e in particolare – come segnalato dal CTP Dott. V.A. nelle note critiche riportate nel verbale di udienza del 20.03.2013″- la necessità dell'”indispensabile esecuzione di un esame neuro radiografico”, che “avrebbe aiutato a determinare la causa del difetto fisico del piccolo S.”.
Lamenta che le conclusioni della CTU non sono pertanto attendibili, e che erroneamente non è stata accolta la richiesta di “rinnovo della CTU”, essendo rimasta in particolare non accertata la “questione di centrale rilevanza” costituita dalla “ignota condizione primitiva che aveva generato la malattia che aveva colpito il minore”.
Si duole non essersi in ogni caso tenuto conto degli “addebiti svolti a carico” del B., per essersi formato il giudicato in ordine alla pronunzia di primo grado che ne ha escluso la responsabilità, in quanto “ove le responsabilità del Dott. B. si fossero in qualche modo riverberate su quella della ASL, di queste in ogni caso e pur non potendo autonomamente pronunciare la Corte avrebbe dovuto tenere conto”, in particolare ai fini “della prevedibilità del danno in concreto e non in astratto”, nonchè “del fatto che non esisteva alcun segnale di gravidanza a rischio, che imponesse allerte particolari o più tempestive”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Osservato che essi sono inammissibili là dove prospettano un vizio della motivazione al di là dei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione ratione temporis applicabile, va posto in rilievo che, diversamente da quanto sostenuto dall’odierna ricorrente nei propri scritti difensivi, le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicchè sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2, dovendo a pena di decadenza dedursi nella prima istanza o difesa successiva al deposito della medesima (v. Cass., 3/8/2017, n. 19427; Cass., 25/2/2014, n. 4448. E già Cass., Sez. Un., 11/11/1991, n. 12008).
In replica al minoritario orientamento secondo cui nella comparsa conclusionale la parte può formulare nuove ragioni di dissenso e di contestazione avverso le valutazioni e le conclusioni del C.T.U., trattandosi di nuovi argomenti su fatti già acquisiti alla causa, che non ampliano l’ambito oggettivo della controversia (v. Cass. 22/6/2006, n. 14457; Cass., 10/3/2000, n. 2809; Cass., 21/5/1977, n. 1666), si è da questa Corte recentemente precisato che, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., i rilievi delle parti alla consulenza tecnica di ufficio costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, che ben possono essere svolte nella comparsa conclusionale, sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi od estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purchè il breve termine a disposizione per la memoria di replica, comparato con il tema delle osservazioni, non si traduca in un’effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa, spettando al giudice (alla stregua di una valutazione da effettuarsi caso per caso) sindacare la lealtà e correttezza di una siffatta condotta della parte alla stregua della serietà dei motivi che l’abbiano determinata (v. Cass., 26/7/2016, n. 15418).
Orbene, atteso che, come indicato nell’impugnata sentenza, nel giudizio di 1 grado sono stati espletati una “C.T.U. medico legale diretta ad accertare la sussistenza o meno di profili di colpa medica in capo ai convenuti” e relativi “supplementi di C.T.U.”, e successivamente in sede di gravame è stato disposto “il rinnovo della C.T.U. nominando il Prof. Fa.Fa.”, con rigetto della successiva “richiesta di chiamata a chiarimenti del C.T.U. Prof. Fa. avanzata dalla difesa del dr. B.G.”, la corte di merito ha nella specie invero esaminato le censure mosse dall’odierna ricorrente a quest’ultima C.T.U., ritenendole infondate.
Da un canto, quanto alla doglianza relativa al non essere “stata eseguita sul periziando una risonanza magnetica dell’encefalo che avrebbe aiutato a determinare la causa prima della patologia da cui S. è affetto”, essa ha osservato che “anche senza l’ausilio della risonanza magnetica il C.T.U. è stato comunque in grado di valutare che l’operato dei sanitari ha avuto un ruolo determinante nell’insorgenza della gravissima patologia da cui S. è affetto, che non sarebbe comunque insorta in forma così grave senza la negligente condotta dei sanitari”.
Per altro verso, quanto alla dedotta “contraddittorietà della C.T.U. laddove afferma che vi sia stata una correlazione tra ritardo nella crescita fetale e l’ipossia cronica che avrebbe contribuito a determinare i problemi neurologici di S.”, nonché relativamente all’ulteriore asserita contraddizione della C.T.U. lamentata perchè “tra le cause dell’ipossia vi sarebbe stata l’assenza di segni clinici evidenti che potessero far sospettare un distacco della placenta, mentre subito dopo il C.T.U. afferma che la diagnosi di distacco di placenta… è poco rilevante ai fini della salute di S.”, la corte di merito ha posto in rilievo che:
- a) “la relazione del C.T.U. prof. Fa. è stata depositata in data 5/10/2012”;
- b) la “prima udienza successiva si è tenuta il 10/10/2012 ed in tale sede le parti hanno chiesto un rinvio per esame della C.T.U.”;
- c) alla “successiva udienza del 21/11/2012 la difesa dell’appellata A.S.L. (OMISSIS) ha depositato una nota nella quale contestava l’operato del C.T.U. per non avere eseguito un esame neuroradiografico sul minore S. Fa.”.
Tale giudice ha altresì osservato che “le doglianze prospettate in sede di comparsa conclusionale non sono invece relative a tale profilo e la parte è quindi decaduta dal prospettarle, non avendolo fatto nella prima udienza successiva al deposito della C.T.U.”.
Orbene, atteso che in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, l’odierna ricorrente non riporta invero nel ricorso le “questioni accennate… nel verbale di udienza”, sicchè la censura risulta inammissibilmente formulata, va sottolineato come dal tenore dell’impugnata sentenza si evinca in realtà che la corte di merito ha ritenuto le doglianze in tale sede dedotte come introducenti in giudizio questioni altre e diverse da quelle già costituenti oggetto di giudizio, e pertanto nuove.
Del principio in base al quale le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicchè sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2, dovendo a pena di decadenza dedursi nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito (v. Cass., 3/8/2017, n. 19427; Cass., 25/2/2014, n. 4448. E già Cass., Sez. Un., 11/11/1991, n. 12008), inteso anche alla stregua della sopra riportata precisazione offerta da Cass., 26/7/2016, n. 15418, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.
Con il 3 motivo la ricorrente denunzia “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2059 c.c., e “dei principi e norme che regolano la quantificazione del danno non patrimoniale”, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonché “errata motivazione” su fatto decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente quantificato il danno a suo carico, in quanto “dopo avere affermato… che l’ipossia fetale e l’insulto ipossico cronico, che la Corte aveva ritenuto imputabili ai sanitari e per essi alla A.S.L., avevano solo “aggravato il danno”, già esistente per la “ignota condizione primitiva” del minore, nella misura del 50%, ha, poi, liquidato il danno per l’intero e non nella misura attribuita ai sanitari”.
Lamenta che “il danno è stato liquidato, al netto della personalizzazione, nella misura del 100% del danno biologico, previsto dalle tabelle di Milano e, quindi, senza alcuna decurtazione per renderlo compatibile con la quota di responsabilità effettivamente ascritta dalla Corte (seppure erroneamente) ai sanitari del nosocomio convenuto”.
Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito indicati.
Va anzitutto osservato, quanto alla responsabilità della A.S.L. odierna ricorrente, che la struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente: per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui essa si avvale (cfr. Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/5/2006, n. 12362).
Si è al riguardo precisato che la responsabilità contrattuale della casa di cura non rimane esclusa in ragione dell’insussistenza di un rapporto contrattuale che leghi il medico alla struttura sanitaria, in tale ipotesi operando il principio dell’appropriazione o dell’avvalimento dell’opera del terzo di cui all’art. 1228 c.c. (v. Cass., 27/8/2014, n. 18304).
Va pertanto ribadito che in base alla regola di cui all’art. 1228 c.c. (come quella di cui all’art. 2049 c.c.) il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvalga dell’opera di terzi risponde dunque anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (v. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 4/3/2004, n. 4400; Cass., 8/1/1999, n. 103), ancorché non siano alle sue dipendenze (v. Cass., 11/12/2012, n. 22619; Cass., 21/2/1998, n. 1883; Cass., 20/4/1989, n. 1855).
La responsabilità per fatto dell’ausiliario (e del preposto) prescinde infatti dalla sussistenza di un contratto di lavoro subordinato, irrilevante essendo la natura del rapporto tra i medesimi intercorrente ai fini considerati, fondamentale rilievo viceversa assumendo la circostanza che dell’opera del terzo il debitore comunque si sia avvalso nell’attuazione della propria obbligazione, ponendo la medesima a disposizione del creditore (v., da ultimo, con riferimento a diversa fattispecie, Cass., 6/6/2014, n. 12833; Cass., 26/5/2011, n. 11590), sicché la stessa risulti a tale stregua inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio.
La responsabilità che dall’esplicazione dell’attività di tale terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale riposa infatti sul principio cuius commoda eius et incommoda, o, più precisamente, come detto, dell’appropriazione o “avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino.
Nè, al fine di considerare interrotto il rapporto in base al quale il debitore è chiamato a rispondere, vale distinguere tra comportamento colposo e comportamento doloso del soggetto agente (che della responsabilità del primo costituisce il presupposto), essendo al riguardo sufficiente (in base a principio che trova applicazione sia nella responsabilità contrattuale chè in quella extracontrattuale) la mera occasionalità necessaria (v. Cass., 17/5/2001, n. 6756; Cass., 15/2/2000, n. 1682).
La struttura sanitaria risponde allora direttamente di tutte le ingerenze dannose che al dipendente o al terzo preposto (medico), della cui opera comunque si è avvalso, sono state rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore/danneggiato, e cioè dei danni che ha potuto arrecare in ragione di quel particolare contatto cui è risultato esposto nei suoi confronti il creditore (nel caso, il feto/neonato).
La struttura sanitaria è infatti direttamente responsabile allorquando l’evento dannoso risulti come nella specie da ascriversi alla condotta colposa posta in essere (quand’anche a sua insaputa: cfr. Cass., 17/5/2001, n. 6756) – dal medico (cfr. Cass., 27/8/2014, n. 18304), della cui attività essa si è comunque avvalsa per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale.
Va per altro verso posto in rilievo che nell’impugnata sentenza viene dato in effetti atto come dalla C.T.U. disposta ed espletata in sede di gravame sia emerso “che “vi è stata carenza diagnostica rispetto alla evoluzione della gravidanza della C.: in particolare, le ecografie seriate effettuate dal dr. B. non hanno mai refertato la circonferenza addominale, parametro di facile misura e considerato standard per porre prima il sospetto e poi formulare diagnosi di difetto di accrescimento fetale”; carenza che “ha impedito di diagnosticare tempestivamente quel ritardo di accrescimento che si è poi dimostrato alla nascita”.
Si è posto d’altro canto in rilievo che “tale carenza” riguarda appunto “il dr. B.G. la cui posizione non può più essere esaminata in questa sede essendo passato in giudicato il capo della sentenza che lo riguarda”.
Quanto ai “sanitari che hanno assistito, presso l’ospedale della Spezia, al parto della C.”, è rimasto accertato che “vi è stata carenza diagnostica da parte dell’equipe ospedaliera”, la quale “di fronte alla incontrovertibile evidenza di sofferenza fetale acuta non ha posto in essere il tempestivo intervento di taglisareo che avrebbe certamente ridotto il tempo di esposizione all’ipossia di cui ha sofferto S.”, optando “per un approfondimento diagnostico che oltre a rivelarsi erroneo (in quanto ha sbagliato la stima del peso, pertanto non diagnosticando il ritardo di crescita), ha contribuito a dilazionare l’unico intervento plausibile, e cioè l’immediata nascita di S.”.
La corte di merito ha al riguardo affermato che “con ottima probabilità di logica e di conoscenza… la leucomalacia periventricolare (danno alla sostanza bianca) presente nel cervello di S., semmai originata da ignota condizione primitiva, è stata certamente aggravata a) dall’ipossia fetale acuta immediatamente precedente la nascita oltreché b) dall’insulto ipossico cronico, di cui il ritardo di accrescimento è indiscutibile testimonianza… nella misura di almeno il 50% le condizioni cliniche di S. che oggi presenta una totale incapacità lavorativa e di autogestione”.
A fronte di tale premesse argomentative, essa è quindi pervenuta a liquidare a carico dell’odierna ricorrente un ammontare costituente il 100% del danno nella specie conseguentemente subito dal minore.
Orbene, siffatta decisione è erronea.
Va al riguardo osservato che, stante il giudicato formato in ordine alla condotta dell’odierno controricorrente dr. B., la “leucomalacia periventricolare (danno alla sostanza bianca) presente nel cervello di S…. originata da ignota condizione primitiva”, ravvisata “sussistere anteriormente al parto”, viene nel caso in rilievo quale antecedente causa naturale non imputabile, priva di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa dei sanitari che hanno assistito al parto della C., dotata di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata.
Situazione patologica “certamente aggravata a) dall’ipossia fetale acuta immediatamente precedente la nascita oltreché b) dall’insulto ipossico cronico, di cui il ritardo di accrescimento è indiscutibile testimonianza… nella misura di almeno il 50% le condizioni cliniche di S. che oggi presenta una totale incapacità lavorativa e di autogestione”.
A tale stregua, la condotta colposa dei sanitari che hanno assistito al parto è stata dalla corte di merito ritenuta avere dunque assunto concorrente incidenza causale con il pregresso stato patologico del minore.
Trattasi di antecedente naturale ai medesimi non imputabile, di riconosciuta concorrente – seppure autonoma – incidenza causale nella verificazione dell’evento dannoso, nella stimata misura del 50%.
Orbene, questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo che allorquando un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato venga individuato quale antecedente privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, non può ad esso attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra tale condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui quest’ultima si inserisce.
Ad esso può assegnarsi rilevanza unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, e conseguentemente pervenirsi -sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – alla delimitazione del quantum del risarcimento dovuto dal responsabile (v. Cass., 29/2/2016, n. 3893).
In altri termini, ribadita la validità del principio causale puro (c.d. all or nothing), non essendo ammissibile la comparazione tra causa umana imputabile e causa naturale non imputabile ma solo tra comportamenti umani colposi (v. Cass., 21/7/2011, n. 15991, e conformemente Cass., 6/5/2015, n. 8995), deve nel caso ribadirsi che la valutazione equitativa attiene propriamente non già all’accertamento del fatto costitutivo del danno risarcibile, cui (unitamente alla condotta e all’evento) il nesso di causalità appartiene, bensì alla (logicamente successiva) determinazione dell’ammontare (art. 1226 c.c.) del danno conseguenza risarcibile.
Unicamente all’esito dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità – sulla base del criterio del “più probabile che non” – tra condotta (dolosa o) colposa e danno evento lesivo, la considerazione del pregresso stato patologico del creditore/danneggiato può invero valere a condurre ad una limitazione dell’ammontare dovuto dal debitore/danneggiante, in occasione del diverso e successivo momento della delimitazione dell’ambito del danno risarcibile e della determinazione del quantum di risarcimento.
Atteso che la relazione materiale designante il derivare di un evento da una condotta (dolosa o) colposa deve correttamente qualificarsi come nesso di causalità (non già meramente materiale bensì) giuridica quantomeno in ragione dell’essere essa rilevante per il diritto (v. Cass., 29/2/2016, n. 3893. Cfr. altresì quanto al riguardo sostanzialmente adombrato da Cass., 21/7/2011, n. 15991), il (successivo) diverso ed autonomo momento della determinazione del risarcimento dovuto attiene in realtà propriamente non già al piano della c.d. causalità equitativo – proporzionale (“apportioment of liability”) bensì a quello dei criteri di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile, come risulta confermato (anche) dall’interpretazione che riceve l’art. 1223 c.c.
Tale norma (richiamata dall’art. 2056 c.c.) viene infatti ormai da tempo – in accordo con la dottrina – dalla giurisprudenza di legittimità intesa come da riferirsi non solo alle conseguenze dal danno evento derivanti in via immediata e diretta, ma anche quelle mediate ed indirette (v. Cass., 19/1/1999, n. 475; Cass., 9/5/2000, n. 5913; Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., Sez. Un., 1/7/2002, n. 9556; Cass., 19/8/2003, n. 12124; Cass., 4/7/2006, n. 15274. E già Cass., 6/5/1966, n. 1173; nonché, da ultimo, Cass., 22/10/2013, n. 23915), facendosi in particolare ricorso al criterio della regolarità causale e considerando risarcibili i danni rientranti nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto (v. Cass., 20/10/2014, n. 22225; Cass., 12/2/2014, n. 3207; Cass., 24/4/2012, n. 6474; Cass., 16/6/2011, n. 13179; Cass., 23/12/2010, n. 26042; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 31/5/2003, n. 8828; Cass., 1/12/1998, n. 12195; Cass., 11/11/1986, n. 6607. E già Cass., 9/4/1963, n. 910), nell’avvertita necessità di non lasciare priva di ristoro l’ipotesi in cui l’evento lesivo sia conseguenza necessitata del fatto lesivo quand’anche statisticamente anomalo, sicchè il criterio della prevedibilità va distinto da quello della normalità delle conseguenze (v. Cass., 29/2/2016, n. 3893).
Come questa Corte ha già avuto occasione di porre in rilievo, la norma di cui all’art. 1223 c.c., non pone in realtà una regola in tema di nesso di causalità ma si risolve nell’indicazione di un mero criterio (da utilizzarsi unitamente a quelli posti agli artt. 1225, 1226, 1227 e 2056 c.c.) di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile (cfr. già Cass., 15/10/1999, n. 11629) causalmente ascritto alla (“cagionato” dalla) condotta qualificata dalla colpa (o dal dolo) del soggetto responsabile, non essendovi necessariamente coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile (v. Cass., 29/2/2016, n. 3893, ove si pone in rilievo come la stessa richiamata Cass., 21/7/2011, n. 15991 faccia a tale significato in realtà sostanzialmente riferimento laddove evoca la “selezione del pregiudizi risarcibili”).
Si tratta allora di delineare i criteri valevoli a delimitare la giuridica rilevanza delle conseguenze dannose eziologicamente derivanti dal danno evento costituenti integrazione del rischio specifico posto in essere dalla condotta (dolosa o) colposa del debitore/danneggiante, che a tale stregua solo a carico del medesimo, e non anche sul creditore/danneggiato, debbono conseguentemente gravare.
Orbene, in presenza di danni conseguenza (aggravamento/morte) costituenti effetto a) delle eccezionali condizioni personali del danneggiato (es., emofilia, cardiopatia, rara allergia) ovvero b) del fatto successivo del terzo, e in particolare del medico (cura errata, errato intervento medico), non può invero pervenirsi a ridurre o escludere anche il relativo risarcimento in favore della vittima.
Il danneggiato rimane infatti agli stessi specificamente esposto in conseguenza dell’antecedente causale determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante (come posto in rilievo anche da autorevole dottrina, che lo indica quale “danno diretto”), quest’ultimo dovendo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio (cfr. Cass., 21/7/2011, n. 15991).
Diversa ipotesi si ha, viceversa, allorquando come nella specie si sia in presenza di uno stato patologico pregresso del paziente/danneggiato non legato all’altrui condotta colposa da un nesso di interdipendenza causale.
Ove sia possibile pervenire ad attribuire a tale antecedente una concorrente – seppure autonoma – incidenza causale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica del paziente/danneggiato, trattandosi di ipotesi di concorso di più cause efficienti nella determinazione del danno (cfr. Cass., 3/3/2010, n. 7618; Cass., 9/11/2006, n. 23918, e, da ultimo, Cass., 9/4/2014, n. 8372. Cfr. altresì Cass., 11/5/2012, n. 7404), l’automatica riduzione dell’ammontare risarcitorio dovuto alla vittima/danneggiato in proporzione del corrispondente grado percentuale di incidenza causale non può invero ritenersi ammissibile.
La relativa valutazione sul piano del nesso di causalità è infatti volta solo ad accertare la valenza assorbente dell’una rispetto all’altra (cfr. Cass., 21/7/2011, n. 15991).
Anzichè sul piano dell’accertamento in via equitativa della frazione di nesso di causalità (c.d. criterio equitativo proporzionale del nesso di causalità), lo stato patologico pregresso può – come detto – in tale ipotesi assumere allora se del caso rilievo, in ossequio al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., 11/11/2008, n. 26972) in base al quale il danneggiante risponde di tutto il danno ma solo del danno cagionato, solo sul diverso (e successivo) piano della delimitazione dell’ambito del danno risarcibile e di determinazione dell’ammontare del quantum risarcitorio dovuto mediante valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.
Spetta al giudice del merito individuare, dandone congrua motivazione, l’idoneo criterio di valutazione equitativa del danno da utilizzare nel caso concreto.
Va al riguardo peraltro considerato che, essendo volta a determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa” (cfr. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402), la valutazione equitativa (subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile non meramente eventuale o ipotetico ma certo (cfr., da ultimo, Cass., 8/7/2014, n. 15478. E già Cass., 19/6/1962, n. 1536), e alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà (v. Cass., 24/5/2010, n. 12613. E già Cass., 6/10/1972, n. 2904) di prova nel suo preciso ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già all’individuazione del danno (non potendo valere a surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio imposto all’art. 2697 c.c.: v. Cass., 11/5/2010, n. 11368; Cass., 6/5/2010, n. 10957; Cass., 10/12/2009, n. 25820; e, da ultimo, Cass., 4/11/2014, n. 23425) va effettuata con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, e in particolare dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione.
Il danno non può essere quindi liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all’effettiva natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass., 11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congruo, dovendo pertanto tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740), sicché è necessario tenere conto a fini risarcitori, in quanto sussistenti e provati, di tutti gli aspetti (o voci) di cui si compendiano sia la categoria generale del danno patrimoniale (v. Cass., 14/7/2015, n. 14645) che la categoria generale del danno non patrimoniale (v. Cass., 12/6/2015, n. 12211).
E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative si siano per il creditore/danneggiato verificate, provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972), con indicazione dei criteri assunti a base del procedimento valutativo (cfr., da ultimo, Cass., 14/7/2015, n. 14645).
Ne consegue che in presenza di una liquidazione di ammontare non congruo, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione adottato si palesa per ciò stesso inidoneo a consentire di pervenire ad una valutazione informata ad equità, fondando i dubbi in ordine alla sua legittimità.
Vale d’altro canto sottolineare che, in base al criterio posto all’art. 1227 c.c., (dettato in tema di concorso colposo del danneggiato ma da ritenersi di portata generale, e pertanto utilizzabile anche in caso di concorso tra una pluralità di danneggianti autori di condotte autonome ed indipendenti) la diminuzione del risarcimento può avvenire in base alla gravità della colpa e all’entità delle conseguenze.
A tale stregua, trattandosi nella specie di (eccezionale) ipotesi di pregresso stato patologico (rectius, “condizione genetica”) non ascrivibile a condotta umana imputabile, priva di incidenza causale sulla (successiva e autonoma) condotta colposa dei sanitari che hanno assistito al parto, quest’ultima ritenuta concausa determinante di un più grave stato d’invalidità, alla riduzione dell’ammontare risarcitorio, in considerazione della peculiarità della fattispecie, può invero pervenirsi non già in base all’automatica riduzione in termini corrispondenti alla ravvisata percentuale incidenza causale della condotta o del fatto, bensì sul piano della equitativa valutazione del danno ex art. 1226 c.c. (cfr. Cass., 21/7/2011, n. 15991).
Diversamente da quanto anche da questa Corte in passato sostenuto (per l’affermazione che l’autore della causa umana imputabile è tenuto al risarcimento dell’intero danno da essa scaturente come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, anche in caso di concorso di fattori causali naturali non imputabili allorquando questi ultimi non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, v. in particolare Cass., 9/4/2003, n. 5539), va allora ribadito che di tale causa naturale non imputabile deve tenersi conto (solo) in sede di liquidazione del quantum risarcitorio mediante la relativa valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.
Dell’impugnata sentenza, rigettati alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto il 1 e il 2 motivo e logicamente assorbito il ricorso incidentale condizionato (con il quale il B. “insiste nella domanda di manleva per garanzia impropria nei confronti della Milano Ass.ni, non giudicata in entrambi i due gradi di giudizio di merito in quanto risultata assorbita dal rigetto della domanda principale”), s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Genova, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo del suindicato disatteso principio applicazione.
Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie p.q.r. il 3 motivo del ricorso principale, rigettati gli altri ed assorbito l’incidentale condizionato. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Genova, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2018.