Lega Nord: per Umberto Bossi arriva la prescrizione. Sì alla confisca dei 49 milioni (Corte di Cassazione, Sezione Feriale, Sentenza 5 novembre 2019, n. 44878).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente –

Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta M. – Consigliere –

Dott. MESSINI D’AGOSTINO Piero – Rel. Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

BOSSI UMBERTO nato il xx/xx/xxxx a (OMISSIS);

ALDOVISI STEFANO nato il xx/xx/xxxx a (OMISSIS);

SANAVIO DIEGO nato il xx/xx/xxxx a (OMISSIS);

TURCI ANTONIO nato il xx/xx/xxxx a (OMISSIS);

BELSITO FRANCESCO nato il xx/xx/xxxx a (OMISSIS);

e dal PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI GENOVA;

nei confronti di:

ALDOVISI STEFANO

SANAVIO DIEGO

TURCI ANTONIO;

con le parti civili:

SENATO DELLA REPUBBLICA CAMERA DEI DEPUTATI;

avverso la sentenza del 26/11/2018 della CORTE DI APPELLO DI GENOVA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

– udita la relazione svolta dal Consigliere Piero MESSINI D’AGOSTINI;

– udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Marco DALL’OLIO, che ha così concluso: annullamento con rinvio, quanto al secondo motivo di ricorso del Procuratore generale, in relazione ai capi c) e c -bis); inammissibilità del primo motivo di ricorso del Procuratore generale per carenza di interesse; inammissibilità dei ricorsi degli imputati; applicazione nei confronti di Belsito della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque;

udito il difensore delle parti civili avv. Giancarlo CASELLI, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi delle parti private;

uditi i difensori degli imputati avv. Domenico MARIANI per Bossi, avv. Stefano Emanuel GOLDSTEIN, anche in sostituzione dell’avv. Nerio Giuseppe DIODA’, per Aldovisi, avv. Alberto TALAMONE per Sanavio, avv. Luca TROYER per Turci, avv. Angelo Alessandro SAMMARCO per Belsito, che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi e – quest’ultimo – per la declaratoria di improcedibilità ex art. 129 cod. proc. pen., in relazione al capo d), data la rinuncia tacita alla querela.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 24/7/2017 il Tribunale di Genova condannava Umberto BOSSI, Francesco BELSITO, Stefano ALDOVISI, Diego SANAVIO e Antonio TURCI per i reati, loro rispettivamente ascritti ai capi a), b), c) e c -bis) dell’imputazione, di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis cod. pen.), consumata e tentata, aggravati dall’aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità;

condannava Francesco BELSITO anche per il delitto di appropriazione indebita, aggravata dalle circostanze di cui all’art. 61, primo comma nn. 7 e 11, cod. pen., ascrittogli al capo d), nonché Stefano BONET e Paolo SCALA per il reato di riciclaggio contestato al capo e) dell’imputazione.

Gli imputati BOSSI, BELSITO, ALDOVISI, SANAVIO e TURCI venivano condannati in solido al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, da liquidare in separato giudizio (per il danno patrimoniale nei limiti dell’ammontare non coperto dalla confisca) nonché al pagamento di una provvisionale, quantificata avuto riguardo al solo danno non patrimoniale.

Il Tribunale, ai sensi dell’art. 640 quater cod. pen., ordinava altresì la confisca del profitto dei reati di truffa aggravata, pari a 48.969.617 euro, nei confronti della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania.

In particolare, i reati dei quali i ricorrenti venivano ritenuti colpevoli erano stati contestati nei seguenti capi d’imputazione.

BOSSI Umberto, ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego, TURCI Antonio:

a) del delitto previsto dagli artt. 110, 640 bis, 61 n. 7 c.p. perché in concorso tra di loro e con BALOCCHI Maurizio (tesoriere del partito politico LEGA NORD, deceduto), Umberto BOSSI nella qualità di legale rappresentante di tale partito (definito dallo Statuto dell’associazione “Segretario Federale”), nonché Stefano ALDOVISI, Diego SANAVIO e Antonio TURCI in qualità di componenti il Comitato di Controllo contabile di secondo livello del partito politico LEGA NORD, con artifici e raggiri, ed in particolare attraverso la redazione e presentazione di irregolare rendiconto riguardante l’esercizio annuale 2008 corredato da relazione sulla situazione economico patrimoniale e sull’andamento della gestione da redigersi ai sensi dell’art. 8 Legge nr. 2/1997, rendiconto pubblicato su almeno due quotidiani dei quali almeno uno a diffusione nazionale, traendo in inganno i revisori pubblici nominati dai presidenti di Camera e Senato deputati al controllo di regolarità di tale rendiconto e traendo in inganno gli stessi Presidenti di Camera e Senato che nell’agosto del 2010 disponevano la liquidazione dei rimborsi, ottenevano in favore del partito politico LEGA NORD il rimborso elettorale pari a euro 22.473.206 previsto dalla Legge nr. 157/99, la cui liquidazione è subordinata dall’art. 1 comma 8 della stessa legge all’accertamento della regolarità del rendiconto;

artifici e raggiri consistiti nel riportare nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico (in relazione alle quali si è proceduto separatamente a carico di BELSITO Francesco, BOSSI Umberto, BOSSI Renzo e BOSSI Riccardo per il reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 646, 61 nr. 7 e 11 c.p.), in modo tale da non consentire né ai soggetti ingannati né a qualsiasi altro lettore del documento contabile di valutare l’effettiva destinazione delle risorse finanziarie assegnate al partito politico dallo Stato.

Reato commesso da Umberto BOSSI e BALOCCHI attraverso la sottoscrizione e presentazione del rendiconto avvenuta il 28.7.2009, con la consapevolezza della sua irregolarità, e dai componenti il comitato di secondo livello Stefano ALDOVISI, Diego SANAVIO e Antonio TURCI con la falsa attestazione della regolarità del rendiconto stesso certificata il 27.6.2008, nonostante gli stessi componenti avessero di fatto volontariamente omesso ogni attività di revisione o controllo. Con l’aggravante di aver cagionato alla persona offesa un danno di rilevante gravità. In Genova nell’agosto del 2010.

BOSSI Umberto, BELSITO Francesco, ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego, TURCI Antonio:

b) del delitto previsto dagli artt. 110, 640 bis, 61 n. 7 c.p. perché in concorso tra di loro, Umberto BOSSI nella propria qualità di legale rappresentante del partito politico LEGA NORD (definito dallo Statuto dell’associazione “Segretario Federale”), BELSITO nella qualità di tesoriere di tale partito (definito dallo statuto “Segretario Amministrativo Federale”), nonché Stefano ALDOVISI Diego SANAVIO e Antonio TORCI in qualità di componenti il Comitato di Controllo contabile di secondo livello del partito politico LEGA NORD, con artifici e raggiri, ed in particolare attraverso la redazione e presentazione di irregolare rendiconto riguardante l’esercizio annuale 2009 corredato da relazione sulla situazione economico patrimoniale e sull’andamento della gestione da redigersi ai sensi dell’art. 8 Legge nr. 2/1997, rendiconto pubblicato su almeno due quotidiani dei quali almeno uno a diffusione nazionale, traendo in inganno i revisori pubblici nominati dai presidenti di Camera e Senato deputati al controllo di regolarità di tale rendiconto e traendo in inganno gli stessi Presidenti di Camera e Senato che nell’agosto del 2011 disponevano la liquidazione dei rimborsi, ottenevano in favore del partito politico LEGA NORD il rimborso elettorale pari a euro 17.613.520 previsto dalla Legge nr. 157/99, la cui liquidazione è subordinata dall’art. 1 comma 8 della stessa legge all’accertamento della regolarità del rendiconto;

artifici e raggiri consistiti nel riportare nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico (in relazione alle quali si è proceduto separatamente a carico di BELSITO Francesco, BOSSI Umberto, BOSSI Renzo e BOSSI Riccardo per il reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 646, 61 nr. 7 e 11 c.p.), in modo tale da non consentire né ai soggetti ingannati né a qualsiasi altro lettore del documento contabile di valutare l’effettiva destinazione delle risorse finanziarie assegnate al partito politico dallo Stato.

Reato commesso da Umberto BOSSI e Francesco BELSITO attraverso la sottoscrizione del rendiconto avvenuta il 25.6.10 e la sua presentazione in data immediatamente successiva, con la consapevolezza della sua irregolarità, e dai componenti il comitato di secondo livello ALDOVISI, Diego SANAVIO e Antonio TURCI con la falsa attestazione della regolarità del rendiconto stesso certificata il 24.6.10, nonostante gli stessi componenti avessero di fatto volontariamente omesso ogni attività di revisione o controllo.

Con l’aggravante di aver cagionato alla persona offesa un danno di rilevante gravità. – In Genova nelle date dell’i e 8 agosto 2011.

BOSSI Umberto, BELSITO Francesco, ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego, TURCI Antonio:

c) del delitto previsto dagli artt. 110, 56, 640 bis, 61 n. 7 c.p. perché, in concorso tra di loro, ciascuno nelle qualità indicate al capo che precede, compivano atti idonei, diretti in modo non equivoco – con artifici e raggiri, attraverso la redazione e presentazione di irregolare rendiconto riguardante l’esercizio annuale del 2010, corredato da relazione sulla situazione economico patrimoniale e sull’andamento della gestione da redigersi ai sensi dell’art. 8 Legge nr. 2/1997, rendiconto pubblicato su almeno due quotidiani dei quali almeno uno a diffusione nazionale – a trarre in inganno i revisori pubblici nominati dai presidenti di Camera e Senato, deputati al controllo di regolarità di tale rendiconto, ed i Presidenti di Camera e Senato, al fine di ottenere il rimborso elettorale, per l’anno 2012 non inferiore a 17 milioni di euro, previsto dalla Legge nr. 157/99, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà degli incolpati, in quanto i revisori pubblici dichiaravano l’irregolarità del rendiconto ed il Presidente della Camera dei Deputati di concerto con il Presidente del Senato disponeva in data 25.7.2012 la sospensione dell’erogazione di ogni rimborso elettorale in favore della Lega Nord, fino alla regolarizzazione ad oggi non avvenuta;

artifici e raggiri consistiti nel riportare nel rendiconto false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute, in assenza di documenti giustificativi di spesa ed in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico (in relazione alle quali si è proceduto separatamente a carico di BELSITO Francesco, BOSSI Umberto, BOSSI Renzo e BOSSI Riccardo per il reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 646, 61 nr. 7 e 11 c.p.), in modo tale da non consentire ai lettori del documento contabile, destinato alla pubblicazione nelle forme sopra indicate, di valutare l’effettiva destinazione delle risorse finanziarie assegnate al partito politico dallo Stato.

Reato commesso da Umberto BOSSI e Francesco BELSITO attraverso la sottoscrizione e presentazione in data 27.7.11 del rendiconto, con la consapevolezza della sua irregolarità, e da Stefano ALDOVISI, Diego SANAVIO e Antonio TURCI con la falsa attestazione della regolarità del rendiconto stesso datata 24.6.2011, riconfermata in data 11.6.2012 nella lettera inviata al Collegio dei Revisori dei Bilanci dei Partiti o Movimenti Politici, nonostante gli stessi componenti avessero di fatto volontariamente omesso ogni revisione o controllo.

Con l’aggravante di aver cagionato alla persona offesa un danno di rilevante gravità. In Milano, 111.6.2012.

SANAVIO Diego e TURCI Antonio:

c-bis) del delitto previsto dagli artt. 110, 640 bis, 61 n. 7 c.p. perché in concorso tra di loro, nella qualità di componenti del Comitato di Controllo contabile di Secondo livello del partito politico Lega Nord, dopo aver concorso alla commissione del reato contestato sub C), mediante artifici e raggiri consistiti nel redigere in data 16.10.12 – ad evasione della richiesta di integrazione della loro certificazione del rendiconto di esercizio 2010 della Lega Nord, formulata dal Collegio dei Revisori delle Camere in data 22.5.12 – un’attestazione in cui certificavano rispetto a tale rendiconto d’esercizio

“1) di aver verificato a campione la regolare tenuta della contabilità sociale e l’attendibilità delle scritture contabili;

2) che il bilancio di esercizio in esame corrisponde alle risultanze delle scritture contabili ed è conforme alle norme che lo disciplinano;

3) che le spese effettivamente sostenute, e indicate in bilancio, verificate a campione, risultano conformi alla documentazione prodotta a prova delle stesse”, nella consapevolezza che tale rendiconto d’esercizio era irregolare ed avendo di fatto volontariamente omesso ogni attività di revisione o controllo su di esso, traevano in inganno il Collegio dei Revisori delle Camere (deputato al controllo di regolarità dei rendiconti di esercizio dei partiti condizionante l’erogazione dei rimborsi elettorali previsti dalla Legge nr. 157/99), a cui la suddetta attestazione veniva trasmessa dal Segretario Federale della Lega Nord in data 19.10.12 e che sulla base di essa esprimeva in data 25.10.12 il proprio parere di conformità rispetto al rendiconto 2010 della Lega Nord, nonché i Presidenti di Camera e Senato, che di conseguenza disponevano la liquidazione a favore della Lega Nord dei rimborsi elettorali da erogarsi nel 2012, così ottenendo in favore di tale partito politico l’indebita erogazione della somma di 8.882.891 euro. In Roma, 18.11.2012.

BELSITO Francesco:

d) del delitto previsto dagli artt. 646, 61 nr. 7 e 11 c.p. perché, in qualità di tesoriere del partito politico LEGA NORD, avendo la disponibilità del patrimonio finanziario del partito, ancorché per statuto fosse previsto il limite agli atti di disposizione del patrimonio da parte del tesoriere alla soglia di 150.000 euro, al fine di procurarsi un ingiusto profitto si impossessava della somma complessiva di 5,7 milioni di euro con le seguenti modalità: – effettuando in data 28.12.2011 un bonifico dell’importo di 1.200.000 euro, tratto dal conto corrente della Lega Nord n. 1208 presso Banca Aletti ag. di Genova in favore della società inglese Krispa Enterprices Ltd., della quale Paolo SCALA era titolare effettivo, presso la banca di Cipro (Bank of Cyprus); somma della quale una parte, pari a E 850.000, veniva restituita nel febbraio 2012; – effettuando in data 30.12.2011 altro bonifico dell’importo di 4.500.000 euro tratto dal conto corrente della LEGA NORD n. 1400 presso Banca Aletti ag. di Genova in favore di un conto corrente intestato a Stefano BONET presso la FBME Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto nel febbraio del 2012.

Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera e di aver cagionato alla parte offesa LEGA NORD un danno patrimoniale di rilevante gravità. In Genova, il 30.12.2011.

2. Con sentenza del 26/11/2018 la Corte di appello di Genova, in parziale riforma della decisione di primo grado, previa separazione delle posizioni di Bonet e Scala, così provvedeva:

“DICHIARA NON DOVERSI PROCEDERE nei confronti di BOSSI Umberto in relazione al reato sub a) perché estinto per prescrizione.

RIDUCE la pena nei confronti di BOSSI Umberto ad anni uno e mesi dieci di reclusione ed C 700 di multa.

RIDUCE la pena nei confronti di BELSITO Francesco ad anni tre e mesi nove di reclusione.

ELIMINA nei confronti di BELSITO Francesco la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Diversamente qualificato, nei confronti di ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego e TURCI Antonio, il fatto di cui al capo c) dell’11.6.2012 nel reato di cui agli artt. 110, 56, 316 ter, 61 n. 7 CP e nei confronti dei soli SANAVIO e TURCI il fatto di cui al capo c bis) nel reato di cui agli artt. 110, 316 ter, 61 n. 7 CP, fermo per i predetti imputati l’assorbimento del capo c) nel capo c bis), riconosciuta agli imputati SANAVIO e TURCI la prevalenza delle già concesse attenuanti generiche sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p.

RIDUCE la pena nei confronti di ALDOVISI Stefano a mesi quattro di reclusione e nei confronti di SANAVIO Diego e TURCI Antonio a mesi otto di reclusione.

CONCEDE agli imputati SANAVIO e TURCI i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione e all’imputato ALDOVISI anche il beneficio della non menzione.

ASSOLVE per non aver commesso il fatto ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego e TURCI Antonio dai reati di cui ai capi a) e b) nonché al capo c) limitatamente al fatto del 27.7.2011.

Visti gli artt. 640 quater, 316 ter, 322 ter c.p.

CONFERMA la confisca diretta nei confronti di LEGA NORD PER L’INDIPENDENZA DELLA PADANIA del profitto dei reati di cui ai capi a), b) e c bis) pari a complessivi C 48.969.617 disponendo che la confisca abbia ad oggetto anche somme di denaro che sono state depositate o che verranno depositate su conti correnti e depositi bancari intestati o comunque riferibili al predetto movimento politico successivamente alla data di notifica ed esecuzione del decreto di sequestro preventivo emesso dal Tribunale di Genova in data 4.9.2017;

Visti gli artt. 322 ter e 640 quater c.p.

DISPONE nei confronti di BOSSI Umberto e BELSITO Francesco la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità in loro disponibilità per il valore equivalente al profitto del reato di cui al capo b) pari a C 17.613.520.

Visto l’art. 323 c.p.p.

DICHIARA nei confronti di ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego, TURCI Antonio la perdita di efficacia del decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente emesso dal Tribunale di Genova in data 30.11.2017 e dispone l’immediato dissequestro e restituzione agli aventi diritto del denaro e di tutti gli altri beni in sequestro.

CONFERMA

nei confronti di tutti gli imputati la condanna generica al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, riservando la liquidazione al separato giudizio civile specificando, quanto al danno patrimoniale, che per ciascun imputato – fermo il limite dell’ammontare per il quale non verrà eseguita la confisca – il risarcimento del danno non potrà comunque superare quello derivante dal reato rispettivamente ascritto, in particolare: -nei confronti di BOSSI Umberto C 22.473.206 per il capo a) -nei confronti di BOSSI Umberto e BELSITO Francesco, in solido, C 17.613.520 per il capo b) -nei confronti di TURCI e SANAVIO, in solido, C 8.882.891 per il capo c bis) RIDUCE la somma dovuta a titolo di provvisionale per il danno non patrimoniale, nei confronti di: – BOSSI Umberto a C 115.000,00 in favore della Camera dei Deputati e C 40.00,00 in favore del Senato della Repubblica per il reato sub a) – BOSSI Umberto e BELSITO Francesco, in solido, a C 97.000,00 in favore della Camera dei Deputati e C 25.000,00 in favore del Senato della Repubblica – ALDOVISI Stefano, SANAVIO Diego e TURCI Antonio, in solido, a C 35.000,00 in favore della Camera dei Deputati e C 9000,00 in favore del Senato della Repubblica

CONFERMA nel resto”.

3. Gli addebiti mossi agli imputati Bossi, Belsito, Aldovisi, Sanavio e Turci attengono all’erogazione dei cosiddetti rimborsi elettorali liquidati in favore del partito politico Lega Nord per l’Indipendenza della Padania (di seguito Lega Nord), rispettivamente nell’agosto 2010 (capo a), agosto 2011 (capo b) e novembre 2012 (capo c -bis) ed ai tentativi di ottenere il versamento del contributo compiuti nel luglio 2011 e giugno 2012 (capo c).

Nella prospettazione accusatoria, i pagamenti erano avvenuti in conseguenza degli artifici e raggiri messi in atto dagli imputati Bossi e Belsito attraverso la redazione e presentazione di rendiconti irregolari relativi agli esercizi 2008, 2009 e 2010, accompagnati da false attestazioni dei componenti del Comitato di controllo di secondo livello della Lega Nord, che avevano tratto in errore i revisori pubblici nominati dai Presidenti di Camera e Senato, al cui giudizio di regolarità del rendiconto era subordinata la liquidazione del finanziamento, nonché gli stessi Presidenti delle due Camere, i quali avevano disposto l’erogazione al suddetto partito politico di rimborsi non dovuti, in danno dello Stato.

Secondo l’accusa, la falsità dei rendiconti, redatti e presentati da Bossi e Belsito nella consapevolezza della loro non veridicità, era stata funzionale a dissimulare una gestione irregolare e a coprire le appropriazioni indebite di ingenti somme di denaro di pertinenza del partito da parte di Umberto Bossi (all’epoca dei fatti segretario federale e legale rappresentante della Lega Nord), del figlio Riccardo e di Francesco Belsito (allora tesoriere del partito); detta falsità era stata realizzata attraverso modalità tali da non consentire né ai soggetti ingannati né a qualsiasi altro lettore del documento di valutare l’effettiva destinazione delle risorse finanziarie assegnate dallo Stato al partito politico.

Il concorso nella truffa aggravata da parte di Aldovisi, Sanavio e Turci (cosiddetti revisori del partito), componenti del Comitato di controllo di secondo livello (organo diverso da quello del Collegio federale dei revisori dei conti, previsto dallo Statuto), era consistito nel redigere la falsa attestazione di regolarità del rendiconto, certificata nella relazione trasmessa al Parlamento, nonostante essi avessero volontariamente omesso ogni attività di revisione o controllo.

A Francesco Belsito, al capo d) dell’imputazione, era contestata anche l’appropriazione indebita della somma di 5,7 milioni di euro, prelevata da due conti correnti della Lega Nord, della quale egli aveva la disponibilità come tesoriere del partito, versata con due bonifici su conti accesi in Cipro ed in Tanzania, intestati a Stefano Bonet e Paolo Scala, originariamente coimputati nel medesimo processo per il riciclaggio della somma oggetto dell’appropriazione indebita, condannati in sede di appello, previa separazione della loro posizione, – con sentenza emessa ex art. 599 bis cod. proc. pen., divenuta irrevocabile.

4. I giudici di merito osservavano che la normativa in tema di rimborsi applicabile ratione temporis era quella prevista dalla legge 3 giugno 1999, n. 157, che qualificava il finanziamento pubblico dei partiti, determinato sulla base dei voti conseguiti e non dei costi affrontati, come “rimborso in relazione alle spese elettorali sostenute per le campagne per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, del Parlamento Europeo e dei consigli regionali”.

L’erogazione non aveva luogo in unica soluzione, ma con cadenza annuale; essa riguardava le tranche di finanziamento scadenti nell’anno del pagamento, che potevano riferirsi anche ad elezioni di diversi anni prima, dato che il rimborso era ripartito nei cinque anni successivi rispetto alla competizione elettorale di riferimento (il 40% veniva versato l’anno dopo l’approvazione del rendiconto ed il 15% in ciascuno degli anni seguenti).

Ad esempio, la presentazione del bilancio relativo all’anno di esercizio 2008, trasmesso al Presidente della Camera dei Deputati il 28/7/2009, consentì il pagamento effettuato nell’anno 2010, inerente a varie competizioni elettorali passate (quelle del 2005, 2006, 2008 e 2009), oltre che a quelle regionali del 2010 (prima rata).

La redazione di un rendiconto annuale era prevista dall’art. 8 della legge 2 gennaio 1997, n. 2, richiamato dalla legge n. 157 del 1999; l’atto veniva trasmesso, entro il 31 luglio di ogni anno, al Presidente della Camera dei Deputati, corredato della relazione sulla gestione, della nota integrativa, della relazione dei revisori dei conti nonché delle copie dei quotidiani ove era avvenuta la pubblicazione.

L’erogazione del rimborso era subordinata al “riscontro della regolarità della redazione del rendiconto, della relazione e della nota integrativa, sulla base del controllo di conformità alla legge compiuto da un collegio di revisori” (Collegio dei revisori dei rendiconti dei partiti politici presso il Parlamento, composto da cinque membri, d’ora in poi revisori pubblici o parlamentari).

L’art. 1, comma 8, della legge n. 157 del 1999 prevedeva che, in caso di inottemperanza agli obblighi di cui all’articolo 8 della legge n. 2 del 1997, o di irregolare redazione del rendiconto, il Presidente della Camera dei Deputati e il Presidente del Senato della Repubblica, per i fondi di rispettiva competenza, sospendessero l’erogazione del rimborso fino all’avvenuta regolarizzazione.

5. Hanno proposto ricorso per cassazione Umberto BOSSI, Francesco BELSITO, Stefano ALDOVISI, Diego SANAVIO, Antonio TURCI nonché il Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova nei confronti di ALDOVISI, SANAVI e TURCI.

I motivi di ricorso verranno esposti, preceduti da una breve sintesi delle motivazioni della sentenza impugnata, seguendo un criterio tematico.

6. Incompetenza territoriale per i reati di truffa aggravata.

La questione è stata esaminata dalla Corte di appello con l’ordinanza depositata il 15/6/2018, richiamata nella sentenza impugnata (pag. 70) e, per ampi stralci, nel ricorso presentato da BOSSI, l’unico nel quale il tema è stato riproposto (motivo 1, pagg. 6-33).

La sentenza impugnata, che ha rigettato – come già il Tribunale – l’eccezione di incompetenza territoriale, viene censurata per violazione di legge, in quanto, sotto vari profili e per diverse ragioni, anche alternative, l’autorità giudiziaria competente sarebbe quella romana.

6.1. Sotto un primo aspetto, in appello si era dedotto che, ai fini della individuazione del luogo nel quale si era consumato il più grave reato di truffa sub a), occorreva considerare quello ove era stata posta in essere l’ultima azione finalizzata ad ottenere l’erogazione delle tranche relative al rimborso per l’annualità 2008, vale a dire Roma, luogo di presentazione del rendiconto agli uffici competenti della Presidenza della Camera e del Senato.

La Corte territoriale, disattendendo il motivo di gravame, ha ritenuto di condividere l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di truffa, fondato sulla rilevanza “dell’ultimo elemento essenziale della componente oggettiva del reato (quello del profitto ingiusto conseguito dal soggetto attivo) necessario al suo perfezionamento”.

Nel ricorso si ribadisce la fondatezza della tesi respinta dai giudici di merito: pur dando atto del prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la truffa si consuma quando si realizza l’ingiusto profitto patrimoniale con contestuale danno per la persona offesa, la difesa richiama ancora una pronuncia della Suprema Corte (Sez. 2, n. 6864/2015), che ha affermato il principio sostenuto dal ricorrente, fondato sulla esigenza di non giungere all’irragionevole risultato di spostare sine die la data di consumazione del reato e di non far dipendere la decorrenza del termine di prescrizione dalla condotta della persona offesa.

6.2. Sotto un diverso profilo, la Corte di appello ha richiamato la distinzione, all’interno di fattispecie caratterizzate da frode strumentale al conseguimento di erogazioni pubbliche il cui versamento viene rateizzato, fra truffa a consumazione prolungata (sussistente quando tutti i pagamenti siano comunque riconducibili ad un originario ed unico comportamento fraudolento) e pluralità di truffe (laddove per il conseguimento di erogazioni successive alla prima sia necessario reiterare la condotta fraudolenta).

Nel presente giudizio – si legge nella sentenza impugnata – vengono contestati “autonomi reati di truffa aventi ciascuno ad oggetto l’erogazione del finanziamento annuale, frutto della ipotizzata condotta artificiosa ogni anno ripetuta, a nulla rilevando ai fini della qualificazione della truffa che i singoli finanziamenti annuali siano descrittivi dell’erogazione frazionata dei rimborsi”.

Pertanto, la competenza per territorio si radica a Genova, in considerazione del fatto che il primo e più grave reato contestato, relativo all’erogazione dei rimborsi elettorali per l’anno 2010, si è consumato con l’ultimo bonifico accreditato sul conto corrente della Lega Nord presso una banca di Genova.

Con il ricorso si sostiene che, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, alla condotta specifica rappresentata dalla presentazione di rendiconti falsi, con allegata la certificazione dei revisori del partito, consegue il pagamento, l’anno successivo alla presentazione, di una somma determinata, a prescindere dalle consultazioni elettorali di riferimento.

Non sarebbero più pertinenti, allora, “i principi interpretativi espressi con riferimento alla truffa come reato unitario a consumazione prolungata”. Anche spostando il momento consumativo del reato a quello in cui si verificano danno e profitto, “ci troveremmo di fronte ad un reato permanente, laddove la permanenza perdura dal 4 febbraio al 2 agosto 2010”, vale a dire dal primo pagamento, avvenuto a Roma (accreditamento della somma sul conto corrente acceso presso un’agenzia romana del Banco di Napoli), all’ultimo, effettuato a Genova: ai fini della individuazione del giudice competente, occorre considerare il luogo ove inizia la consumazione del reato (art. 8, comma 3, cod. proc. pen.).

6.3. Per altro verso, il ricorrente afferma che ogni singolo pagamento, a prescindere dalla causale unitaria (rimborso elettorale relativo all’esercizio 2008), rappresenta, in sé considerato, momento specifico di un autonomo reato di truffa, essendo configurabile “una pluralità di eventi dannosi e quindi plurimi reati avvinti dal vincolo della continuazione, rispetto ai quali le singole riscossioni costituiscono altrettanti atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso; atti nei quali l’iniziale proposito fraudolento si riproduce attraverso il silenzio sulla illiceità della situazione”.

Pertanto, la competenza sarebbe dell’A.G. romana, perché il reato di truffa di cui al capo a) è stato consumato a Roma, ove è stata riscossa la prima erogazione.

6.4. Sotto un ultimo profilo, la difesa aveva sostenuto che la competenza spettasse all’A.G. romana perché gli ordini di bonifico relativi ai pagamenti delle tranche dei rimborsi elettorali erano partiti da istituti bancari situati a Roma.

La Corte territoriale ha disatteso detta argomentazione, richiamando la giurisprudenza di legittimità secondo la quale la truffa aggravata di cui all’art.640 bis cod. pen. si consuma non già nel luogo in cui viene elargita l’indebita erogazione pubblica, bensì nel tempo e nel luogo in cui il soggetto attivo percepisce compiutamente l’ingiusto profitto ad essa correlato.

Con il ricorso si sostiene che la giurisprudenza richiamata dalla Corte territoriale, relativa ai pagamenti effettuati mediante bonifico, riguarda casi nei quali, ratione temporis, non era ancora applicabile la normativa introdotta dal decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, che all’articolo 17 prevede il principio della irrevocabilità unilaterale del bonifico, cosicché, nel momento in cui l’ordine di bonifico diventa irrevocabile, risultano definitivi sia la deminutio patrimonii per la persona offesa sia la iniusta locupletatio per l’agente.

7. Inutilizzabilità delle intercettazioni per violazione dell’art. 270 cod. proc. pen.

La questione, esaminata nella sentenza impugnata a pagg. 70-71, è stata riproposta nel ricorso di BELSITO (primo motivo, pagg. 2-5).

7.1. La Corte di appello, rilevato che le intercettazioni sono state autorizzate nello stesso filone di indagine, ha affermato che gli esiti sono utilizzabili in relazione ai diversi reati emersi dagli ascolti, ancorché dagli stessi siano originati separati procedimenti.

Sarebbe ravvisabile, infatti, uno “stesso procedimento”, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 270 cod. proc. pen., tutte le volte in cui, in occasione delle intercettazioni svolte, vengano captate conversazioni rilevanti per un’altra ipotesi di reato fino a quel momento sconosciuta agli inquirenti, ciò indipendentemente dalla circostanza che quel delitto sia connesso o meno con i reati per i quali sono state disposte le intercettazioni.

7.2. Il ricorrente sostiene che il contrasto giurisprudenziale circa la nozione di “diverso procedimento” non è rilevante nel caso di specie, perché neppure nell’accezione seguita nella sentenza impugnata si potrebbe superare il divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270 cod. proc. pen., in quanto i reati oggetto del presente processo “appaiono pacificamente privi di effettivo collegamento con la notizia di reato che aveva legittimato le iniziali operazioni di intercettazione e che riguardava ben diverse fattispecie criminose”, circostanza che emerge dalla lettura della sentenza del Tribunale.

La difesa rileva altresì che, con ordinanza n. 11160 del 13/2/2019, è stata rimessa alle Sezioni unite la risoluzione della seguente questione: «se a seguito di autorizzazione allo svolgimento di operazioni di intercettazione per uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., le conversazioni intercettate siano comunque utilizzabili per tutti i reati oggetto del procedimento e se dunque la nozione di “diverso procedimento” di cui all’art. 270 cod. proc. pen. sia applicabile solo nel caso di procedimento ab origine diverso e non anche nel caso di reato basato su notizia di reato emergente dalle stesse operazioni di intercettazione, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con il reato o i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate».

Si chiede pertanto, in via subordinata, che sia valutata l’opportunità di trasmettere alle Sezioni unite anche il presente ricorso.

8. Nullità della richiesta di rinvio a giudizio per omessa notifica dell’avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen. La questione, esaminata nella sentenza impugnata a pagg. 72-73, è riproposta nel ricorso di BELSITO (secondo motivo, pagg. 5-16).

8.1. La Corte di appello ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza secondo il quale, in caso di trasmissione degli atti per competenza ad altra autorità giudiziaria, la rinnovazione della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari è dovuta nel solo caso in cui siano contestati reati diversi o diversamente circostanziati, ipotesi insussistente nel caso di specie, in quanto agli imputati sono stati ascritti gli identici capi d’accusa già oggetto delle richieste di rinvio a giudizio davanti all’autorità giudiziaria milanese.

8.2. Il ricorrente deduce che la giurisprudenza citata nella sentenza impugnata è obsoleta, evidentemente perché in tempi più recenti i pubblici ministeri, nella descritta situazione, provvedono alla rinnovazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, ciò che conta nella dinamica innescata dal predetto avviso “non è il fatto che il P.M. abbia compiuto nuove indagini, ma il fatto che in quel momento la persona sottoposta alle indagini abbia il diritto di difendersi, magari presentando prove a discarico di cui prima non disponeva”.

9. Sopravvenuta depenalizzazione delle condotte qualificate come truffa ex art. 640 bis cod. pen., che integrano solo l’illecito amministrativo previsto dall’art. 9 della legge 6 luglio 2012, n. 96.

La questione, esaminata dalla Corte di appello a pagg. 76-78, è riproposta nel ricorso di BOSSI (motivo 1 bis, pagg. 33-43).

9.1. La sentenza impugnata ha ritenuto infondata la tesi difensiva sulla depenalizzazione in ragione sia del dato testuale-sia della ratio della legge n. 96 del 2012, che indica espressamente come destinatario dell’illecito amministrativo il partito o movimento politico al quale viene applicata una sanzione amministrativa pecuniaria; ben diverse – ha ritenuto la Corte territoriale – “sono le condotte, contestate a persone fisiche, che attengono a falsità del rendiconto e contabili funzionali ad occultare appropriazioni indebite ed altre uscite non giustificate di denaro dalle casse del partito e ad ottenere in modo fraudolento rimborsi elettorali: condotte che continuano a mantenere rilevanza penale e ad ascriversi al paradigma della truffa aggravata”.

9.2. Secondo il ricorrente, il giudice di appello ha travisato le doglianze formulate nei motivi di appello, con le quali si era sostenuto che, per effetto della legge n. 96 del 2012, le condotte contestate hanno “ricevuto una specifica disciplina sanzionatoria in termini di illecito amministrativo”.

Erroneamente nella sentenza impugnata si è ritenuto che l’art. 9, comma 11, della citata legge avrebbe come destinatario solo il partito politico, mentre l’art. 640 bis cod. pen. si applicherebbe alla persona fisica.

Infatti, la Corte di cassazione civile ha in più occasioni escluso la sussistenza di qualsivoglia discrimen tra le norme penali e le norme amministrative, fondato sul destinatario del relativo precetto, affermando che è responsabile di una violazione amministrativa solo la persona fisica alla quale è riferibile l’azione materiale o l’omissione che integra la violazione (art. 3 legge 24 novembre 1981, n. 689).

La persona giuridica, invece, può essere chiamata a rispondere della sanzione amministrativa non come autore dell’illecito, ma solo in via solidale per il pagamento della sanzione, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 6, comma 3, della stessa legge.

Dalla lettura dell’art. 10 della legge n. 96 del 2012 risulta come anche le persone fisiche siano destinatarie di specifiche sanzioni. I fatti contestati, dunque, laddove sussistenti, sono rilevanti solo quali illeciti amministrativi, essendo intervenuta una abolitio criminis, conclusione non inficiata dalla successiva abrogazione dell’art. 9 della stessa legge, per effetto della legge n. 149 del 2013 e successive modificazioni.

10. Insindacabilità delle spese dei partiti politici.

Il tema, esaminato specificamente nella sentenza impugnata a pagg. 88- 90, ma poi ripreso trattando delle questioni di cui al paragrafo seguente, è oggetto dei ricorsi di BOSSI (motivo 2, pagg. 43-53), BELSITO (terzo motivo, pagg. 9-11) e TURCI (secondo motivo, pagg. 24-39, e terzo motivo, pag. 57).

10.1. A giudizio della Corte, nel caso di cui si tratta “non sono in discussione le spese della LEGA NORD, bensì la falsa riconduzione-a spese del partito di uscite di denaro che hanno costituito oggetto di condotte illecite di singoli soggetti, all’insaputa e in danno del partito.

I rendiconti, per loro natura sintesi delle spese del partito, sono stati falsamente redatti, in modo da far apparire come ricomprese nelle voci di spesa del partito somme che con il partito non avevano nulla a che vedere perché oggetto delle indebite appropriazioni da parte del Segretario Federale e del tesoriere e che, in quanto illecite, non potevano essere indicate in modo trasparente”.

Pertanto, non sarebbe pertinente “la questione della insindacabilità delle spese del partito, posto che sono in contestazione artificiose violazioni degli obblighi di trasparenza, riguardanti il complesso delle attività finanziariamente rilevanti del soggetto politico destinatario del finanziamento, che la disciplina ratione temporis applicabile ha stabilito a condizione dell’erogazione dei rimborsi elettorali, prevedendo un controllo di conformità alla legge compiuto dal collegio di revisori pubblici e un avvenuto riscontro di regolarità a cui si associava, in caso di inottemperanza agli obblighi di cui al citato art. 8 L.2/1997 o di irregolare redazione del rendiconto, la sospensione dell’erogazione del rimborso per le spese elettorali fino ad avvenuta regolarizzazione (art. 1 della L. 157/1999)”.

10.2. Nel ricorso di BOSSI si evidenzia la divergenza fra le valutazioni del Tribunale e quelle della Corte di appello in ordine al profilo della insindacabilità delle spese del partito: mentre per i primi giudici detta insindacabilità doveva comunque riguardare le spese del partito stricto sensu intese, individuate sulla base delle norme interne al movimento politico, per i giudici di appello possono essere qualificate come spese del partito anche quelle non espressamente indicate dallo Statuto e autorizzate anche in forma tacita e non formalizzata, dovute a scelte discrezionali.

Ne consegue che, nell’impugnata sentenza, la condotta censurata “non attiene alla destinazione privata delle risorse, ottenute quale finanziamento pubblico ai partiti, quanto, piuttosto, al fatto che di detta destinazione non vi sia stata indicazione trasparente e veritiera nei relativi rendiconti di esercizio”.

Seguendo il ragionamento della Corte territoriale, risulta evidente l’assoluta inidoneità, sotto il profilo causale e finalistico, della condotta ritenuta artificiosa: se gli imputati avessero anche riportato nei rendiconti le spese sostenute nel loro personale ed esclusivo interesse, il partito avrebbe ugualmente ottenuto il nulla osta dei revisori pubblici alla liquidazione dei rimborsi elettorali, comunque dovuti.

La stessa sentenza impugnata ha riconosciuto che le contestate falsificazioni od omissioni contenute nei rendiconti di esercizio erano finalizzate ad occultare al partito le condotte appropriative poste in essere dai suoi rappresentanti politici od amministrativi; pertanto, la condotta potrebbe rilevare solo in termini di appropriazione indebita in danno della Lega Nord (fattispecie per la quale si è separatamente proceduto davanti all’A.G. milanese), o al più di truffa in danno dello stesso partito.

La motivazione della sentenza è illogica e la violazione di legge, con riferimento al paradigma normativo di cui all’art. 640 bis cod. pen., sussiste sotto diversi profili (di cui si dirà nel paragrafo successivo).

10.3. Anche nel ricorso di BELSITO, sulla questione di cui si tratta, si denunciano violazione di legge ed illogicità della motivazione, in quanto, alla luce delle argomentazioni della sentenza impugnata, l’illiceità della condotta del tesoriere non risiederebbe nella destinazione delle spese effettuate, in astratto giustificabili, quanto piuttosto nella scorrettezza contabile che lo stesso avrebbe adottato, impedendo che gli iscritti e gli organi del partito potessero sindacare o comunque controllare l’impiego delle somme; in questo modo, però, il giudice di appello “ha trasformato l’impossibilità di rimprovero ‘oggettivo’ in rimprovero ‘soggettivo’, finendo così per censurare la moralità contabile dell’imputato”.

Anche ammesso che il tesoriere avesse ingannato il proprio partito sulla destinazione di alcune spese, soltanto il partito stesso si sarebbe potuto dolere di una simile ipotetica condotta fraudolenta, tale da integrare un’appropriazione indebita in danno della Lega Nord e giammai la fattispecie criminosa contestata.

Invece, secondo l’interpretazione sostenuta dalla Corte di appello, poiché le appostazioni generiche “spese varie” e “rimborsi forfetari”, contenute nei rendiconti del partito, sarebbero “false”, l’azione commessa nei confronti dei competenti organi di controllo sarebbe quella dell’induzione fraudolenta tipica della truffa ex art. 640 bis cod. pen.; detta interpretazione è viziata “a monte” in quanto, sulla base della normativa all’epoca vigente, non era vietato predisporre tali forme di appostazione.

10.4. Nel ricorso di TURCI, partendo dal dato dell’assenza di ogni onere giustificativo delle spese sostenute, ritenuto incontrovertibile alla luce del disposto dell’art. 8 della legge n. 2 del 1997, si contesta il fondamento del discrimine, posto dalla sentenza impugnata, fra spese insindacabili (quelle “lecite”) e sindacabili (quelle “illecite”), utilizzato quale breccia per ampliare il sindacato giudiziario sulle spese affrontate dal partito, in contrasto anche con la pronuncia delle Sezioni unite civili (ordinanza 12 maggio 2015, n. 10094), emessa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, relativa alla responsabilità del tesoriere del partito La Margherita, Luigi Lusi, per appropriazioni indebite di denaro oggetto di rimborsi elettorali.

Con detta pronuncia si è escluso che la ratio della scelta legislativa di finanziare i partiti politici, attraverso misure che ne consentano l’azione e la presenza sulla scena sociale e politica, si sia tradotta, nella disciplina prevista dalla legge n. 2 del 1997, «nella previsione di un vincolo di destinazione pubblicistica sulle somme corrisposte ai partiti politici a titolo di rimborso delle spese elettorali, né, tanto meno, nella imposizione ai partiti di un programma di interesse della pubblica amministrazione da attuare con quelle risorse pubbliche».

Il legislatore del 1997 scelse di non vincolare i partiti politici in alcun modo nelle proprie spese e di non riconoscere ad alcun altro potere dello Stato il diritto-dovere di sindacare tali spese.

Solo con l’art. 9 della legge n. 96 del 2012 il Parlamento ha ritenuto di imporre una destinazione vincolata dei fondi erogati a titolo di rimborso per spese elettorali, prevedendo un penetrante controllo interno sulla gestione dei fondi e sulla tenuta delle scritture contabili, affidato ad una società di revisione: le innovazioni legislative corroborano la conclusione che, fino al rendiconto 2012, le spese dei partiti erano del tutto insindacabili.

Erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che il richiamo al “caso Lusi” non sia pertinente, trattandosi, invece, di un precedente identico, che però è stato impostato in modo difforme (e più corretto) sin dall’inizio dell’esercizio dell’azione penale, come si evince dalla motivazione della sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma nei confronti di Luigi Lusi.

Anche in quel caso i revisori del partito non avevano valutato la natura e la congruità delle spese e tuttavia non vennero imputati.

Coerentemente, nel solco della pronuncia Lusi, si dovrebbe ritenere inconferente – in quanto integrante un insindacabile contesto che il giudice penale non può vagliare – la circostanza che i reiterati episodi di appropriazione indebita siano avvenuti nell’ambito di rendicontazioni delle spese del partito definite false perché non inerenti.

D’altra parte, appare erroneo ritenere che il contributo erogato ad un partito politico possa rientrare tra le erogazioni pubbliche cui fanno riferimento le norme incriminatrici di cui agli artt. 316 ter e 640 bis cod. pen., considerato il carattere unico e del tutto peculiare di tale contributo, diretto a rafforzare l’assetto di democrazia rappresentativa, a favorire la partecipazione alla vita politica del Paese e a garantire ai partiti – come si legge nella ordinanza Lusi delle Sezioni unite civili – «un grado minimo di indipendenza nei propri processi decisionali rispetto ai soggetti che hanno maggiori disponibilità finanziarie».

La difesa ha chiesto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite della Corte di cassazione; “risultando i temi affrontati certamente di speciale importanza, in quanto concernenti l’insindacabilità delle spese sostenute dai partiti politici”.

11. Idoneità della condotta, induzione in errore, nesso causale fra condotta ed evento, ingiustizia del profitto con altrui danno. Le questioni, esaminate dalla Corte di appello a pagg. 90-100 e 103-105, sono affrontate nei ricorsi di BOSSI (motivi 2 bis e 2 ter, pagg. 54-72), BELSITO (terzo motivo, punto 3, pag. 12, e quarto motivo, pag. 13) e TURCI (primo motivo, pagg. 4-23).

11.1. Secondo la sentenza, il sistema normativo non prevedeva un dovere assoluto di erogazione al partito o movimento politico dei rimborsi elettorali, bensì una liquidazione condizionata al rispetto di obblighi di informazione contabile, secondo modelli prestabiliti, soggetti ad un controllo di conformità alla legge riservato a revisori pubblici, che contemplava la sospensione dell’erogazione, in caso di violazione degli obblighi imposti, fino all’avvenuta regolarizzazione.

Aderendo alle argomentazioni del Tribunale, la Corte ha affermato che la diversa e riduttiva lettura data dalle difese alla funzione dei rendiconti avrebbe svuotato completamente di contenuto tutti gli adempimenti previsti dal legislatore, in contrasto con un sistema che imponeva ai partiti politici il rispetto di una serie di norme anche sostanziali relative alla regolare tenuta della contabilità, a garanzia della veridicità del rendiconto e quindi di una complessiva correttezza gestionale del patrimonio del partito, come requisito necessario per far luogo alla liquidazione del finanziamento pubblico.

Ritenuta provata la falsità dei rendiconti e delle relazioni dei revisori interni del partito, il giudice di appello, disattendendo le censure difensive, ha ritenuto che a causa della suddetta falsità fu viziato l’esito del controllo per l’induzione in errore del Collegio dei revisori pubblici, che determinò l’erogazione alla Lega Nord dei rimborsi elettorali.

A riprova dell’assenza di automatismi, la sentenza ha richiamato la posizione assunta da detto Collegio in occasione dei pagamenti effettuati nell’anno 2012, quando erano divenute di dominio pubblico notizie che mettevano in dubbio la regolarità e la veridicità del rendiconto della Lega Nord relativo all’anno 2010, in valutazione presso l’organo di controllo parlamentare.

Le iniziative assunte dai revisori parlamentari per scongiurare il rischio di erogazioni indebite, con la richiesta ai partiti di una specifica dichiarazione, idonea a rafforzare la valenza della relazione del Collegio dei revisori del partito, confermerebbero “come il controllo esercitato non si limitasse ad una mera presa d’atto dell’invio dei rendiconti e degli obbligatori atti allegati e della loro corrispondenza ai format legali”.

L’effetto della induzione in errore è l’ingiustizia del profitto conseguito attraverso il pagamento degli ingenti rimborsi elettorali non dovuti.

Non è fondato – secondo la Corte – il rilievo dato dalle difese alla erogazione del finanziamento relativamente all’anno di esercizio 2011, anch’esso interessato dalle consistenti appropriazioni indebite di Bossi e Belsito.

Il relativo rendiconto, infatti, considerò le risultanze dell’attività di revisione svolta da una società incaricata dai nuovi vertici del partito e fornì al Parlamento una fotografia corretta della situazione contabile e dei fatti esposti in bilancio, con l’indicazione delle uscite ingiustificate in danno della Lega Nord.

11.2. Nel ricorso di BOSSI si ricorda come dato pacifico, riconosciuto dai giudici di merito, la circostanza per la quale, in forza della normativa vigente all’epoca dei fatti, la correlazione fra finanziamento statale e rimborso delle spese elettorali risultava soltanto formale, poiché il diritto al contributo e la sua misura erano parametrati in proporzione ai voti conseguiti dal partito e non già alle spese effettivamente sostenute; ne consegue che la documentazione corretta delle spese nei relativi rendiconti e negli altri documenti contabili indicati dall’art. 8 della legge n. 2 del 1997 non aveva alcuna incidenza causale sull’an e sul quantum delle somme elargite.

Lo stesso articolo correlava la necessità di redazione del rendiconto di esercizio al dato oggettivo secondo il quale detti contributi erano già stati elargiti, per come emerge dalla locuzione “ha usufruito” di cui al primo comma.

Anche la sanzione della sospensione, introdotta dalla legge n. 157 del 1999, attiene all’eventuale indebito o non trasparente utilizzo del denaro ottenuto quale finanziamento, ma non al riconoscimento del diritto allo stesso.

Il ricorrente ribadisce – come già sostenuto nelle fasi di merito – che manca il nesso di causalità fra la ritenuta condotta di artificio e raggiro, descritta nei capi d’imputazione, e l’evento del reato, individuato nell’ingiusto profitto conseguito dalla Lega Nord, con contestuale danno per le istituzioni pubbliche.

Manca più in radice lo stesso ingiusto profitto, la cui sussistenza è stata invece affermata dai giudici di merito sul presupposto che il finanziamento pubblico, riconosciuto ex lege quale rimborso elettorale, non fosse più dovuto alla Lega Nord in ragione di condotte poste in essere in danno del partito stesso, soggetto giuridico titolare del diritto al finanziamento.

Il profitto non può essere ritenuto ingiusto nel caso di specie, perché – come statuito nella nota sentenza Cellamare delle Sezioni unite – “esso va escluso rispetto ad ogni situazione in cui il vantaggio sia in qualche modo, direttamente o indirettamente, tutelato dall’ordinamento come giuridicamente rilevante”.

La difesa deduce la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata: trattando del profilo inerente alla insindacabilità delle spese, la Corte ha affermato che la condotta censurata non attiene alla destinazione privata delle risorse, ottenute quale finanziamento pubblico ai partiti, quanto al fatto che di detta destinazione non vi sia stata indicazione trasparente e veritiera nei relativi rendiconti di esercizio; invece, nella parte dedicata alla “ingiustizia del profitto”, si è sostenuto che, se i revisori avessero conosciuto le appropriazioni indebite, non avrebbero rilasciato il previsto nulla osta, con la conseguente sospensione delle erogazioni.

Tuttavia, nell’affrontare la vicenda relativa ai rimborsi nell’anno 2011, trattata nel corso dell’istruzione dibattimentale anche se fuori dal perimetro dell’imputazione, la Corte ha affermato che l’erogazione di detti rimborsi avvenne dopo l’invio di un nuovo rendiconto di esercizio, essendosi fondata “a prescindere da quanto poi risultato in ordine alle appropriazioni indebite compiute dagli imputati BOSSI e BELSITO, sulla base di documenti che hanno fornito al Parlamento una informazione veritiera della situazione finanziaria e contabile della LEGA NORD, evidenziando le rilevanti uscite ingiustificate in danno del partito politico”.

Anche questo passo dimostra la contraddittorietà interna della motivazione, tale da inficiarne la stessa struttura logico-argomentativa. Il ricorrente censura la decisione impugnata, sotto il profilo della violazione di legge, in ordine alla individuazione dell’altro evento previsto dall’art. 640 bis cod. pen., vale a dire l’altrui danno.

Leggendo l’iter argomentativo espresso nella sentenza, appare ictu ocull evidente come la Corte abbia ripetutamente richiamato l’assunto secondo il quale le condotte decettive, funzionali a mascherare le asserite appropriazioni indebite, si sarebbero tradotte in un danno per il partito.

Cosa ben diversa è il danno per le istituzioni pubbliche, insussistente in ragione della più volte descritta previsione normativa inerente alla erogazione dei cosiddetti rimborsi elettorali, il cui diritto era maturato precedentemente alla presentazione dei rendiconti ritenuti falsi.

11.3. Nel ricorso di BELSITO si deducono violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla nozione di “verità contabile”: le formule generiche utilizzate nei rendiconti (“spese varie”, “rimborsi forfetari”) da un lato non nascondono il fatto “vero” dell’avvenuta spesa e dall’altro non sono in contrasto con l’effettiva destinazione della spesa stessa.

La Corte territoriale ha confuso il concetto di falsità “formale” con quello di falsità “sostanziale”: solo la prima è vietata nella normativa dei finanziamenti, mentre, ad esempio, nella formula generica “spese varie” ben poteva rientrare anche il contributo al segretario federale ed alla sua famiglia, perché resta comunque presente il criterio dell’inerenza politica, come peraltro riconosciuto in un passo della stessa sentenza impugnata (a pag. 89).

I medesimi vizi vengono denunciati in relazione alla natura fungibile del denaro ed alla mancata considerazione che le spese contestate come illecitamente rimborsate con i contributi pubblici sono state in realtà sostenute con i contributi volontari degli aderenti al partito politico.

E’ pacifico che la Lega Nord avesse una enorme disponibilità finanziaria e che vi fosse una commistione fra le due diverse fonti di finanziamento del partito (pubblica e privata), cosicché, in assenza di un attendibile criterio di imputazione delle spese contestate, è possibile che queste siano state sostenute o comunque rimborsate con i contributi privati.

Ne consegue che il reato contestato non è configurabile o per l’insussistenza del fatto (la condotta di abusivo impiego o di occultamento) o per la mancanza del danno, in quanto le spese ritenute non giustificate sono state compensate grazie alle risorse pervenute dai contributi privati del partito.

Mancherebbe, dunque, l’essenziale requisito del danno, analogamente a quanto affermato dalla giurisprudenza in tema di bancarotta “riparata”, che ritiene insussistente la distrazione punibile quando la stessa sia stata compensata grazie ad una reintegrazione patrimoniale di segno contrario, che abbia così impedito il danno dei creditori.

11.4. Nel ricorso di TURCI si denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen., il vizio di erronea applicazione di norme giuridiche (artt. 8 della legge n. 2 del 1997 e 1 della legge n. 157 del 1999), di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale. La Corte di appello ha fondato il carattere indebito dell’erogazione percepita dal partito politico Lega Nord su di un’erronea interpretazione della normativa concernente i cosiddetti rimborsi elettorali; la natura indebita della elargizione è il presupposto sul quale si è basata la ritenuta responsabilità del ricorrente per il delitto ex art. 316 ter cod. pen., così come riqualificato in sentenza, quanto ai capi c) e c -bis) dell’imputazione.

Anche in questo caso viene in primo luogo richiamato il meccanismo di assegnazione del denaro ai partiti, sulla base delle citate leggi, nella interpretazione fornita dalle Sezioni unite civili con l’ordinanza 12 maggio 2015, n. 10094, in forza del quale era escluso ogni collegamento funzionale fra i dati di bilancio esposti nei rendiconti ed il rimborso percepito.L’intero sistema, vigente al momento dei fatti contestati, era fondato sull’automatismo fra- la presentazione dei – documenti previsti dall’art. 8 della legge n. 2 del 1997 e l’erogazione dei fondi, come confermato dalla circostanza che, ai sensi del comma 14 dello stesso articolo, il Collegio dei revisori parlamentari aveva l’esclusivo compito di verificare la “conformità alla legge” dei documenti presentati dai partiti, senza che ciò importasse anche un controllo di merito sulla destinazione delle uscite iscritte nel rendiconto.

La stessa sentenza impugnata ha precisato che, anche a seguito del riscontro di irregolarità nella redazione del rendiconto, il Collegio non aveva alcuna possibilità di non erogare il denaro ai partiti, potendo solo sospendere il pagamento dei rimborsi fino ad avvenuta regolarizzazione, termine che non può che riferirsi ad irregolarità di natura formale, essendo preclusa ai revisori una valutazione di merito in ordine alla destinazione dei fondi.

La dimostrazione di questa limitazione di poteri è data dalla vicenda relativa alla sospensione della erogazione dei fondi in relazione al rendiconto dell’anno 2010, come esattamente riportata nella sentenza impugnata. Alla luce della ricostruzione operata dalla Corte di appello, vanno valorizzati due elementi.

In primo luogo, la motivazione della relazione del Collegio dei revisori in data 9/7/2012, che innescò il meccanismo di sospensione della erogazione, risulta del tutto peculiare, in quanto sostanzialmente si ricorse ad un escamotage per evitare l’erogazione dei fondi, bypassando il controllo meramente formale ad esso attribuito (“il rendiconto, seppur formalmente conforme agli schemi previsti dalla legge 2/1997, non può essere considerato regolarmente redatto”), facendo riferimento sia a “circostanze di fatto emerse e al vaglio della magistratura inquirente” sia al fatto che il Comitato dei revisori del partito si era limitato a dare una risposta generica alle specifiche richieste.

In secondo luogo, il presidente del Collegio dei revisori pubblici, prof. Di Tanno, nel corso dell’esame dibattimentale, ha confermato come il Collegio si spinse ben oltre i propri poteri per riuscire a non erogare i rimborsi.

La sentenza impugnata è incorsa in un travisamento della prova, idoneo a disarticolare l’intera motivazione, avendo ignorato il contenuto della deposizione del teste nella parte decisiva rispetto al tema in discussione, laddove egli ha affermato che “anche una spesa palesemente estranea agli obiettivi statutari del partito non avrebbe potuto legittimare […] contestazioni e portare a sospendere i contributi” e che, con la richiesta di dichiarazione integrativa del 22/5/2012, i revisori erano consapevoli di travalicare i propri poteri.

Dalle dichiarazioni del testimone e dal parere del prof. Barbetta si evince come la sospensione della erogazione dei rimborsi per ragioni di merito fosse stato all’epoca un atto del tutto illegittimo, avendo superato i limiti del controllo spettante al Collegio dei revisori.

Sostiene il ricorrente che le successive modifiche legislative avvalorano detta conclusione. Infatti, solo con la legge n. 96 del 2012 è stato introdotto un sistema di controlli e sanzioni sull’utilizzo da parte dei partiti delle risorse loro erogate.

Peraltro, anche a seguito della riforma del 2012, i rimborsi erano dovuti sulla base della sola presentazione dei documenti richiesti dalla legge, indipendentemente dalla rispondenza del rendiconto alle scritture contabili; al più, in caso di informazioni false o mancanti era possibile una sanzione amministrativa, che non incideva sulla doverosità dei pagamenti.

Soltanto nel caso di radicale carenza di presentazione era prevista una sanzione amministrativa pari all’intero importo del rimborso.

La sentenza impugnata è pervenuta ad una interpretazione della legge così estensiva da averne sovvertito il significato, ipotizzando l’esistenza di un controllo di primo e di secondo grado (in capo rispettivamente ai revisori del partito ed ai revisori pubblici), a fronte invece di un controllo di tipo formale.

La legge descrive puntualmente il contenuto del rendiconto d’esercizio, della relazione e della nota integrativa; fra i documenti oggetto del “controllo di conformità alla legge” non vi è la relazione dei revisori del partito, che avevano l’esclusivo compito di verificare la regolarità formale dei documenti a firma del tesoriere o del segretario.

La Corte territoriale ha poi sostenuto che i rendiconti della Lega sarebbero stati comunque falsi anche perché la contabilità non era tenuta in modo regolare, circostanza quest’ultima, peraltro contestata nei motivi di appello, che neppure in una società commerciale determina di per sé la falsità di un bilancio.

12. Qualificazione giuridica delle condotte contestate ai capi b) e c) – per Bossi e Belsito – come truffe ex art. 640 bis cod. pen.

La questione, esaminata nella sentenza impugnata a pagg. 100-103 e 105-106, è riproposta nei ricorsi di BOSSI (motivi 3 e 4, pagg. 78-98, e motivo 5, pagg. 98-112) e BELSITO (quinto motivo, pag. 14-16).

12.1. Secondo la Corte territoriale, applicando i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, i fatti vanno correttamente inquadrati come truffe aggravate: il controllo dei revisori pubblici era “finalizzato ad un riscontro di conformità alla legge della informazione contabile trasmessa dal partito politico che poggiava sulla necessaria allegazione della relazione dei revisori dei conti del partito cui era demandato il compito di verificare l’adempimento degli obblighi di tenuta contabile previsti dalla legge per l’erogazione dei rimborsi elettorali.

Riscontro che è rimasto viziato dall’induzione in errore determinata dall’artificiosa condotta sopra descritta in forza della quale il Collegio dei Revisori Parlamentari ha rilasciato il nulla osta e i Presidenti di Camera e Senato hanno disposto la liquidazione, facendo affidamento sulla veridicità dei rendiconti e sull’adempimento delle doverose prescrizioni di tenuta contabile cui la legge subordinava l’erogazione del finanziamento pubblico, attestato nella relazione del Comitato di Controllo di Secondo Livello allegata dalla LEGA NORD a conferma della sussistenza dei requisiti legali per l’erogazione”.

Quanto all’ipotesi di cui al capo c), rientra nel paradigma del tentativo di truffa aggravata la presentazione alle Camere del rendiconto relativo all’anno 2010, sottoscritto da Bossi e Belsito, avvenuto in data 27/7/2011, con modalità analoghe a quelle seguite nei due anni precedenti.

Solo successivamente, grazie ad eventi del tutto esterni, si diffusero le notizie su probabili appropriazioni indebite da parte di organi rappresentativi del partito e sulle gravi irregolarità contabili, “vicende che comportarono dal lato interno della LEGA NORD l’avvicendamento del Segretario Federale e del Segretario Amministrativo, all’esterno, per quanto riguarda l’erogazione dei rimborsi, la presa di posizione dei Revisori pubblici per scongiurare ingiuste liquidazioni mediante le iniziative assunte con i Presidenti delle Camere per richiamare la LEGA NORD ad una assunzione di responsabilità attraverso una relazione dei revisori dei conti del partito che rispondesse alle specifiche indicazioni richieste dall’organo pubblico di controllo”.

Le intervenute dimissioni, nell’aprile 2012, di Bossi e Belsito segnarono una cesura rispetto alle vicende successive, che coinvolsero i nuovi organi del partito. A fronte di questa ricostruzione, la Corte di appello ha escluso la configurabilità della desistenza in capo a Bossi, considerato che essa presuppone una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa.

12.2. Nel ricorso di BOSSI si denuncia inosservanza della legge penale in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, che al più integrerebbe una malversazione ai danni dello Stato ex art. 316 bis cod. pen., reato omissivo proprio, ravvisando il quale i giudici di merito avrebbero dovuto trasmettere gli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 521, comma 2, del codice di rito.

Seguendo la ricostruzione logico-fattuale della sentenza impugnata, i cosiddetti rimborsi elettorali, qualificabili come finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette allo svolgimento di attività di pubblico interesse, sarebbero stati destinati a fini privati, cosicché l’avere rendicontato falsamente l’utilizzo di dette risorse integra la fattispecie prevista dall’art. 316 bis cod. pen. e non già quella ex art. 640 bis cod. pen.: si tratterebbe di una ipotesi di “malversazione pura”, non concorrente con la truffa aggravata.

Sotto altro profilo, il ricorrente denuncia il medesimo vizio ex art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen. in relazione alla omessa riqualificazione dei fatti contestati in termini di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter cod. pen., sollecitata nei motivi di appello quando si era affrontata la questione della inidoneità dei contestati artifizi e raggiri e sostenuta conseguentemente l’assenza della induzione in errore.

La Corte territoriale, aderendo alle argomentazioni del Tribunale, ha ritenuto che l’induzione in errore dei revisori pubblici sarebbe conseguita alla falsità delle relazioni dei revisori dei conti interni al partito, documenti che rappresenterebbero quel quid pluris dotato di particolare capacità decettiva, tale da essere inquadrato nel paradigma normativo di cui all’art. 640 bis cod. pen.

Tuttavia, la stessa Corte ha riconosciuto che i revisori parlamentari non avevano poteri per effettuare direttamente un controllo sostanziale e di merito, cosicché essi si affidarono alle certificazioni, ideologicamente false, dei revisori del partito, sulla base delle quali soltanto diedero il nulla osta per i pagamenti.

La fattispecie di reato eventualmente applicabile è quella prevista dall’art. 316 ter cod. pen., che punisce – in via sussidiaria e residuale rispetto a quella ex art. 640 bis cod. pen. – tutte le ipotesi in cui le risorse pubbliche, come accaduto nel caso di specie, vengono erogate sulla base della semplice condotta consistente nell’utilizzo o nella presentazione di documenti e dichiarazioni falsi, rispetto ai quali, non essendoci un controllo preventivo di veridicità (ma solo eventualmente successivo), non può configurarsi l’induzione in errore.

Dalla lettura dell’art. 8, comma 14, della legge n. 2 del 1997 emerge come la relazione dei revisori dei conti del partito rappresenti uno dei documenti che devono essere inviati, unitamente al rendiconto di esercizio, senza che alla stessa possa riconoscersi una efficacia probatoria fidefaciente, tale da esercitare una capacità ingannatoria qualificata, rispetto alla restante documentazione.

L’erroneità della qualificazione giuridica si coglie maggiormente alla luce delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata nella parte in cui, quanto alla liquidazione dei rimborsi relativi al rendiconto di esercizio del 2010, ha riqualificato il reato nella fattispecie ex art. 316 ter cod. pen. per i tre componenti del Comitato di controllo.

Ricostruiti i termini del contrasto venutosi a creare fra il maggio e l’ottobre del 2012 fra la Lega Nord e i revisori del Parlamento sull’erogazione dei rimborsi in relazione all’esercizio del 2010, il ricorrente evidenzia che la Corte di appello ha qualificato come dolosamente false le integrazioni della precedente relazione dei revisori dei conti del partito, datate 11/6/2012 e 16/10/2012, ma nel contempo ne ha escluso l’idoneità ad indurre in errore i revisori pubblici, i quali, dunque, rilasciarono il nulla osta al rimborso dopo una presa d’atto della falsità di dette dichiarazioni integrative.

Si tratta di una valutazione che avrebbe imposto la riqualificazione nei medesimi termini anche per il ricorrente, condannato invece per tentata truffa aggravata quanto ai rimborsi conseguenti alla presentazione del rendiconto per l’esercizio 2010.

Anche per i rimborsi degli anni 2008 e 2009 il reato andrebbe riqualificato, dovendosi escludere l’induzione in errore, stante l’assenza di un contraddittorio tra le parti e di un controllo sostanziale da parte del Collegio dei revisori pubblici.

La difesa, infine, rimarca che per questi due anni i revisori interni sono stati assolti, in assenza di dolo da concorso; anche la ingiustificata disparità di trattamento evidenzia la fallacia della motivazione della sentenza. Quanto alla condanna per la tentata truffa aggravata contestata al capo c), il ricorrente denuncia violazione della legge penale (art. 56, terzo comma, cod. pen.) e vizio motivazionale.

Richiamato il motivo proposto sul punto con l’atto di appello, il ricorrente ha ribadito che la condotta di cui al predetto capo d’imputazione, posta in essere nel luglio del 2011, perde di autonoma rilevanza penale alla luce della contestazione di truffa consumata di cui al successivo capo c -bis), atteso che l’erogazione del rimborso è certamente riconducibile all’originario ed unico comportamento fraudolento successivamente integrato dai revisori del partito dopo le dimissioni di Umberto Bossi dalla carica di segretario federale, rassegnate già prima della richiesta di integrazione formulata il 22/5/2012 dal Collegio dei revisori parlamentari.

Questa condotta non può non integrare la causa di non punibilità prevista dall’art. 56, terzo comma, cod. pen., in forza dei principi interpretativi espressi dalla giurisprudenza e dalla dottrina. 12.3. Nel ricorso di BELSITO si denuncia violazione della legge penale in ordine alla omessa riqualificazione dei fatti sub b) e c) nel reato previsto dall’art. 316 ter del codice penale.

La linea di demarcazione fra detto reato e la truffa aggravata non riguarda l’induzione in errore, presente in entrambe le fattispecie, bensì l’esistenza di una condotta fraudolenta, di infingimento e manipolazione della realtà, tale da determinare l’inganno del destinatario: nel caso in esame, l’asserita indebita erogazione dei contributi al partito politico è avvenuta semplicemente dietro la presentazione della documentazione richiesta dalla legge, senza alcun artifizio o raggiro; i rendiconti, peraltro, non erano “falsi” bensì – come detto – solo generici, in quanto indicavano categorie di spese nelle quali potevano rientrare anche quelle personali del leader storico della Lega e della sua famiglia.

13. Danno patrimoniale in favore delle parti civili e provvisionale. La questione, esaminata dalla Corte di appello a pagg. 126-127, è riproposta nei ricorsi di BOSSI (motivo 2 quater, pagg. 72-78) e TURCI (sesto motivo, pagg. 81-86) ed è affrontata nel ricorso di ALDOVISI, in relazione alla provvisionale, sotto un profilo esclusivamente personale, del quale, pertanto, si dirà oltre (paragrafo 17.3.).

13.1. Con la sentenza impugnata è stata confermata nei confronti di tutti gli imputati la condanna generica al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, mentre è stata ridotta, rispetto alla statuizione del Tribunale, l’entità della provvisionale, liquidata in relazione al danno non patrimoniale.

13.2. Nel ricorso presentato nell’interesse di BOSSI si denuncia inosservanza della legge penale in ordine al quantum del danno patrimoniale liquidato in favore delle parti civili ed alla riconosciuta provvisionale relativa al danno non patrimoniale, punto quest’ultimo sul quale il ricorrente deduce anche la mancanza di motivazione. Quanto al primo profilo, rileva la difesa che la sentenza impugnata, richiamando le contestazioni sollevate nel processo milanese, ha indicato specificamente gli importi oggetto delle condotte di appropriazione indebita in danno del partito, poste in essere da Bossi e dai suoi familiari, oltre che da Belsito, negli esercizi annuali ai quali si riferiscono i rendiconti ritenuti falsi: pertanto, a queste somme soltanto doveva essere limitato il danno patrimoniale conseguente al reato.

In ordine alla provvisionale, che può essere riconosciuta nei “limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova”, deduce il ricorrente che la somma liquidata dalla Corte territoriale, per quanto ridimensionata rispetto a quella determinata dal Tribunale, non rientra con certezza nell’ammontare complessivo del danno risarcibile, non avendo le parti civili fornito alcuna prova della sua entità ed essendosi i giudici di merito limitati ad una quantificazione percentuale rispetto al danno patrimoniale.

13.3. Nel ricorso di TURCI si denuncia inosservanza della legge penale e vizio motivazionale in ordine al riconoscimento di un danno risarcibile in capo alle parti civili. Richiamando le argomentazioni svolte nei precedenti motivi, il ricorrente ribadisce che la legge n. 2 del 1997 non prevedeva una sospensione sine die, ma tuttalpiù una sospensione temporanea dell’erogazione per vizi puramente formali, cosicché, anche seguendo il ragionamento della Corte di appello, si sarebbe dovuto limitare l’oggetto del risarcimento alle somme utilizzate per fini privati, oggetto dei fatti di appropriazione indebita, ai quali Turci è del tutto estraneo. Inoltre, l’impianto normativo costruito dalla stessa legge si pone quale elemento interruttivo del rapporto di causalità tra illecito e danno (art. 1223 cod. civ.): il danno lamentato dalle parti civili può “essere causalmente ascritto solamente alla scelta stessa del legislatore di ritenere insindacabili e incontrollabili le spese dei partiti, non invece alla commissione di un illecito”.

14. Comitato di controllo: assoluzione degli imputati Aldovisi, Sanavio e Turci per i reati di cui capi a), b) e c), quanto al fatto del 2011. La questione, esaminata dalla Corte di appello nella sentenza impugnata a pagg. 110-113, è oggetto del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova (primo motivo, pagg. 3-12). Il ricorrente, pur consapevole dell’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità in tema di interesse ad impugnare in presenza di reati per i quali sia intervenuta la causa estintiva della prescrizione, evidenzia la particolarità della fattispecie, osservando che l’assoluzione degli imputati si è fondata su errate motivazioni, “indiscutibilmente connesse con quelle poste alla base della pronuncia di condanna altresì oggetto di ricorso e relativa a condotte criminose della cui esatta qualificazione si discute, per le quali non è decorso il termine di prescrizione, sicché appare sussistente l’interesse ad evitare statuizioni in contrasto insanabile”. I difensori di ALDOVISI e TURCI, con memorie depositate rispettivamente in date 17 e 30 luglio 2019, hanno chiesto che il ricorso venga sul punto dichiarato inammissibile.

15. Comitato di controllo: condanna degli imputati Aldovisi, Sanavio e Turci per il reato ex art. 316 ter cod. pen., così riqualificata la truffa aggravata, tentata e consumata, contestata ai capi c) e c-bis). Il tema, esaminato nella sentenza impugnata a pagg. 113-120, ha formato oggetto del ricorso del Procuratore generale (secondo motivo, pagg. 12-21) e dei ricorsi dei tre imputati ALDOVISI, SANAVIO e TURCI.

15.1. Ricordato l’iter seguito dai revisori pubblici nel rilascio del nulla osta per l’erogazione dei rimborsi relativi al rendiconto di esercizio dell’anno 2010, la Corte territoriale ha ritenuto i suddetti imputati colpevoli del delitto previsto dall’art. 316 ter cod. pen., nella forma tentata per Aldovisi (capo c) ed in quella consumata per Sanavio e Turci (capo c -bis), con assorbimento del reato tentato, così riqualificata l’originaria imputazione di truffa aggravata.L’ipotesi tentata è stata ravvisata nell’invio da parte della Lega Nord della missiva dell’11/6/20-12, sottoscritta dai tre- componenti del Comitato di controllo di secondo livello, nella quale i revisori si limitarono a dichiarare di confermare il contenuto della loro precedente relazione, già allegata al rendiconto relativo all’anno 2010, trasmesso in data 27/7/2011.

Tuttavia, tale risposta non venne ritenuta idonea dai revisori parlamentari, i quali, nel rapporto per l’anno 2010 del 9/7/2012, espressero un giudizio negativo, con conseguente sospensione dell’erogazione dei rimborsi. Con la successiva attestazione, redatta il 16/10/2012 dai soli Sanavio e Turci, fu sbloccata la sospensione ed i rimborsi furono pagati in data 8/11/2012.

A giudizio della Corte, la falsità ideologica della dichiarazione, in presenza dell’accertata falsità del rendiconto e della violazione degli obblighi contabili previsti a carico del partito politico dalla legge n. 2 del 1997, rende indebita l’erogazione dei rimborsi, che in mancanza della falsa dichiarazione non sarebbero stati liquidati per effetto della sospensione già decisa dai Presidenti delle Camere sulla base del giudizio di non regolarità del rendiconto presentato dalla Lega Nord, espresso dal Collegio dei revisori in seguito all’invio della precedente missiva, a firma dei tre revisori del partito, ritenuta priva del requisito attestativo richiesto.

Il nulla osta al pagamento fu determinato dalla sola corretta rappresentazione della esistenza della dichiarazione e mancò, pertanto, l’induzione in errore dei revisori parlamentari, valutazione che ha comportato la riqualificazione del fatto nei termini già indicati. 15.2. Il Procuratore generale deduce sul punto violazione di legge (artt. 640 bis, 316 ter cod. pen. e 8 legge n. 2 del 1997) e vizio motivazionale quanto alla derubricazione delle condotte sub c) e c -bis), invero omogenee a quelle tenute nelle precedenti occasioni, contestate ai capi a) e b), nella minore e residuale fattispecie di cui all’art. 316 ter cod. pen., con una decisione diversa da quella assunta per Bossi e Belsito, coimputati del reato sub c), per i quali è stata confermata la condanna per il reato di tentata truffa aggravata.

Il ricorrente ritiene la decisione della Corte territoriale frutto di un travisamento del fatto e di un errore di diritto attinente alla distinzione fra il reato ex art. 640 bis cod. pen. e quello ex art. 316 ter cod. pen.

Sotto il primo profilo, la richiesta dei revisori parlamentari di trasmissione di ulteriori documenti, inoltrata con la lettera del 22/5/2012 ai revisori di tutti i partiti, era un’attività che ordinariamente rientrava fra quelle prodromiche alla certificazione di regolarità di un bilancio, secondo quanto previsto dall’art. 8 della legge n. 2 del 1997.

La specifica attestazione del 16/10/2012, sottoscritta dai soli Sanavio e Turci, che fece seguito alla mera lettera di conferma dell’11/6/2012 (ritenuta inadeguata dai revisori, sì da determinare il blocco dell’erogazione dei rimborsi), ebbe una rilevante potenzialità decettiva, che indusse i revisori parlamentari a ritenere erroneamente sussistente quella situazione di regolarità contabile che costituiva il presupposto indispensabile per la legittima erogazione dei rimborsi elettorali, esattamente come avvenuto per gli anni precedenti.

Non si comprende come un’attività fraudolenta compendiata in una falsa relazione, così valutata dalla Corte territoriale in relazione ai capi a) e b) della rubrica, che ha indotto in errore i revisori parlamentari, non possa avere avuto la medesima valenza quando ne è stata richiesta una più pregnante specificazione.

Il fatto contestato, dunque, nella sua componente plurisoggettiva, va correttamente inquadrato nella fattispecie di cui all’art. 640 bis cod. pen., in ragione dell’elevato grado di fraudolenza che ha connotato le condotte contestate, con le quali si è creata un’apparenza di affidabilità della contabilità e dei rendiconti tramite le certificazioni dei revisori del partito, ideologicamente false in quanto attestanti l’esecuzione di controlli in realtà mai effettuati.

Con memoria depositata il 30/7/2018, la difesa di Turci ha chiesto che il ricorso del Procuratore generale venga dichiarato inammissibile.

15.3. Nei ricorsi proposti nell’interesse dei tre imputati vengono proposte diverse censure.

15.3.1. Mancanza del dolo nella fattispecie concorsuale dell’art. 316 ter cod. pen., questione proposta nei ricorsi di TURCI (quarto motivo, pagg. 58-75) e SANAVIO (primo e secondo motivo, pagg. 1-16).

Nel ricorso di TURCI si denunciano vizio motivazionale e violazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo di concorso per i fatti di cui ai capi c) e c -bis), esclusa invece per gli altri capi d’imputazione, in quanto è rimasto indinnostrato che i tre componenti del Comitato di controllo “fossero consapevoli di contribuire all’azione artificiosa della irregolarità contabile strumentale alla copertura delle illecite distrazioni e neppure che di tale funzionale rilevanza delle irregolarità essi potessero avere un ragionevole e fondato sospetto sulla base di indici rivelatori specifici ed inequivocabili ai quali colpevolmente avessero accondisceso”.

In ragione delle differenti modalità dell’iter seguito nel 2012 dai revisori pubblici nel rilascio del nulla osta per l’erogazione dei rimborsi, la Corte territoriale ha ritenuto di escludere anche in questo caso il concorso nella truffa aggravata, riconoscendo tuttavia la responsabilità dei revisori per il reato ex art. 316 ter cod. pen., sulla base di un ragionamento affetto da un vizio logico- giuridico: poiché hanno scientemente formato un documento dal contenuto non vero, poi utilizzato da altri per commettere il delitto ex art. 640 bis, essi si sono rappresentati-che le erogazioni ricevute fossero sine iure -e, pur consapevoli di ciò, hanno agito lo stesso.

Tale motivazione è anche palesemente contraddittoria con quanto argomentato in ordine all’assoluzione per i restanti capi d’imputazione. Turci, poi, non era a conoscenza delle indagini avviate dalla Procura di Milano né della valutazione effettuata successivamente dalla società di revisione, come si evince dalle dichiarazioni rese da Sanavio in dibattimento.

La motivazione della Corte è illogica laddove da un lato ritiene credibile la versione di Turci, che ha dichiarato di essere stato rassicurato dal nuovo segretario del partito Maroni, dall’altro esclude che tali rassicurazioni abbiano dissipato il “sentore” di irregolarità del bilancio del 2010.

Sulla base dei principi enunciati nella sentenza Thyssenkrupp e degli indici specificamente richiamati in appello, va esclusa la sussistenza del dolo, anche nella forma eventuale: Turci era completamente estraneo agli avvenimenti interni alla Lega Nord, del quale è stato un sostenitore, avendo poi prestato la propria attività in modo gratuito e senza alcuna aspirazione di carriera politica.

Nel ricorso di SANAVIO si lamentano violazione della legge penale e vizio motivazionale in ordine all’oggetto del dolo nella fattispecie concorsuale del reato di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato.

Nel motivare l’assoluzione dei componenti del Comitato di controllo per i reati sub a) e b), la sentenza ha inteso riconoscere come falsa la loro attestazione unicamente per avere gli stessi dichiarato di avere verificato, sia pure solo a campione, le scritture contabili, la cui irregolarità, neppure agevolmente rilevabile, essi ignoravano.

E’ altresì pacifico che i revisori fossero all’oscuro di distrazioni di somme o di voci non giustificabili.

Alla luce delle argomentazioni svolte per disattendere l’ipotesi accusatoria in relazione ai suddetti reati, non si comprende per quale ragione, pur nella identità dell’atteggiamento soggettivo dei suddetti componenti, si sia ritenuta la loro responsabilità per i fatti di cui al capo c -bis).

Se da una parte – come si è visto – mutò l’iter seguito per la liquidazione dei rimborsi nell’anno 2012, dall’altra la dichiarazione resa da Sanavio e Turci fu sempre la stessa, così come identico è il profilo di falsità rilevabile, ovvero limitato alla sola attestazione di avere svolto controlli che in realtà non erano mai stati effettuati.

Gli stessi vizi vengono denunciati da Sanavio nel secondo motivo di ricorso, con il quale si sostiene che, sulla base dei medesimi dati di fatto richiamati nella sentenza impugnata, l’elemento soggettivo individuabile nel caso di specie, seguendo i criteri indicati dalla sentenza Thyssenkrupp, è quello della colpa cosciente e non del dolo eventuale: Sanavio non ebbe alcuna volontà di determinare una erogazione che fosse indebita e nutriva la speranza, peraltro confortata dalle specifiche rassicurazioni di Maroni, che i bilanci, a prescindere dalla mancanza del loro controllo, fossero in ogni caso corretti e genuini.

15.3.2. Inesigibilità della condotta, questione proposta nel ricorso di SANAVIO (terzo motivo, pagg. 17-20).

Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla mancata valutazione della inesigibilità della condotta quale causa di esclusione della colpevolezza. In appello si era evidenziato come la dichiarazione del 16/10/2012, di sola conferma del proprio operato precedente, fosse stata necessitata; diversamente, se i revisori avessero ammesso di non avere in precedenza svolto alcun controllo, confessando così il precedente falso, si sarebbero autoincriminati.

Sul punto la motivazione della sentenza non ha dato risposta; la dedotta inesigibilità “può trovare aggancio sia nell’art. 54 c.p. sia come esclusione di rimprovero per errore di fatto, indotto dalle rassicurazioni di Maroni, e quindi con applicazione della disciplina dell’autore mediato ex art. 48 c.p.” 15.3.3. Inesistenza della posizione di garanzia, questione proposta nel ricorso di SANAVIO (quarto motivo, pagg. 20-24).

Il ricorrente deduce mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta posizione di garanzia creata in capo al Comitato di controllo di secondo livello dei revisori, la cui attestazione è stata qualificata come autocertificazione, senza verificare se Sanavio, Aldovisi e Turci fossero i revisori, se avessero avuto un incarico formale cui corrispondessero poteri di accertamento, se la loro dichiarazione potesse avere quella particolare valenza fidefaciente tale da escludere ogni controllo da parte dei revisori parlamentari.

15.3.4. Applicabilità dell’art. 27 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, questione proposta nel ricorso di SANAVIO (quinto motivo, pagg. 24-29).

Il ricorrente deduce violazione di legge e contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta inapplicabilità dell’art. 27 del decreto legislativo n. 39 del 2010.

All’articolato motivo di appello la sentenza ha risposto che la norma invocata “attiene alla falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale, non ravvisabile nel caso di specie atteso che la falsa dichiarazione è stata resa al di fuori di una revisione legale, bensì nell’ambito dell’iter di erogazione dei rimborsi elettorali su richiesta dell’organo pubblico di controllo”.

L’affermazione è erronea perché l’intero nucleo della contestazione è centrato sull’attribuzione al Comitato di controllo di una vera e propria attività di revisione, lo svolgimento della quale è di per sé sufficiente ai fini dell’applicabilità della citata disposizione, essendo invece irrilevanb la specie e la qualità delle informazioni rese.

15.3.5. Inidoneità degli atti nella ipotesi tentata di cui al capo c), questione proposta nei ricorsi di TURCI (terzo motivo, punto 1, pagg. 45-46) e ALDOVISI (primo motivo, pagg. 3-12).

Nel ricorso di TURCI si censura la sentenza per vizio motivazionale e violazione della legge penale in ordine alla ritenuta idoneità degli atti compiuti, contestati nel capo c) con riferimento alla risposta data dai componenti del Comitato di controllo di secondo livello in data 11/6/2012, che invero era del tutto generica e priva di una qualsiasi concludenza certificatoria, tanto da essere giudicata a prima vista inconferente dal Collegio dei revisori; l’atto, dunque, non era idoneo a far giungere il delitto a consumazione, considerata l’inefficacia strutturale e strumentale del mezzo usato.

Nel ricorso di ALDOVISI sono dedotti i medesimi vizi sulla base di analoghe e più ampie argomentazioni.

Il Comitato si limitò a confermare il giudizio già espresso nella precedente certificazione, senza aggiungere le integrazioni richieste, ponendo quindi in essere una condotta totalmente inadatta a sbloccare l’erogazione del denaro pubblico, tant’è che non venne ritenuta idonea dai revisori parlamentari e che, conseguentemente, i rimborsi elettorali furono sospesi.

Con illogica motivazione la Corte ha riconosciuto come nel maggio del 2012, ai fini dell’erogazione dei rimborsi, fossero indispensabili le integrazioni richieste, ma nel contempo ha considerato la prima risposta del Comitato idonea ai fini della consumazione del reato, nonostante essa non riportasse alcuna delle specificazioni indicate dai revisori parlamentari.

15.3.6. Regolarità del bilancio del 2010, questione proposta nel ricorso di TURCI (terzo motivo, punto 2, pagg. 51-56).

Il ricorrente, avuto specifico riguardo ai capi d’imputazione sub c) e c-bis), deduce un travisamento della prova tale da inficiare l’intera motivazione.

La Corte non ha dato conto di quali furono le modifiche apportate al rendiconto del 2011, rispetto alla prima versione mai inviata alle Camere, a seguito dell’attività di revisione svolta dalla società PwC; da una semplice lettura risulta che l’unica posta che ha potuto incidere sulla rappresentazione contabile sia stata quella relativa alle sopravvenienze passive.

Analizzando le poste del bilancio del 2010 si evince come anch’esso rechi sopravvenienze passive di un rilevante ammontare, anche maggiore della somma totale delle spese per cassa prive di documenti giustificativi.

Pertanto, se vale la condivisibile premessa per cui il bilancio del 2011 non è irregolare poiché rappresenta, in maniera veritiera, la complessiva situazione contabile alla luce del corretto appostamento delle spese non giustificate o giustificabili, allora deve essere considerato veritiero e quindi regolare anche il bilancio del 2010, giacché pure in esso erano correttamente appostate, sotto la voce delle sopravvenienze passive, le spese prive di giustificativi.

15.3.7. Atipicità della condotta di cui al capo c) -bis, questione proposta nel ricorso di TURCI (terzo motivo, punto 1, pagg. 46-51).

Il ricorrente censura la sentenza per vizio motivazionale e violazione della legge penale in ordine alla condanna per il reato previsto dall’art. 316 ter cod. pen., di cui al capo c), lamentando il travisamento della prova per omissione della deposizione resa dal prof. Di Tanfo, presidente del Collegio dei revisori parlamentari, idonea a disarticolare la coerenza logica della motivazione, laddove il teste ha affermato che anche una spesa palesemente estranea agli obiettivi statutari del partito non avrebbe consentito la sospensione dei contributi.

La dichiarazione del 16/10/2012, dunque, non prevista dalla legge, non ebbe alcun effetto causale sull’erogazione dei fondi, che furono sbloccati con una decisione che il Collegio dei revisori parlamentari aveva già assunto prima di ricevere la dichiarazione stessa.

16. Uno specifico motivo inerente all’applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen. è stato proposto nel ricorso di SANAVIO (sesto motivo, pagg. 29-31).

Il ricorrente deduce violazione di legge in ordine alla mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., in ragione della diversa qualificazione giuridica del fatto contestato nella meno grave fattispecie di cui all’art. 316 ter cod. pen.

La questione non è stata posta nei giudizi di merito, ostando all’applicabilità dell’istituto la cornice edittale del reato originariamente contestato.

La causa di esclusione della punibilità ben potrebbe essere riconosciuta in ragione di molteplici aspetti (singolarità della condotta; pena applicata in misura prossima al minimo, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti; inesistenza di un profitto; peculiarità dell’incarico ricevuto; limitato oggetto della dichiarazione di falso).

17. Il profilo del trattamento sanzionatorio, esaminato nella sentenza impugnata a pagg. 122-126, ha formato oggetto dei ricorsi degli imputati SANAVIO, TURCI e ALDOVISI.

17.1. SANAVI lamenta il mancato riconoscimento dell’attenuante ex art.114 cod. pen. (settimo motivo, pagg. 31-33).

Il ricorrente deduce il vizio di omessa motivazione sul punto.

17.2. TURCI contesta l’entità della pena (quinto motivo, pagg. 76-80).

Il ricorrente denuncia violazione della legge penale e vizio motivazionale in ordine alla quantificazione della pena, determinata, quanto a quella base, nel doppio del minimo edittale, con una valutazione parziale dei criteri indicati dall’art. 133 cod. pen., essendosi del tutto trascurati, in particolare, il minimo disvalore della condotta ascrivibile al ricorrente, la scarsa intensità del dolo, l’incensuratezza e la sua pregressa condotta di vita.

17.3. ALDOVISI censura l’entità della pena (secondo motivo, pagg. 12-15) nonché l’erronea quantificazione della provvisionale (terzo motivo, pagg. 15-16).

Il ricorrente lamenta violazione della legge penale e vizio motivazionale in quanto la Corte territoriale, in modo illogico ed irragionevole e senza alcuna motivazione, ha determinato per Aldovisi, condannato per il reato di cui agli artt. 56 e 316 ter cod. pen., la stessa pena base stabilita per i coimputati Sanavio e Turci, ritenuti responsabili del medesimo delitto, ma nella forma consumata.

La illogicità della motivazione è riscontrabile anche laddove la sentenza ha ridotto l’entità della provvisionale rideterminandola però in egual misura per i tre membri del Comitato di controllo senza valutare le loro differenti posizioni e responsabilità.

18. Alla pubblica udienza del 6 agosto 2019 il difensore di Francesco Belsito ha presentato una richiesta di rinvio, respinta dal Collegio, nei confronti del quale l’imputato ha conseguentemente presentato una dichiarazione di ricusazione, poi dichiarata inammissibile da altro Collegio della Sezione Feriale della Corte di cassazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. E’ opportuno preliminarmente dare atto che, a fondamento della richiesta di rinvio formulata in apertura della pubblica udienza, la difesa di Belsito ha lamentato l’assenza di alcuni documenti nel fascicolo trasmesso alla Cancelleria della Suprema Corte, in contrasto, però, con l’attestazione in data 31/7/2019 della Cancelleria della Corte di appello di Genova, secondo la quale tutti i faldoni del fascicolo erano stati inviati (“per mero errore materiale la numerazione di questi nuovi faldoni e iniziata dal n. 25 fino al n. 27, anziché dal n. 24 al n. 26, ne consegue che il faldone n. 24 non esiste”).

2. Priva di fondamento è l’eccezione di incompetenza territoriale, quanto ai reati di truffa aggravata, riproposta solo nel ricorso di Umberto Bossi, sotto diversi profili, anche alternativi e contrastanti fra di loro, a fronte di una chiara e lineare ricostruzione della Corte territoriale, che ha correttamente riconosciuto la competenza dell’autorità giudiziaria genovese sulla base di principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, fra i quali, in primo luogo, quello secondo cui la competenza si determina avendo riguardo alla contestazione formulata dal pubblico ministero, a meno che la stessa non contenga rilevanti errori macroscopici ed immediatamente percepibili (Sez. 1, n. 31335 del 23/03/2018, Giugliano, Rv. 273484; Sez. 1, n. 36336 del 23/07/2015, Novarese, Rv. 264539; Sez. 1, n. 11047 del 24/02/2010, Guida, Rv. 246782).

2.1. Nel caso di specie, comunque, all’esito dei giudizi di merito, il Tribunale e la Corte di appello hanno recepito l’ipotesi accusatoria, secondo la quale le erogazioni dei rimborsi alla Lega Nord avvennero in conseguenza degli artifici e raggiri messi in atto dagli imputati attraverso la redazione e presentazione di rendiconti irregolari relativi agli esercizi 2008 (capo a), 2009 (capo b) e 2010 (capi c e c -bis), accompagnati da false attestazioni dei componenti del Comitato di controllo di secondo livello.

Poiché pacificamente, in ragione del profitto conseguito, il reato più grave (ed anche il primo commesso) è quello sub a), rilevante ai sensi dell’art. 16, comma 1, cod. proc. pen., correttamente la sentenza impugnata, preso atto che i pagamenti nell’anno 2010 avvennero in diverse soluzioni (dal 4 febbraio al 2 agosto), ha evocato la figura della truffa a consumazione prolungata, configurabile quando le erogazioni pubbliche, a versamento rateizzato, siano riconducibili ad un originario ed unico comportamento fraudolento, costituito nel caso di specie dalla presentazione di un falso rendiconto.

E’ privo di ogni pregio, dunque, il rilievo del ricorrente secondo il quale ad ogni singolo pagamento in uno stesso anno corrisponde un autonomo reato di truffa: il mezzo fraudolento – come detto – fu quello della presentazione, il 28/7/2009, del rendiconto relativo all’anno 2008, che ottenne il giudizio di regolarità e conformità alla legge e conseguentemente determinò tutti i pagamenti nell’anno 2010.

2.2. In appello, poi, la difesa di Bossi aveva equivocato fra la individuazione degli artifizi e raggiri, come contestati e ritenuti (la presentazione del rendiconto del 2008, accompagnato da una falsa relazione), e la causale dei conseguenti pagamenti effettuati nel 2010, relativi a numerose e diverse competizioni elettorali, svoltesi negli anni 2006, 2008, 2009 e 2010.

La Corte territoriale ha ben spiegato per quale ragione fosse del tutto indifferente che l’ultima rata del rimborso spese per le elezioni del 2008 fosse stata versata nell’anno 2012: l’anno 2008 rileva, infatti, non in relazione alla tornata elettorale svolta bensì al rendiconto redatto, grazie al quale furono erogati i pagamenti nell’anno 2010.

Peraltro, proprio la individuazione nell’anno 2010 della data di consumazione del reato ha consentito a Bossi di beneficiare della prescrizione (e la stessa valutazione – come si vedrà – verrà fatta per la erogazione dei rimborsi avvenuta nel 2011, sulla base del rendiconto relativo all’anno 2009).

Nel ricorso di Bossi, richiamato con un lungo excursus detto motivo di appello, seguito dalle argomentazioni della Corte (pagg. 10-21), si è poi percorsa una strada differente, sostenendo che, sulla base delle motivazioni del giudice di appello, ci si troverebbe di fronte ad un reato permanente e non più ad una truffa a consumazione prolungata, cosicché bisognerebbe avere riguardo, ai sensi dell’art. 8, comma 3, cod. proc. pen., al primo pagamento, avvenuto il 4 febbraio 2010 presso una banca di Roma, e non già all’ultimo del 2 agosto 2010, effettuato presso una banca di Genova.

La tesi è priva di ogni fondamento e contrasta con la costante giurisprudenza della Suprema Corte, secondo la quale la truffa ai danni dello Stato per percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi, erogati in ratei periodici, non è reato permanente bensì a consumazione prolungata, perché il soggetto agente manifesta sin dall’inizio la volontà di realizzare un evento destinato a durare nel tempo; pertanto, il momento consumativo del reato coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna la fine dell’aggravamento del danno (Sez. 2, n. 23185 del 02/05/2019, Dell’Acqua, Rv. 275784; Sez. 2, n. 57287 del 30/11/2017, Trivellini, Rv. 272250; Sez. 2, n. 53667 del 02/12/2016, Bellucci, Rv. 269381; Sez. 5, n. 32050 del 11/06/2014, Corba, Rv. 260496; Sez. 2, n. 11026 del 03/03/2005, Becchiglia, Rv. 231157).

Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno dato rilevanza, ai fini della competenza per territorio, al luogo in cui fu ricevuto, in data 2 agosto 2010, il pagamento dell’ultimo rateo.

2.3. L’ultimo motivo sul tema prospettato nel ricorso di Bossi è inammissibile perché mai proposto in precedenza: infatti, l’eccezione di incompetenza territoriale, ritualmente prospettata dalle parti nel termine di cui all’art. 491 cod. proc. pen. e respinta dal giudice, può essere riproposta con i motivi di impugnazione senza però introdurre argomentazioni ulteriori e diverse da quelle originarie; ne consegue che, in sede di legittimità, sono insindacabili gli aspetti relativi alla competenza territoriale non ritualmente sottoposti dalla parte entro il suddetto termine, neanche se questi siano collegati a sopravvenienze istruttorie, ipotesi questa ultima, peraltro, non verificatasi nel caso in esame (Sez. 2, n. 4876 del 30/11/2016, dep. 2017, Sacco, Rv. 269212; Sez. 2, n. 1415 del 13/12/2013, dep. 2014, Chiodi, Rv. 258149; Sez. 1, n. 26699 del 23/05/2013, Singh Balgit, Rv. 256050; Sez. 4, n. 14699 del 12/12/2012, dep. 2013, Perez Garda, Rv. 255498).

In ogni caso il motivo è infondato, in quanto anche il decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11 prevede ipotesi in cui il bonifico è revocabile (art. 17, comma 5); solo al momento dell’effettivo accredito vi può essere certezza sul conseguimento dell’ingiusto profitto, momento che produce la consumazione del reato (Sez. 2, n. 54948 del 16/11/2017, Di Paolantonio, Rv. 271761; Sez. 2, n. 48027 del 20/10/2016, Vallelonga, Rv. 268369; Sez. F, n. 37400 del 30/08/2016, F., Rv. 268011).

3. Il motivo proposto nel ricorso di Belsito in tema di intercettazioni è privo della necessaria specificità ed è pertanto inammissibile.

Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa nel corso della discussione, è da tempo consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, espresso anche dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416), secondo il quale, «nei casi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l’espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento; gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento» (così, di recente, Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, Calabrese, Rv. 262011; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Barilari, Rv. 259452; da ultimo cfr. Sez. 2, n. 26146 del 22/05/2019, Paolillo; Sez. 2, n. 29317 del 10/04/2019, Spinelli; Sez. 1, n. 22433 del 23/01/2019, Maravalle, non massimate).

La difesa non ha neppure indicato in relazione a quali reati l’eventuale espunzione delle intercettazioni avrebbe avuto rilievo né ha dedotto che la stessa avrebbe potuto avere effetti ai fini della decisione.

Il ricorrente, dunque, non ha assolto l’onere che gli incombeva, secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, formatasi proprio in tema di dedotta inutilizzabilità di un atto ed anche, specificamente, in materia di intercettazioni.

La rilevanza della lacuna è ancora più evidente nel caso di specie, in quanto, dalla lettura della sentenza impugnata, emerge che varie conversazioni erano inerenti a questioni proposte in appello e non più in ricorso; che, a proposito di Belsito e delle “falsità necessarie- a celare le distrazioni” nei rendiconti, desumibili essenzialmente da prove documentali, consulenze e testimonianze, “le stesse dichiarazioni dell’imputato al riguardo hanno sostanzialmente contenuto confessorio” (pag. 106); che il dolo di appropriazione (di Belsito e dei due “riciclatori”), quanto al reato sub d), ha trovato ulteriore conferma nella “frenetica attività posta in essere a posteriori….per predisporre documentazione falsa finalizzata da una parte a dare veste di apparente regolarità al trasferimento di denaro, dall’altra a garantirne il buon esito” (pag. 90 della sentenza di primo grado).

Peraltro, nell’appello di Belsito, in ordine all’appropriazione indebita, si era posto unicamente un motivo relativo alla sussistenza dell’elemento soggettivo, abbandonato nel ricorso in esame, considerato che le testimonianze assunte in dibattimento hanno smentito la tesi difensiva secondo la quale le operazioni di bonifico erano state avallate da Bossi.

In altri termini, alla luce della motivazione della sentenza impugnata e delle argomentazioni svolte nei ricorsi, emerge lo scarso rilievo delle intercettazioni, in ipotesi inutilizzabili: a maggior ragione è applicabile nel caso di specie il principio secondo il quale «è affetta da genericità la censura con la quale la parte eccepisce la inutilizzabilità di un atto, senza dedurne, al tempo stesso, la rilevanza probatoria, nel contesto degli altri elementi di prova» (così la citata pronuncia delle Sezioni unite).

Per completezza, rileva il Collegio che la questione era stata posta in termini estremamente generici anche nell’appello, avendo la difesa apoditticamente affermato che quello de quo fosse un “procedimento diverso da quello da cui tali registrazioni provengono”, a fronte di una specifica motivazione con la quale il Tribunale aveva disatteso espressamente tale impostazione, negando che si trattasse di un procedimento diverso ed affermando, pertanto, la inapplicabilità dell’art. 270 del codice di rito.

Già in appello, dunque, il motivo risultava inammissibile e «la genericità del motivo di appello, che è causa della sua inammissibilità ai sensi degli artt. 591, comma 1, lettera c) [ora lett. d), dopo la modifica apportata dalla legge 23 giugno 2017, n. 103] e 581, comma 1, lettera c), può essere rilevata anche nel giudizio di cassazione, a norma dell’art. 591, comma 4, cod. proc. pen.» (Sez. 3, n. 38638 del 26/04/2017, Criscuolo, Rv. 270799; in senso conforme v. Sez. 3, n. 41048 del 17/01/2018, S., Rv. 274032 nonché Sez. 2, n. 40816 del 10/07/2014, Gualtieri, Rv. 260359).

La inammissibilità del motivo per difetto di specificità preclude l’esame della questione di diritto posta dal ricorrente.

4. E’ infondato il motivo in rito proposto ancora nel ricorso di Belsito, relativo alla nullità della richiesta di rinvio a giudizio per omessa notifica dell’avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen., dopo la trasmissione degli atti per competenza disposta con la sentenza emessa dal G.u.p. del Tribunale di Milano il 17/10/2014.

Anche in questo caso la giurisprudenza di legittimità è costante e – diversamente da quanto sostenuto dalla difesa – recentissima.

Proprio da ultimo, infatti, la Suprema Corte ha ribadito che la trasmissione degli atti al pubblico ministero, conseguente ad una decisione del giudice che dichiari la propria incompetenza, impone la rinnovazione della notifica all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, anche ove ritualmente effettuata in precedenza, solo quando siano svolte ulteriori indagini o vengano contestati altri reati o circostanze aggravanti diverse e non, invece, nella ipotesi in cui il pubblico ministero si limiti ad attribuire al medesimo fatto una qualificazione giuridica diversa e, tantomeno, quando – come nel caso di specie – i fatti ed anche i reati contestati siano rimasti i medesimi.

Trattasi di una interpretazione, condivisa dal Collegio, aderente non solo al principio di irretrattabilità dell’azione penale ma anche alla finalità dell’avviso stesso, «cioè quella di mettere la parte privata, all’atto della conclusione delle indagini preliminari, nella condizione di disporre di un patrimonio conoscitivo, in relazione al fatto per cui si procede e alle norme che si assumono violate, con la contestuale informazione dell’avvenuto deposito della documentazione relativa alle indagini e dell’esercizio delle facoltà difensive conseguenti» (così Sez. 5, n. 10288 del 05/11/2018, dep. 2019, El Kaisi, Rv. 275634; in senso conforme cfr., ad es., Sez. 3, n. 29252 del 05/05/2017, Luongo, Rv. 270434; Sez. 3, n. 43809 del 24/10/2014, Gabbana, Rv. 265117; Sez. 2, n. 16599 del 17/12/2010, dep. 2011, Lo Nigro, Rv. 250215; Sez. 3, n. 20765 del 08/04/2010, Solimine, Rv. 247609).

5. Priva di pregio è l’eccezione in rito proposta dalla difesa di Belsito (per la prima volta) nel corso della discussione, con la quale è stata sollecitata una declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per il reato di appropriazione indebita, ascritto all’imputato al capo d).

E’ noto come detto reato, anche se aggravato ex art. 61, primo comma n. 11, cod. pen., sia divenuto perseguibile a querela, a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 10 aprile 2018, n. 3 (art. 10).

L’art. 12, comma 2, dello stesso decreto prevede che, dopo l’esercizio dell’azione penale, il giudice informi la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela; in tal caso il termine per la presentazione della querela decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata.

Nel caso di specie il segretario della Lega Nord ha presentato tempestiva querela per il reato ex art 646 cod. pen., contestato nel presente giudizio a Francesco Belsito, così come poi accaduto nel processo per appropriazione indebita svoltosi a Milano.

Nel ricorso di Bossi si è ricordato che, per contro, nei confronti dello stesso e del figlio Riccardo, in secondo grado è stata emessa sentenza di improcedibilità dell’azione penale, avendo la Lega Nord presentato querela solo nei confronti di Belsito (il processo è attualmente pendente presso la Suprema Corte, a seguito dei ricorsi presentati da Belsito contro la sentenza di condanna e dal Procuratore generale avverso la dichiarazione di improcedibilità).

Il difensore di Belsito ha sostenuto che in precedenza, però, vi è stata rinuncia tacita al diritto di querela, avendo la persona offesa (Lega Nord) compiuto fatti incompatibili con la volontà di querelarsi (art. 124, terzo comma, cod. pen.), quali sarebbero stati la mancata costituzione di parte civile e l’approvazione all’unanimità del bilancio.

E’ ovvio, invero, come la scelta del querelante di non costituirsi parte civile, circostanza riscontrabile di sovente nella prassi giudiziaria, a volte giustificata con la volontà della persona offesa di promuovere autonomo processo civile (nel quale – com’è noto – la regola di giudizio è quella, più favorevole all’attore-danneggiato, del “più probabile che non” e non quella dell-oltre ogni ragionevole dubbio”), sia inidonea a costituire un fatto incompatibile con la volontà di querelarsi.

In modo meramente assertivo la difesa ha poi evocato un’approvazione “del bilancio” all’unanimità, facendo riferimento – si suppone – a quello dell’anno nel corso del quale (2011) si verificarono le contestate appropriazioni.

A parte la palese genericità della deduzione, priva di qualsiasi riferimento certo, basti osservare che la rinuncia tacita ad un diritto in tanto si può manifestare in quanto il diritto stesso sia esistente.

Come detto, solo con il decreto legislativo n. 3 del 2018 il reato di appropriazione indebita, aggravato ex art. 61, primo comma n. 11, cod. pen., è divenuto procedibile a querela di parte, querela che la persona offesa ha poi ritualmente e tempestivamente presentato nel corso del giudizio di appello.

6. Manifestamente infondato è il motivo con il quale la difesa di Bossi (l’unica ad averlo riproposto in sede di legittimità) ha sostenuto essere sopravvenuta la depenalizzazione delle condotte qualificate come truffa aggravata.

Il solo dato testuale rende del tutto evidente come il destinatario dell’illecito amministrativo introdotto con la legge 6 luglio 20-12, n. 96 (art. 9, commi 8-16) fosse esclusivamente il partito politico, al quale veniva applicata una sanzione amministrativa pecuniaria, di diversa entità in base al tipo ed alla gravità delle irregolarità, nelle ipotesi di inottemperanza ai nuovi adempimenti previsti dalla legge o di presentazione di rendiconti non attendibili ovvero di omesse o non corrette informazioni nella relazione sulla gestione e nella nota integrativa.

L’articolo 10 della stessa legge, richiamato anche dal ricorrente, prevedeva che, nel caso di applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 9, commi 9, 10, 11 e 12 in una determinata misura, coloro che svolgevano le funzioni di tesoriere dei partiti e dei movimenti politici perdessero la legittimazione a sottoscrivere i rendiconti relativi agli esercizi dei cinque anni successivi, disposizione specifica che non smentisce ma conforta la valutazione svolta dai giudici di merito in ordine alla permanenza della rilevanza penale delle condotte fraudolente eventualmente poste in essere dal tesoriere o da altri rappresentanti del partito stesso.

La tesi difensiva contrasta palesemente anche con la ratio della nuova normativa, introdotta per potenziare il sistema di verifica sulla rendicontazione dei partiti e movimenti politici, con la previsione di un’articolata forma di responsabilità amministrativa degli stessi e di un conseguente meccanismo di sanzioni pecuniarie, a prescindere dalle responsabilità dei singoli.

7. Il tema centrale del processo attiene indubbiamente ai profili della insindacabilità delle spese sostenute dal partito e della sussistenza degli elementi costitutivi della truffa aggravata, avuto particolare riguardo, per ora, alla ingiustizia del profitto conseguito, costituito dai finanziamenti ricevuti negli anni 2010, 2011 e 2012 (rate relative – come detto – a diverse elezioni).

Le difese hanno enfatizzato il dato secondo il quale, nella normativa prevista dalla legge 3 giugno 1999, n. 157, il finanziamento pubblico dei partiti (pur se definito come un “rimborso in relazione alle spese elettorali sostenute per le campagne per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, del Parlamento Europeo e dei consigli regionali”), non era finalizzato, in realtà, al rimborso delle spese sostenute per le campagne elettorali, ma era configurato come una forma di sostegno dell’attività svolta dal partito “a valle” delle competizioni, essendo determinato sulla base dei voti conseguiti e non dei costi sostenuti, con la conseguente assenza di un vincolo di destinazione pubblicistica sulle somme corrisposte.

Partendo da tale pacifica circostanza, evidenziata anche nell’ordinanza n. 10094 del 2015 emessa dalle Sezioni unite civili in sede di regolamento- preventivo di giurisdizione nella “vicenda Lusi”, evocata nella sentenza impugnata ed in vari ricorsi, le difese hanno nella sostanza rivendicato – come si è in precedenza illustrato – un diritto al pagamento dei rimborsi, indipendentemente non solo dalla destinazione delle spese ma anche dalla veridicità dei rendiconti presentati.

7.1. I giudici di merito hanno smentito tale ultimo assunto, con ampie argomentazioni, fondate in primo luogo sul dato normativo che, pertanto, pare opportuno richiamare nei dati salienti. L’art. 8 della legge 2 gennaio 1997, n. 2, richiamato dalla legge n. 157 del 1999, applicabile ratione temporis, prevedeva che il rappresentante legale o il tesoriere dovesse «redigere il rendiconto di esercizio secondo il modello di cui all’allegato A» (comma 1), «corredato di una relazione del legale rappresentante o del tesoriere di cui al comma 1 sulla situazione economico-patrimoniale del partito o del movimento e sull’andamento della gestione nel suo complesso», relazione «redatta secondo il modello di cui all’allegato B» (comma 2), nonché «corredato di una nota integrativa secondo il modello di cui all’allegato C» (comma 3).

Il rappresentante legale o il tesoriere di cui al comma 1 doveva «tenere il libro giornale e il libro degli inventari» (comma 5), «conservare ordinatamente, in originale o in copia, per almeno cinque anni, tutta la documentazione» avente natura o comunque rilevanza amministrativa e contabile (comma 6), «pubblicare entro il 30 giugno di ogni anno, almeno su due quotidiani, di cui uno a diffusione nazionale, il rendiconto corredato da una sintesi della relazione sulla gestione e della nota integrativa» (comma 11).

Tutte le scritture contabili dovevano «essere tenute secondo le norme di una ordinata contabilità» (comma 10). Disponeva poi il comma 12 che il rendiconto di esercizio, corredato della relazione sulla gestione, della nota integrativa e della relazione dei revisori dei conti nonché delle copie dei quotidiani ove era avvenuta la pubblicazione, fosse «trasmesso dal legale rappresentante o dal tesoriere del partito o del movimento politico, entro il 31 luglio di ogni anno, al Presidente della Camera dei deputati».

Il rendiconto di esercizio, la relazione sulla gestione e la nota integrativa, inoltre, erano «pubblicati, a cura dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, in un supplemento speciale della Gazzetta Ufficiale» (comma 13).

Il Presidente della Camera dei deputati, d’intesa con il Presidente del Senato della Repubblica, comunicava al Ministro del tesoro, sulla base del controllo di conformità alla legge compiuto da un Collegio di revisori, composto da cinque revisori ufficiali dei conti nominati d’intesa tra i Presidenti delle due Camere, -«l’avvenuto riscontro -della regolarità della redazione del rendiconto, della relazione e della nota integrativa» (comma 14).

L’allegato A conteneva il modello del rendiconto di esercizio con l’indicazione assai dettagliata delle specifiche voci che dovevano essere riportate, sia per lo stato patrimoniale (attività e passività) sia per il conto economico (proventi gestione caratteristica, oneri della gestione caratteristica, proventi e oneri finanziari, rettifiche di valore di attività finanziarie, proventi e oneri straordinari).

L’allegato B descriveva il modello della relazione di gestione nella quale dovevano essere indicate, fra le altre, le attività culturali, di informazione e comunicazione sostenute; le spese per le campagne elettorali; i rapporti con imprese partecipate anche per tramite di società fiduciarie o per interposta persona, con l’analitica indicazione del valore dei redditi derivanti da attività finanziarie ed economiche.

La nota integrativa di cui all’allegato C prevedeva la indicazione, fra l’altro, dei criteri di valutazione, delle variazioni, della composizione e delle voci del rendiconto; dei movimenti delle immobilizzazioni; delle acquisizioni, alienazioni, rivalutazioni intervenute nell’esercizio; dell’elenco delle partecipazioni, anche per interposta persona, in imprese partecipate; dell’ammontare di debiti e crediti di durata residua a cinque anni; degli impegni non risultanti dallo stato patrimoniale; della composizione delle voci “proventi straordinari” e “oneri straordinari” del conto economico, quando il loro ammontare fosse apprezzabile; del numero dei dipendenti ripartito per categoria.

In sostanza, dunque, la normativa imponeva una modalità di tenuta della contabilità ordinaria di maggior rigore rispetto a quella prescritta per le normali associazioni non riconosciute e coincidenti invece con quelle che il codice civile prescrive per le più strutturate società; una sintesi dei dati della contabilità annuale in un rendiconto corredato di una relazione di gestione e di una nota integrativa predisposte dagli organi statutari nonché della relazione dei revisori; la pubblicazione del rendiconto in due quotidiani; l’invio al Presidente della Camera, entro il 31 luglio dell’anno successivo, del rendiconto con i menzionati allegati e con la prova della pubblicazione.

7.2. Alla luce della lettera delle disposizioni ora citate e della ratio dell’articolata normativa risulta ineccepibile la osservazione contenuta nella sentenza impugnata: si trattava di “obblighi di rigorosa rendicontazione, che dovevano poggiare su altrettanto rigorosi obblighi di tenuta contabile, cui il legislatore aveva condizionato l’erogazione dei rimborsi proprio al fine di responsabilizzare il partito/movimento politico a garantire, almeno, una gestione trasparente degli ingenti finanziamenti pubblici ricevuti”.

Se l’osservanza delle citate disposizioni, avuto particolare riguardo alla veridicità del rendiconto, fosse stata indifferente, come nella sostanza propugnato dai ricorrenti (si sarebbe trattato di “precetti senza sanzione”, ha sostenuto la difesa di Turci nel corso della discussione), allora non avrebbe avuto alcun senso né margine di applicazione il disposto dell’art. 1, comma 8, della legge n. 157 del 1999, in base al quale, «in caso di inottemperanza agli obblighi di cui all’articolo 8 della legge 2 gennaio 1997, n. 2, o di irregolare redazione del rendiconto, redatto secondo le modalità del medesimo articolo», il Presidente della Camera dei deputati e il Presidente del Senato della Repubblica, per i fondi di rispettiva competenza, sospendevano «l’erogazione del rimborso fino alla avvenuta regolarizzazione».

I giudici di merito hanno colto appieno lo scopo perseguito dal legislatore dell’epoca, rimanendo aderenti alle valutazioni espresse nella ordinanza delle Sezioni unite civili n. 10094 del 18/05/2015 (Rv. 635272), pure richiamata dalle difese a sostegno delle proprie tesi (in senso conforme cfr., da ultimo, la sentenza n. 21927 del 07/09/2018 – Rv. 650450 – emessa sempre dalle Sezioni unite civili).

Nel citato provvedimento, si legge che il sostegno pubblico diretto «è stato visto dal legislatore ordinario come uno dei mezzi per favorire i partiti politici in quanto strumenti principali della partecipazione di tutti i cittadini al governo della comunità, per rafforzare l’indispensabile pluralismo partitico, per assicurare che la naturale competizione politica possa essere regolata secondo principi e standard normativamente eguali e certi, dunque trasparenti e misurabili, ed ancora per garantire agli stessi partiti un grado minimo di indipendenza nei propri processi decisionali rispetto ai soggetti che hanno maggiori disponibilità finanziarie».

Inoltre, «le forme di controllo delle finanze partitiche sono meramente formali. Il controllo esercitato sui bilanci è di mera veridicità dei dati presentati e non di conformità a (non previsti) vincoli di destinazione, essendosi voluto impedire – come è stato sottolineato in dottrina – qualsiasi rischio di interferenza esterna sulle decisioni di spesa dei partiti, che costituiscono inevitabilmente il risvolto di discrezionali decisioni politiche».

Sussisteva, dunque – hanno evidenziato le stesse Sezioni unite – «una serie di obblighi di trasparenza di ordine generale, riferiti all’intero arco dell’anno e riguardanti il complesso delle attività finanziariamente rilevanti dei soggetti politici destinatari del finanziamento pubblico qualificato come contributo alle spese elettorali», obblighi la cui inottemperanza comportava la sospensione dell’erogazione dei rimborsi fino alla avvenuta regolarizzazione.

Detti obblighi, pertanto, integravano una condizione legale sospensiva rispetto all’effettiva erogazione del rimborso, che poteva avvenire solo all’esito del positivo accertamento («controllo di conformità alla legge») da parte del Collegio dei revisori parlamentari e, quindi, ad esito del «riscontro della regolarità della redazione del rendiconto, della relazione e della nota integrativa».

La previsione di precise forme contabili di gestione e rendicontazione delle spese sostenute per l’attività politica, da rendere note non solo al Parlamento ma anche alla collettività (attraverso la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e su almeno due quotidiani del rendiconto, della relazione sulla gestione e della nota integrativa), è stato il contrappeso – per così dire – imposto dal legislatore: liberi i partiti e movimenti politici di destinare senza vincoli le rilevanti risorse pubbliche ricevute dallo Stato, ma nel contempo tenuti a redigere il rendiconto annuale ed i citati atti in modo regolare e trasparente, certificato da una specifica relazione dei revisori interni.

Risulta priva di pregio, dunque, la tesi sostenuta dalla difesa di Belsito nel corso della discussione, secondo la quale “l’obbligo di verità è una invenzione”.

Sono le stesse Sezioni unite, nella vicenda Lusi, a definire il controllo esercitato dai revisori parlamentari sul rendiconto quale un controllo di “veridicità dei dati presentati” ed a ricordare come alla irregolare redazione di detto atto (o, più in generale, all’inadempimento degli obblighi previsti dall’articolo 8 della legge 2 gennaio 1997, n. 2) conseguisse la sospensione della erogazione del contributo.

Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha osservato come detto controllo pubblico “attenesse, seppure senza entrare nel merito della destinazione delle spese del partito politico, alla verifica dei doverosi requisiti di informazione contabile necessari all’erogazione del finanziamento pubblico sulla base dei fatti esposti nei rendiconti, nelle relazioni al bilancio e nelle note integrative, e dei controlli interni al partito politico di cui veniva dato atto nella relazione dei revisori dei conti.

Resta pertanto inconferente per escludere l’induzione in errore la circostanza che fosse precluso al Collegio dei Revisori pubblici un controllo di merito o comunque valutativo sulle voci di spesa indicate nei rendiconti, alla luce del già menzionato principio di insindacabilità delle spese dei partiti politici”, il cui richiamo non è pertinente, “posto che sono in contestazione artificiose violazioni degli obblighi di trasparenza, riguardanti il complesso delle attività finanziariamente rilevanti del soggetto politico destinatario del finanziamento, che la disciplina ratione temporis applicabile ha stabilito a condizione dell’erogazione dei rimborsi elettorali”.

Non è condivisibile neppure il rilievo svolto dalla difesa di Bossi, secondo il quale la illiceità del mezzo (falsità dei rendiconti e inesistenza dei controlli da parte dei revisori interni) “non può risolversi in ingiustizia del profitto”: non è pertinente, infatti, il richiamo alla “illiceità del mezzo”, considerato che – come osservato anche dal Procuratore generale nel corso della requisitoria – la regolarità del rendiconto e l’adempimento degli altri obblighi previsti dall’articolo 8 della legge n. 2 del 1997, n. 2 erano il presupposto stesso, la condizione necessaria per l’erogazione del contributo, secondo il dettato normativo e la ratio della disciplina di cui si è in precedenza trattato.

Proprio la falsità dei rendiconti e la violazione di tali obblighi, che – se conosciuti – avrebbero precluso la liquidazione dei rimborsi, connotano l’ingiustizia del profitto, anche a prescindere dalle condotte illecite che dette violazioni intendevano occultare.

Nel ricorso di Bossi si è data una lettura parziale della motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, secondo la quale i rimborsi elettorali, «laddove conosciute le appropriazioni indebite e le gravi irregolarità nella tenuta contabile artatamente mascherate attraverso l’invio di documenti falsi, non sarebbero stati liquidati rimanendo sospesa l’erogazione» (pag. 103).

Infatti, subito dopo, la Corte, ricostruendo la vicenda della presentazione del rendiconto del 2011 e degli atti allegati, da parte del nuovo segretario e del nuovo tesoriere del partito, dopo l’intervento di una società di revisione incaricata dalla stessa Lega Nord, ha evidenziato che l’erogazione dei rimborsi nell’anno 2013 fece seguito alla presentazione di detto rendiconto di esercizio, che fornì al Parlamento una informazione veritiera della situazione finanziaria e contabile della Lega Nord (comprensiva delle uscite ingiustificate in danno del partito politico, verificatesi anche nel 2011), con una rappresentazione che diede “conto della realtà, nel rispetto dei doveri di informazione gravanti sul partito politico, ben diversa da quella fino a quel momento era stata fornita dai precedenti organi rappresentativi del partito, artificiosamente predisposta in modo da occultare le distrazioni attraverso la redazione di falsi rendiconti di esercizio e la falsa attestazione dei prescritti adempimenti contabili, in realtà del tutto omessi”.

Diversamente da quanto sostenuto nel ricorso di Turci (pag. 38), le rendicontazioni delle spese del partito, per gli anni dal 2008 al 2010, sono state ritenute false non già “poiché non inerenti”, bensì in quanto rappresentavano – come si vedrà più dettagliatamente nel prosieguo – una falsa destinazione delle spese effettuate.

Non vi è alcuna contraddittorietà, pertanto, nella motivazione della sentenza impugnata, ravvisabile, per contro, nell’argomentazione svolta nel ricorso presentato nell’interesse di Bossi, con la quale per un verso si è riconosciuto come il rendiconto e la documentazione contabile (bilanci, note integrative etc.) predisposti e presentati alle Istituzioni parlamentari “avessero una finalità di controllo del regolare impiego ed utilizzo dei soldi ottenuti a titolo di finanziamento per i partiti”, ma per altro verso si è affermato che tale finalità “esulava, però, dai presupposti in forza dei quali il diritto al finanziamento era maturato e doveva, quindi, essere erogato” (pag. 57).

Detto diritto – va ribadito – sorgeva in ragione della partecipazione ad una determinata competizione elettorale ed era proporzionato al numero di voti conseguiti, ma nel contempo era espressamente condizionato dalla legge alla presentazione del rendiconto e all’adempimento degli altri obblighi; diversamente opinando, la “finalità di controllo” sarebbe stata frustrata dall’assenza di un qualsiasi effetto nel caso in cui il controllo avesse avuto esito negativo.

Non si tratta, peraltro, di fornire una interpretazione della voluntas legis quanto – come sostenuto dal Procuratore generale nel corso della requisitoria – di prendere atto del chiaro disposto normativo: «in caso di inottemperanza agli obblighi di cui all’articolo 8 della legge 2 gennaio 1997, n. 2, o di irregolare redazione del rendiconto», doveva essere sospesa «l’erogazione del rimborso fino alla avvenuta regolarizzazione» (art. 1, comma 8, della legge n. 157 del 1999), in mancanza della quale, evidentemente, la sospensione non poteva che operare sine die.

7.3. Con i ricorsi degli imputati – come si è visto – non è stata nella sostanza contestata la falsità dei rendiconti, finalizzata all’occultamento delle spese effettuate dal segretario e dal tesoriere per finalità estranee all’attività politica della Lega Nord (intesa nel senso più ampio, come riconosciuto dalla Corte territoriale), e soprattutto non è stata specificamente censurata la motivazione della sentenza impugnata.

Inoltre, sono stati abbandonati i rilievi svolti in appello da alcune difese in ordine ai profili di completezza dell’acquisizione della documentazione e di attendibilità delle consulenze tecniche, temi sui quali, peraltro, la Corte territoriale ha reso una motivazione puntuale, adeguata ed immune da vizi (pagg. 78-83).

Del resto, in quasi tutti i ricorsi si è sostenuto che, alla luce delle falsità accertate, la condotta contestata “potrebbe rilevare in termini di appropriazione indebita in danno del partito Lega Nord per l’Indipendenza della Padania […] o, al più, di truffa in danno del predetto partito” (così, ad esempio, il ricorso di Bossi, a pag. 53; in termini analoghi si è espressa la difesa di Belsito, a pag. 11 del ricorso), essendosi altresì evidenziato che nell’analoga vicenda che riguardò Luigi Lusi, tesoriere del partito La Margherita, l’azione penale fu esercitata in ragione non “di indebite erogazioni ai d-anni dello Stato, ma solo delle indebite – appropriazioni – peraltro molto superiori al caso in esame – che l’allora tesoriere aveva commesso ai danni del partito” (ricorso Turci, pag. 35).

A questo proposito non può avere alcun rilievo la circostanza che nel processo a carico di Lusi si sia proceduto solo per il reato di appropriazione indebita, fatto del quale le Sezioni unite civili, nell’ordinanza più volte richiamata, presero atto, senza ovviamente svolgere alcuna considerazione in ordine alla sussistenza od insussistenza di altri reati.

L’assenza di un vincolo di destinazione pubblicistica sulle somme corrisposte come rimborsi elettorali è del tutto compatibile – come si è visto – anche con la ipotesi della truffa aggravata in danno dello Stato.

Venendo, dunque, al tema della falsità dei rendiconti, va rilevato che la sentenza impugnata ha fatto ampi riferimenti alle argomentazioni del Tribunale: è pertinente, dunque, il principio secondo il quale «la struttura motivazionale della sentenza si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, quando le due decisioni di merito concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni [….] a maggior ragione quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado» (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; nello stesso senso v., ad es., Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco, Rv. 269078, in motivazione; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615; da ultimo v. Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, in motivazione).

I giudici di merito, alla luce delle risultanze delle consulenze tecniche, ampiamente illustrate dagli esperti in sede dibattimentale, nonché degli accertamenti compiuti dalla società di revisione incaricata nel 2012 dal partito, hanno evidenziato le gravi lacune nella tenuta della documentazione contabile, i notevoli ritardi nell’inserimento delle operazioni e dei documenti nel sistema informatico, la mancata tenuta delle scritture di base, la consistente mancanza di pezze giustificative (nella misura del 67% delle spese, se tale dizione viene riferita non solo a documenti rilevanti ai fini fiscali; diversamente, l’entità delle spese non giustificate sarebbe quantificabile nel 90%).

Con logica motivazione, peraltro non specificamente censurata dai ricorrenti, la Corte territoriale ha spiegato le ragioni per le quali “le macroscopiche omissioni e gli inadempimenti rilevati” non fossero riconducibili “ad una negligente, errata o difforme tenuta della contabilità delle spese del partito, bensì ad un sistema contabile caotico ed incontrollabile, gestito in modo da occultare la destinazione ad illeciti fini privati di consistenti somme uscite in contanti dalle casse e dai conti correnti del partito e per ostacolare la ricostruzione della effettiva destinazione delle uscite alle voci di spesa contabilizzate”.

Sul tema, la difesa di Belsito, nel ricorso e nel corso della discussione, ha sostenuto l’erroneità della valutazione della sentenza impugnata in ordine alla falsità delle voci “spese varie” e “rimborsi forfetari”, contenute nei rendiconti del partito: si sarebbe trattato solo di “appostazioni generiche”, non vietate, nelle quali ben potevano rientrare anche le contestate destinazioni delle somme al segretario ed al tesoriere del partito.

Invero, il ricorrente ha estrapolato solo una parte dell’ampia motivazione della sentenza impugnata, laddove si è evidenziato che l’occultamento delle uscite di cassa riconducibili ad illecite distrazioni di fondi è avvenuto, in qualche caso, con annotazioni criptiche o generiche quali quelle ricordate dalla difesa.

Tuttavia, richiamando la sentenza del Tribunale nella parte (pagg. 42-51) in cui erano state descritte le spese più rilevanti con destinazione estranea all’attività del partito (oggetto del processo per il reato ex art. 646 cod. pen. in danno della Lega Nord), la Corte di appello, a titolo esemplificativo, ha ricordato (pag. 86)

che le spese per la ristrutturazione dell’abitazione privata di Umberto Bossi furono contabilizzate come pagamento di una consulenza svolta da tale Dalmirino Ovieni;

che l’acquisto delle lauree in Albania per i figli del segretario fu mascherato con false indicazioni, relative sia alla destinataria delle uscite (soc. Cidsa) sia alla causale dei pagamenti (“corsi di aggiornamento”);

che le spese a favore di Sabrina Dujani (rappresentante legale di una società riconducibile a Belsito, che gestiva una discoteca, nonché fiduciaria in un trust costituito dallo stesso tesoriere) vennero contabilizzate come “consulenze”, in realtà mai espletate;

che le spese per i canoni di locazione relativi ad un appartamento a Genova, ad uso privato di Belsito, furono registrate alla voce “affitti passivi”, come se si trattasse di una sede secondaria della Lega Nord;

che i pagamenti dei canoni del contratto di leasing relativo ad un’autovettura BMW X5, in uso esclusivo a Riccardo Bossi, nonché del riscatto del veicolo furono contabilizzati come se il mezzo fosse nella disponibilità del partito politico.

A prescindere dunque dalle altre numerose spese con destinazione estranea all’attività del partito (in senso lato), occultate con le generiche voci ricordate dalla difesa di Belsito, dall’ampia istruzione dibattimentale svolta in primo grado, come valutata dai giudici di merito, con motivazione immune da vizi e neppure specificamente censurata sul punto dai ricorrenti, è emersa – secondo quanto osservato dal Tribunale, con argomentazioni riprese e condivise dalla Corte territoriale – “la prova certa della falsa indicazione, in contabilità, di causali di spese, destinate a fini privati e diversi da quelli indicati: falsa attestazione che inficia, evidentemente, la veridicità del rendiconto di esercizio basato su quelle scritture, di cui è documento di sintesi” (pag. 42).

7.4. La Corte territoriale, aderendo alle argomentazioni del primo giudice, ha ben evidenziato un altro profilo che assume grande rilievo per confermare la sussistenza degli artifizi e raggiri cui ricorsero Bossi e Belsito per la redazione dei rendiconti relativi agli anni 2008 e 2009, provocando la induzione in errore dei revisori parlamentari e, quindi, dei Presidenti di Camera e Senato: si tratta delle relazioni redatte dai componenti del Comitato di controllo di secondo livello che, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 2 del 1997, n. 2, richiamato dalla legge n. 157 del 1999, dovevano essere allegate ai rendiconti.

Invero la norma faceva riferimento ai “revisori dei conti”, organo che pure era previsto nello Statuto della Lega Nord, ma che fu estromesso a beneficio di un organismo non previsto dallo Statuto, i cui componenti erano nominati dal segretario federale, che ottenne la loro disponibilità a rilasciare certificazioni di conformità contabile del tutto false.

Infatti, nelle relazioni – ha evidenziato la sentenza impugnata (pag. 94) – si dava conto dello svolgimento di “appropriate indagini ed interrogazioni negli ambienti amministrativi della LEGA NORD” e del controllo di “diversi documenti, alcuni rendiconti riepilogativi ed, a campione schematico, i metodi di registrazione della prima nota”; si attestava che il bilancio consuntivo risultava “redatto con chiarezza ed in modo veritiero”; si esprimeva una “considerazione tecnica” positiva per avere i (cosiddetti) revisori “analizzato l’attendibilità delle scritture”.

Ha ricordato la Corte che dette indagini, verifiche ed analisi mai furono eseguite dai componenti del Comitato di controllo, come ammesso anche dagli stessi tre imputati.

Con fondamento nella sentenza impugnata si è rimarcato “l’affidamento dell’organo di controllo pubblico nel riscontro di conformità alla legge dell’informativa contabile trasmessa dal partito, atteso che la mancata attribuzione di specifici poteri istruttori non consentiva interventi diretti di controllo”.

In altri termini, il Collegio dei revisori parlamentari, proprio perché non poteva spingersi in un’analisi nel merito del rendiconto e degli atti allegati, faceva affidamento, ai fini del «controllo di conformità alla legge», sulla relazione dei revisori dei singoli partiti e sull’attestazione di controlli interni agli stessi, intesi a verificare la corretta redazione dei bilanci a fronte di una regolare tenuta contabile.

Detta relazione, dunque, ebbe un ruolo determinante nella concessione del nulla osta da parte dei revisori pubblici e – come si dirà nel successivo paragrafo – appare dirimente anche ai fini della questione riguardante la qualificazione giuridica della condotta.

Volendo esprimere un giudizio controfattuale, non pare dubbio che il nulla osta mai sarebbe stato concesso ed il rimborso mai erogato qualora nella relazione dei revisori interni si fosse attestato quanto effettivamente verificatosi, vale a dire che nessun tipo di indagine, controllo e verifica del rendiconto e della contabilità del partito era mai stato effettuato.

7.5. Nel ricorso presentato nell’interesse di Belsito si è sostenuto anche che la sentenza impugnata “non ha considerato che le spese contestate come illecitamente rimborsate con i contributi pubblici sono state in realtà sostenute con i contributi volontari degli aderenti al partito politico”, possibilità – si è precisato nel corso della discussione – conseguente anche alla presenza di un unico conto corrente sul quale confluivano finanziamenti pubblici e contributi volontari dei privati.

La circostanza di fatto risulta smentita dalla motivazione della Corte, rispetto alla quale il ricorrente non ha neppure dedotto un travisamento della prova (documentale): si legge infatti, nella sentenza impugnata, che “è proprio sulle somme provenienti dai finanziamenti pubblici che si è concentrata l’attività di indebita appropriazione, risultando dalle consulenze che i prelievi, destinati ad alimentare la cassa in contanti della LEGA NORD, effettuati dal tesoriere BELSITO, tramite distinte o assegni per importi unitari, solitamente di C 20.000 (importo massimo stabilito dalle leggi antiriciclaggio dell’epoca) erano effettuati in massima parte sui due conti correnti intestati alla LEGA NORD alimentati dai rimborsi (Banco di Napoli su cui sono affluiti i rimborsi elettorali negli anni 2008 e 2009 e Banca Aletti Ag. Genova su cui sono affluiti i rimborsi negli anni 2010 e 2011).

Sono stati inoltre accertati, nel periodo in esame, da parte di BELSITO, prelievi dai conti suddetti, privi di documenti giustificativi che ne attestino l’effettiva destinazione per circa 740.000 euro – al netto delle somme utilizzate per alimentare la cassa – oltre a bonifici in proprio favore”.

Si è inteso riportare il dato solo per completezza, risultando lo stesso irrilevante rispetto alla questione in esame, che la difesa ha erroneamente impostato, facendo riferimento alle “spese contestate come illecitamente rimborsate”.

Come si è visto, infatti, all’affermazione di responsabilità di Belsito per i reati di truffa aggravata – in particolare per quello consumato di cui al capo b) – le sentenze di merito sono giunte rimanendo aderenti alla ipotesi accusatoria, cristallizzata nel capo d’imputazione, secondo il quale il tesoriere ed il segretario del partito ottennero (nel 2011) la liquidazione del rimborso elettorale, subordinata per legge “all’accertamento della regolarità del rendiconto”, presentando un “irregolare rendiconto riguardante l’esercizio annuale 2009” con “false informazioni circa la destinazione delle spese sostenute”, corredato della relazione redatta dai componenti del Comitato di controllo di secondo livello “con la falsa attestazione della regolarità del rendiconto stesso certificata il 24.6.2010, nonostante gli stessi componenti avessero di fatto volontariamente omesso ogni attività di revisione o controllo”.

I giudici di merito, dunque, non hanno individuato e sanzionato le spese effettuate per finalità estranee all’attività del partito (integranti condotte di appropriazione indebita in danno della Lega Nord, oggetto del già citato processo svoltosi presso l’autorità giudiziaria milanese), ipotizzando l’illiceità del rimborso di dette spese, bensì hanno preso atto che, in base alla più volte menzionata disposizione di legge (art. 1, comma 8, della legge n. 157 del 1999), la presentazione di un rendiconto irregolare, mai emendato, accompagnato da una mendace relazione dei revisori, avrebbe comportato la sospensione della erogazione dell’intero contributo, da liquidare nell’anno 2011, il cui pagamento, dunque, ha procurato un ingiusto profitto per il partito politico, con correlativo danno per lo Stato.

Peraltro, ricordato che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436), si è affermato, proprio in una fattispecie di truffa aggravata, consistita nell’allegazione di un documento con firma apocrifa alla domanda di contributo all’Unione Europea, che il vantaggio ingiusto generato dalla condotta decettiva è «l’intero” contributo lucrato e non […] solo una parte di esso» (nel caso di specie quella riferibile ai terreni riconducibili alla parte del contratto falsificata: così Sez. 2, n. 53650 del 05/10/2016, Maiorano, Rv. 268854; in senso conforme, di recente, v. Sez. 2, n. 25980 del 04/05/2018, Pezzini, n.m.).

8. Anche in ordine alla qualificazione giuridica del medesimo fatto, contestato al capo b), per il quale Bossi e Belsito sono stati condannati nei giudizi di merito, la sentenza impugnata è immune dai vizi denunciati, avendo ricondotto le condotte del segretario e del tesoriere del partito nell’alveo di cui all’art. 640 bis cod. pen., che costituisce una circostanza aggravante del delitto di truffa previsto dall’art. 640 cod. pen. e non una figura autonoma di reato (Sez. U, n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, Pizzuto, Rv. 249104; Sez. U, n. 26531 del 26/06/2002, Fedi, Rv. 221663; più di recente v. Sez. 3, n. 44446 del 15/10/2013, Runco, Rv. 257629).

Riprendendo l’elaborazione compiuta sul tema delle Sezioni unite della Suprema Corte (Sez. U, n. 7537 del 16/12/2010, cit.; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962), si è da ultimo ribadito che «il tratto differenziale tra la fattispecie di cui all’art. 316 bis cod. pen. e quelle di cui agli artt. 316 ter e 640 bis cod. pen. è rinvenibile nella violazione del vincolo di destinazione che grava sulle erogazioni ottenute, e che pacificamente non grava sulle erogazioni a fini assistenziali, mentre le differenze tra la fattispecie di cui all’art. 316 ter e il delitto di truffa di cui all’art. 640 bis cod. pen. discendono dai connotati delle condotte nel senso che la condotta di cui all’art. 316 ter cod. pen. non implica la induzione in errore o un danno per l’ente erogatore sicché il reato è ravvisabile in quelle situazioni del tutto marginali, come quella del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, perché il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l’effettivo accertamento da parte dell’erogatore dei presupposti del singolo contributo, ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche, sicché, in questi casi, l’erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente» (Sez. 6, n. 51962 del 02/10/2018, Muggianu, Rv. 274510).

Avuto riguardo a questi principi, risulta palese l’infondatezza della tesi sostenuta nel ricorso di Bossi circa la riconducibilità della condotta ad una ipotesi di malversazione ai danni dello Stato (art. 316 bis cod. pen.), che presuppone vincoli di destinazione dei rimborsi erogati, che – come si è detto – sono pacificamente insussistenti.

Non è fondato neppure il rilievo dello stesso ricorrente e di Belsito circa la integrazione, nel caso di specie, del reato previsto dall’art. 316 ter cod. pen.: in proposito assume valore decisivo il già descritto ruolo rivestito dalla relazione dei revisori interni ai fini della induzione in errore di quelli parlamentari.

Ha correttamente ed efficacemente sostenuto la Corte territoriale che l’artificiosa redazione di rendiconti apparentemente regolari, in realtà esponenti fatti in parte non rispondenti al vero perché “basati su false annotazioni contabili, prive di pezze giustificative, nel contesto di una tenuta contabile gravemente lacunosa e caotica, artatamente predisposta in modo da occultare le appropriazioni indebite, supportata dalla rappresentazione di una apparente situazione di regolarità attraverso la trasmissione di relazioni dei revisori dei conti, componenti del Comitato di Controllo di Secondo Livello, ideologicamente false perché attestanti l’esecuzione di controlli in realtà mai effettuati ed una regolare ed attendibile tenuta contabile, in realtà mai verificata, integra gli estremi di una condotta connotata da fraudolenza perché idonea a manipolare la realtà, rappresentando cose non vere, non solo attraverso una falsa dichiarazione, ma predisponendo un sistema ingannatorio più complesso, funzionale ad indurre in errore l’organo preposto al controllo, ingenerando l’affidamento sulla sussistenza dei requisiti necessari alla erogazione del contributo” (pag. 102).

9. La presenza delle parti civili Senato della Repubblica e Camera dei Deputati ha imposto, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., l’accertamento in ordine alla sussistenza, agli effetti della responsabilità civile, del reato ex art.640 bis cod. pen. ascritto a Bossi e Belsito al capo b), così come di quello contestato al capo a), pur in presenza della causa di estinzione della prescrizione, operante nel caso di specie a fronte di ricorsi che in parte hanno proposto motivi infondati (e non manifestamente infondati), che avrebbero comportato il rigetto dei ricorsi, la cui sola inammissibilità – com’è noto – preclude la formazione di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare ora l’estinzione dei reati per prescrizione a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., principio statuito dalle Sezioni unite della Suprema Corte in numerose pronunce (n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822; n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966; n. 26102 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818; n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164; n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266).

9.1. Considerato il periodo di sospensione (di 39 giorni), la prescrizione del reato, consumato 1’8 agosto 2011, è maturata il 19 marzo 2019, già prima della presentazione dei ricorsi per cassazione, ai sensi degli artt. 157 e 161, secondo comma, cod. pen., dovendosi ovviamente considerare la pena edittale massima prevista per il delitto ex art. 640 bis cod. pen. all’epoca di commissione del fatto e non quella attuale, inasprita dall’art. 30, comma 1, della legge 17 ottobre 2017, n. 16 (art. 2, quarto comma, cod. pen.).

Ricordato che il reato sub a), ascritto a Bossi, riguardante i rimborsi erogati nell’anno 2010, è stato dichiarato estinto per prescrizione dalla Corte di appello, rileva il Collegio che è decorso il termine massimo ex art. 161, secondo comma, cod. pen. anche per la tentata truffa aggravata contestata al capo c), pure oggetto dei ricorsi proposti da Bossi e Belsito.

Infatti, già il capo d’imputazione, pur recando alla fine la data dell’Il giugno 2012 quale quella di commissione del delitto, operava una chiara distinzione, laddove così precisava: “Reato commesso da Umberto BOSSI e Francesco-BELSITO attraverso la sottoscrizione e presentazione in data 27.7.11 del rendiconto, con la consapevolezza della sua irregolarità, e da Stefano ALDOVISI, Diego SANAVIO e Antonio TURCI con la falsa attestazione della regolarità del rendiconto stesso datata 24.6.2011, riconfermata in data 11.6.2012 nella lettera inviata al Collegio dei Revisori dei Bilanci dei Partiti o Movimenti Politici, nonostante gli stessi avessero di fatto volontariamente omesso ogni revisione o controllo”.

La Corte territoriale, poi, nella motivazione della sentenza, ha opportunamente evidenziato la distinzione fra la condotta del segretario e del tesoriere, da una parte, e quella dei tre componenti del Comitato di controllo di secondo livello dall’altra.

Ha correttamente osservato il giudice di appello che “le intervenute dimissioni, nell’aprile 2012, di BOSSI e BELSITO segnano una cesura rispetto alle vicende successive, che hanno coinvolto i nuovi organi del partito […], pertanto, il fatto loro contestato deve arrestarsi alla data di trasmissione degli atti al Parlamento [27 luglio 2011], condotta artificiosa in quel momento pienamente integrata e idonea all’induzione in errore, come avvenuto negli anni precedenti” (pag. 106).

Pertanto, escluso qualsiasi ruolo svolto da Bossi e Belsito nella dichiarazione di conferma dell’11/6/2012, sottoscritta dai tre revisori quando da due mesi erano subentrati il nuovo segretario federale ed il nuovo segretario amministrativo federale, la data di commissione della tentata truffa aggravata – per Bossi e Belsito – va individuata nel 27 luglio 2011; il reato, quindi, è estinto per prescrizione sin dal 7 marzo 2019.

Ne consegue l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza impugnata nei confronti di Umberto Bossi e Francesco Belsito in ordine ai reati loro ascritti ai capi b) e c) perché estinti per prescrizione.

9.2. L’accertamento della sussistenza dei reati comporta il rigetto dei ricorsi, agli effetti civili, risultando infondate – come si dirà nel paragrafo successivo – anche le doglianze proposte specificamente sul tema.

La declaratoria di prescrizione comporta la eliminazione della confisca per equivalente, disposta dalla Corte di appello nei confronti di Bossi e Belsito per il reato ex art. 640 bis cod. pen., loro ascritto al capo b), in conformità al principio statuito dalle Sezioni unite, secondo il quale il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435).

Per contro, la stessa sentenza Lucci ha statuito – come ricordato anche nella sentenza impugnata – che «il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 1, cod. pen., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell’art. 322- ter cod. pen., la confisca del prezzo o del profitto del reato sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato». Questo principio è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (ex plurimis v. Sez. 3 n. 14743 del 20/02/2019, Amodio, Rv. 275392; Sez. 3, n. 14005 del 04/12/2018, dep. 2019, Bogni, Rv. 275356; Sez. 4, n. 40783 del 18/07/2018, W., Rv. 274421; Sez. 5, n. 1012 del 29/11/2017, dep. 2018, D’Agostino, Rv. 271923; Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791).

Da ultimo si è anche osservato che i criteri ermeneutici indicati dalle Sezioni unite sono stati recepiti dal legislatore, mediante l’introduzione nel codice di rito dell’art. 578, inserito dall’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21 sulla riserva di codice, né contrastano con la pronuncia della Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. contro Italia (Sez. 3, n. 5936 del 08/11/2018, dep. 2019, Basile, Rv. 274860).

Resta ferma, pertanto, la statuizione, che peraltro non ha formato oggetto specifico di alcuna impugnazione, relativa alla confisca diretta del profitto dei reati (la somma di 48.969.617 euro, pari ai rimborsi erogati negli anni 2010, 2011 e 2012), disposta nei confronti della Lega Nord, che dette somme percepì in ragione delle condotte delittuose poste in essere dal suo legale rappresentante o da altro organo dallo stesso incaricato, cosicché ai fini della confisca – come anche in questo caso correttamente affermato dai giudici di merito – il partito non può essere considerato estraneo al reato (v. Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647 nonché, da ultimo, Sez. 3, n. 17840 del 05/12/2018, dep. 2019, Limetti, Rv. 275599).

10. Viene esaminata ora la questione inerente alle statuizioni civili in quanto specificamente posta solo nei ricorsi di Bossi, di Turci (con un motivo sovrapponibile, essendosi per il resto censurate dette statuizioni sulla base della ritenuta insussistenza del reato) e di Aldovisi (per il quale, però, la sentenza impugnata – come si vedrà – viene annullata senza rinvio).

La condanna degli imputati al risarcimento del danno in favore delle parti civili è stata generica, con la specificazione, quanto al danno patrimoniale, “che per ciascun imputato – fermo il limite dell’ammontare per il quale non verrà eseguita la confisca – il risarcimento del danno- non potrà comunque-superare quello derivante dal reato rispettivamente ascritto”.

La comune doglianza proposta nei ricorsi di Bossi e di Turci in ordine alla quantificazione del danno patrimoniale (da individuare – secondo i ricorrenti – nelle sole somme oggetto delle “condotte di appropriazione indebita in danno del partito”) non ha ragion d’essere, in quanto i giudici di merito non hanno operato alcuna quantificazione.

La deduzione, comunque, è infondata, alla luce delle considerazioni svolte in precedenza (paragrafo 7.5.): la presentazione di rendiconti irregolari avrebbe comportato la mancata erogazione degli interi rimborsi, dovendo a questi riferirsi, dunque, il danno subito dallo Stato in conseguenze delle truffe commesse. Il secondo motivo proposto nel ricorso di Bossi, riguardante la condanna al pagamento di una provvisionale, in relazione al danno non patrimoniale subito dalle parti civili, è inammissibile.

Secondo una risalente pronuncia delle Sezioni unite, «il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento» (Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep. 1991, Capelli Rv. 186722).

Trattasi di un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486; Sez. 2 n. 49016 del 06/11/2014, Patricola, Rv. 261054; Sez. 6 n. 50746 del 14/10/2014, G.), al quale il Collegio aderisce, espresso anche in recentissime pronunce della Suprema Corte (non nnassimate: v. Sez. 6, n. 28858 del 03/04/2019, Paggi; Sez. 5, n. 19700 del 05/03/2019, Oleari; Sez. 1, n. 29845 del 19/06/2018, dep. 2019, Raeli).

11. In ordine al reato di appropriazione indebita contestato a Francesco Belsito al capo d), il ricorrente ha proposto solo le questioni di rito in precedenza risolte (nei paragrafi 3, 4 e 5).

Rilevata, dunque, l’infondatezza dei motivi già esaminati, va rigettato il ricorso proposto quanto all’affermazione di responsabilità dell’imputato, non essendo decorso il tempo massimo necessario a prescrivere.

La prescrizione, infatti, sarebbe maturata 1’8 agosto 2019, alla luce della data di consumazione del reato (il 30/12/2011), considerati i 39 giorni di sospensione durante il giudizio di primo grado (dal 30/11/2015 al 10/12/2015 e -dal 15/6/2017 al 14/7/2017) ed il termine di sette anni e sei mesi rilevante per il calcolo, in ragione di quanto disposto dagli artt. 157 e 161, secondo comma, del codice penale.

Va altresì ricordato che, ai sensi dell’art. 14 cod. pen., il decorso del termine di prescrizione inizia, per i reati consumati, dal giorno in cui si è esaurita la condotta illecita e, quindi, il computo incomincia con le ore zero del giorno successivo a quello in cui si è manifestata compiutamente la previsione criminosa e termina alle ore ventiquattro del giorno finale, calcolato secondo il calendario comune, senza tenere conto dei giorni effettivi di cui è composto l’anno o il mese (Sez. 3, n. 43628 del 25/06/2018, Fumarola, n.nn.; Sez. 6, n. 12392 del 31/01/2018, Russo, n.nn.; Sez. 3, n. 38840 del 01/02/2017, Mor, n.nn.; Sez. 5, n. 23259 del 29/04/2015, Richichi, Rv. 263650; Sez. 5, n. 21497 del 06/05/2010, Figliuzzi, Rv. 247413).

Tuttavia, la sentenza impugnata va annullata in punto di trattamento sanzionatorio, considerato che la pena base è stata dalla Corte di appello (correttamente) determinata avuto riguardo al più grave reato ex art. 640 bis cod. pen., contestato al capo b), e che per il reato satellite di appropriazione indebita aggravata è stato apportato un aumento in continuazione (di un anno di reclusione).

Le Sezioni unite della Suprema Corte hanno dato un’ampia interpretazione del disposto dell’art. 620, comma 1 lett. I), cod. proc. pen., come modificato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, statuendo che la Corte di cassazione «pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando perciò necessari ulteriori accertamenti di fatto» (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831; in senso conforme cfr., ad es., Sez. 6, n. 12391 del 18/01/2018, Pupo, Rv. 272458; Sez. 2, n. 4594 del 17/01/2018, Cantile, Rv. 272019).

Nel caso di specie, tuttavia, si tratta di rideterminare una pena base per un reato che all’epoca di commissione del fatto era punito, oltre che con la multa fino a 1.032 euro, con la reclusione per una durata minima di quindici giorni (art. 23, primo comma, cod. pen.) ed una massima di tre anni; occorre poi stabilire l’aumento per le due circostanze aggravanti (art. 61, primo comma nn. 7 e 11, cod. pen.) in base ai criteri previsti dagli artt. 63, secondo comma, e 64, primo comma, del codice penale.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la graduazione del trattamento sanzionatorio, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra in un tipico potere discrezionale del – giudice di merito, che lo esercita, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., tant’è che nel giudizio di cassazione è inammissibile la censura che miri ad una nuova valutazione della congruità della pena inflitta, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 4, n. 34418 del 16/07/2019, Acquaviva, n.m.; Sez. 2, n. 39716 del 12/07/2018, Cicciù, Rv. 273819, in motivazione; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142; Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, Pacchiarotti, Rv. 255825).

Non vi sono i presupposti, dunque, per poter rideterminare in questa sede la pena per il reato di appropriazione indebita pluriaggravata, compito che va necessariamente demandato al giudice di merito, che fornirà adeguata motivazione in ordine all’esercizio del proprio potere discrezionale, in conformità alle norme ora richiamate.

La sentenza impugnata, pertanto, dichiarata irrevocabile l’affermazione di responsabilità, va annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Genova.

La richiesta dal Procuratore generale di questa Corte in ordine all’applicazione della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici è superata in ragione dell’annullamento della sentenza; per completezza osserva il Collegio che – diversamente da quanto opinato dallo stesso P.G. nel corso della requisitoria – la Corte di appello, ridotta la pena per la truffa aggravata sub b) da tre anni a due anni e tre mesi di reclusione, ha correttamente eliminato la pena accessoria: infatti, secondo il diritto vivente, per la determinazione delle pene accessorie, in caso di reato continuato, si deve far riferimento all’entità della pena principale inflitta per il reato più grave e non già a quella individuata dopo l’aumento per la continuazione (Sez. 1, n. 8216 del 06/12/2017, dep. 2018, Ngwoke, Rv. 272408; Sez. 5, n. 28584 del 14/03/2017, Di Corrado, Rv. 270240; Sez. 7, n. 48787 del 29/10/2014, Di Tana, Rv. 264478; Sez. 1, n. 14375 del 05/03/2013, Aquila, Rv. 255407; da ultimo v. Sez. 2, n. 24483 del 22/05/2019, Ogbebor, n.nn.).

12. Il primo motivo di ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova, inerente all’assoluzione di Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci, in relazione ai reati di cui capi a), b) e c), limitatamente al fatto del 27/7/2011, è inammissibile per carenza di interesse, come ritenuto anche dal Procuratore generale presso questa Corte.

Si è visto in precedenza che detti reati sono oggi estinti per prescrizione.Le Sezioni unite hanno affermato che l’interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità dell’esercizio del diritto d’impugnazione, «deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell’attualità, deve sussistere non soltanto all’atto della proposizione dell’impugnazione, ma persistere fino al momento della decisione, perché questa possa potenzialmente avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell’impugnazione» ed hanno richiamato, con riferimento a quest’ultimo aspetto, la categoria della “carenza d’interesse sopraggiunta”, il cui fondamento giustificativo «risiede nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, dell’interesse all’impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, che assorbe e supera la finalità perseguita dall’impugnante» (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251694).

Sulla scorta di tale pronuncia, si è ribadito che, ai fini della sussistenza del suddetto interesse, il mezzo d’impugnazione deve essere funzionale al perseguimento di un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche realmente favorevole rispetto alla parte ricorrente, condizione che – secondo costante ed anche recentissima giurisprudenza di legittimità – non sussiste quando la vicenda oggetto della pronuncia sia ormai esaurita, per essere il reato estinto per prescrizione, a nulla rilevando l’affermazione in astratto di un principio di diritto da applicare nel futuro (Sez. 4, n. 16029 del 28/02/2019, Briguglio, Rv. 275621; Sez. 6, n. 2025 del 12/12/2018, dep. 2019, Celsi, Rv. 274844; Sez. 1, n. 2209 del 10/01/2018, Conti, Rv. 272367; Sez. 2, n. 30276 del 11/05/2017, Franzese, Rv. 270304; Sez. 6, n. 33573 del 20/05/2015, Pinelli, Rv. 264996).

Risulta insuperabile, dunque, il rilievo in ordine alla mancanza di un concreto ed attuale interesse alla modifica della sentenza di proscioglimento, tale non essendo certamente quello inteso “ad evitare statuizioni in contrasto insanabile”, peraltro insussistenti, come evidenziato dal P.G. nel corso della requisitoria e nella memoria presentata da Aldovisi.

Invero, alla luce di una puntuale e non contestata ricostruzione in fatto, la Corte di appello ha evidenziato la distinzione fra “le vicende che hanno condotto alla erogazione dei rimborsi elettorali negli anni 2010 e 2011 (capi a) e b) relativi alla presentazione dei rendiconti degli anni 2008 e 2009) e al tentativo di erogazione di tali rimborsi con la presentazione del rendiconto dell’anno 2010, avvenuta il 27.7.2011 (prima parte del capo c) rispetto a quelle che hanno condotto nel novembre 2012 alla erogazione dei rimborsi (capo c – relativamente all’invio della relazione in data 11.6.12 a firma dei tre componenti del Comitato di Secondo Livello – e capo c) bis relativo all’invio il 19.10.12 della dichiarazione, sottoscritta dai soli SANAVIO- e TURCI, che ha – consentito lo sblocco dell’erogazione dei rimborsi elettorali) e alla diversa valenza che le predette false relazioni provenienti dagli imputati hanno avuto sulla erogazione dei rimborsi nell’anno 2012, rispetto agli anni precedenti.

Ciò in ragione del diverso iter seguito nella stessa sede parlamentare, per iniziativa del Collegio dei Revisori pubblici, dopo che era ormai divenuto notorio che nei confronti del Segretario Amministrativo BELSITO erano in corso accertamenti interni per l’utilizzo improprio di soldi del partito, si erano ormai dimessi sia il Segretario Federale BOSSI che BELSITO (entrambi hanno cessato le cariche nell’aprile 2012), erano uscite notizie di stampa su possibili violazioni di legge nella redazione dei bilanci da parte di diversi partiti politici” (pag. 74).

13. La sentenza impugnata va annullata senza rinvio in relazione alla condanna di Stefano Aldovisi per la tentata truffa di cui al capo c), avuto riguardo al fatto dell’il. giugno 2012 (conferma dell’attestazione della regolarità del rendiconto 2010), risultando fondato il motivo di ricorso relativo alla inidoneità dell’atto a trarre in inganno i revisori pubblici e, conseguentemente, i Presidenti delle Camere.

Secondo il diritto vivente, in tema di tentativo, gli atti possono essere ritenuti idonei quando, valutati ex ante ed in concreto (criterio della cosiddetta prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo, il giudice, sulla base della comune esperienza dell’uomo medio, possa ritenere che quegli atti – indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei – fossero tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata.

L’idoneità degli atti, in sostanza, va valutata ex ante in relazione alla condotta originaria dell’agente e non con riferimento alle circostanze impreviste che abbiano impedito il verificarsi dell’evento o il compimento dell’azione: essa è criterio di determinazione dell’adeguatezza causale, intesa come attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 33100 del 01/03/2018, S., Rv. 274590, in motivazione; Sez. 6, n. 17988 del 6/02/2018, Mileto, Rv. 272810; Sez. 2, n. 24302 del 04/05/2017, Gentile, Rv. 269963; Sez. 2, n. 52189 del 14/09/2016, Gravina, Rv. 268644; Sez. 1, n. 36726 del 02/07/2015, L.M., Rv. 264567).

La Corte ha ricostruito puntualmente i fatti verificatisi nei primi mesi dell’anno 2012, già ricordati, a seguito dei quali il Collegio dei revisori parlamentari inviò ai revisori di tutti i partiti e movimenti politici una lettera, o datata 22/5/2012, con la quale, “considerata la evidente carenza riscontrata nel sistema dei controlli”, i destinatari della missiva venivano invitati ad integrare la “relazione sul bilancio al 31 dicembre 2010, con le seguenti specificazioni: una espressa dichiarazione di avvenuta verifica della regolare tenuta della contabilità sociale e della corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili; una espressa dichiarazione della corrispondenza del bilancio di esercizio alle risultanze delle scritture contabili e della conformità del bilancio di esercizio alle norma che lo disciplinano; una espressa dichiarazione della conformità delle spese effettivamente sostenute, e indicate in bilancio, alla documentazione prodotta a prova delle spese stesse”.

In risposta a detta specifica e dettagliata richiesta, i tre componenti del Comitato di controllo, con la dichiarazione dell’11/6/2012, si limitarono a confermare “i contenuti della propria relazione del 24 giugno 2011, relativa al bilancio consuntivo dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2010”, e a ribadire che, a loro parere, “sulla base dei riscontri campionari effettuati”, detto bilancio era stato “redatto con chiarezza e veridicità”.

Con rapporto del 9/7/2012 i revisori pubblici ritennero inidonea detta risposta e conseguentemente il Presidente della Camera dei Deputati, con lettera del 25/7/2012, comunicò al segretario amministrativo federale della Lega Nord la sospensione di ogni rimborso elettorale, ai sensi dell’art. 1, comma 8, della legge n. 157 del 1999, alla luce del giudizio espresso dal Collegio dei revisori parlamentari circa l’assoluta carenza, nella risposta dei revisori del partito, delle dichiarazioni richieste dallo stesso Collegio (“manca totalmente delle affermazioni richieste da questo Collegio con propria lettera del 22/5/2012”).

Nella sentenza impugnata, richiamata anche la deposizione resa dal Presidente del Collegio dei revisori Tommaso Di Tanno, si è evidenziato che l’iniziativa dagli stessi assunta di richiedere “una assunzione di responsabilità della LEGA NORD rendendo in sostanza una dichiarazione di conformità alla legge della tenuta contabile, in un contesto di notizie che facevano dubitare di tale regolarità e che avevano allarmato l’organo di controllo, riflette la rappresentazione da parte dei Revisori pubblici del rischio di induzione in errore rispetto al rendiconto sottoscritto dagli organi competenti (BOSSI e BELSITO) e alla informazione contabile allegata, determinato dalla scarsa incisività del potere di controllo formale fondato essenzialmente sull’affidamento nella veridicità dei rendiconti trasmessi dal partito politico e nelle relazioni allegate, al quale l’organo pubblico ha reagito richiedendo al partito una dichiarazione espressa di sussistenza dei requisiti contabili e di corrispondenza dei fatti esposti nel rendiconto alla documentazione contabile, subordinando il rilascio del nulla osta alla presa d’atto della dichiarazione” (pag. 115).

La stessa Corte territoriale, dunque, ha affermato in sostanza che in quel momento – come sostenuto nel ricorso di Aldovisi – i rimborsi -elettorali sarebbero stati erogati solo in presenza delle richieste dichiarazioni integrative, considerata la particolare situazione della Lega Nord, che aveva provocato la comunicazione dei revisori pubblici ai Presidenti delle Camere del 21/3/2012 e successivamente la richiesta del 22/5/2012.

Confrontando la specificità della richiesta, con la quale venivano sollecitate tre “espresse dichiarazioni”, e la estrema genericità della lettera dell’11/6/2012, del tutto elusiva, si può affermare, seguendo il criterio della prognosi postuma, che la risposta dei revisori interni, priva delle dichiarazioni richieste, alle quali – ha scritto il giudice di appello – era subordinato il rilascio del nulla osta, non avrebbe avuto alcuna possibilità di conseguire lo scopo, costituito dall’erogazione del rimborso per l’anno 2012.

Si trattò, dunque, di un atto inidoneo; in proposito va rimarcato che sul punto è mancata del tutto la motivazione della sentenza impugnata, limitatasi ad affermare la sussistenza del tentativo punibile, “presentando [la dichiarazione dell’il. giugno 2012] i caratteri della idoneità e della direzione inequivoca della condotta al compimento dell’evento” (pag. 117).

La sentenza, pertanto, va annullata senza rinvio nei confronti di Aldovisi per il reato sub c), per il quale vi è stata condanna in relazione al fatto dell’11/6/2012, perché il fatto non sussiste, con la conseguente caducazione delle statuizioni civili a carico dell’imputato.

Anche nel ricorso di Antonio Turci è stato proposto analogo motivo, in relazione al quale, tuttavia, vi è una manifesta carenza d’interesse, avendo il reato tentato di cui al capo c) perso ogni autonoma rilevanza per lo stesso imputato e per Diego Sanavio, in quanto assorbito in quello consumato di cui al capo c -bis).

14. In relazione alla condanna di Turci e Sanavio per il reato di cui al capo c-bis), riqualificato dalla Corte di appello in quello ex artt. 110, 316 ter, 61 n. 7 cod. pen., i motivi proposti dagli imputati e dal Procuratore generale della Corte di appello di Genova non sono fondati.

14.1. Il comune e principale motivo di ricorso dei due imputati, inerente alla ritenuta mancanza del dolo nella fattispecie concorsuale dell’art. 316 ter cod. pen., è infondato.

La sentenza impugnata ha ricordato che, dopo la sospensione della erogazione del rimborso disposta dai Presidenti delle Camere e comunicata con la ricordata missiva del 25/7/2012 al segretario amministrativo Stefani, vi fu una risposta di quest’ultimo, cui seguirono contatti informali fra i Presidenti delle due ( Camere ed i vertici della Lega Nord: in data 19/10/2012 il nuovo segretario federale del partito, Roberto Maroni, “in spirito di leale collaborazione fra le istituzioni”, trasmise alla Camera dei Deputati un verbale di riunione del 16/10/2012, a firma di Sanavio e Turci, definiti nella missiva di accompagnamento “già componenti del Collegio dei Revisori della Lega Nord”, nel quale erano contenute le integrazioni al rendiconto richieste con la lettera del 22/5/2012. L’8 novembre 2012 fu erogato il rimborso per l’anno in corso, fondato sul rendiconto del 2010, per l’importo di 8.882.891 euro.

Nella dichiarazione del 16 ottobre 2012, Sanavio e Turci, qualificatisi come “già membri del Comitato di Controllo di Secondo Livello per la certificazione del bilancio di esercizio del 2010”, premesso di avere preso visione del contenuto della lettera del Presidente della Camera con la quale veniva comunicata alla Lega Nord la sospensione dei rimborsi elettorali, confermarono la relazione già trasmessa in precedenza in allegato al rendiconto 2010, precisando il contenuto valutativo della relazione sul bilancio 2010, reso sulla base di “verifiche campionarie, degli elementi probativi a supporto dei saldi e delle informazioni contenute nel rendiconto di esercizio medesimo, nonché nella valutazione della adeguatezza e correttezza dei criteri contabili utilizzati”, ed attestarono:

“1) di aver verificato a campione la regolare tenuta della contabilità sociale e l’attendibilità delle scritture contabili;

2) che il bilancio di esercizio in esame corrisponde alle risultanze contabili ed è conforme alle norme che lo disciplinano;

3) che le spese effettivamente sostenute, e indicate in bilancio, verificate a campione, risultano conformi alla documentazione prodotta a prova delle stesse”.

La motivazione della Corte territoriale a sostegno dell’affermazione di responsabilità dei due imputati è logica, coerente ed immune da vizi proprio in quanto fondata sull’analitica esposizione della rilevante diversità delle situazioni nelle quali i tre componenti del Comitato di controllo di secondo livello attestarono la regolarità dei rendiconti del 2008, 2009 e 2010, con le generiche dichiarazioni del 27/6/2009, 24/6/2010 e 24/6/2011 (condotte per le quali vi è stata sentenza di assoluzione in appello) e quella in cui maturò la nuova attestazione del 16 ottobre 2012, grazie alla quale fu poi sbloccato il finanziamento per l’anno in corso.

E’ priva di fondamento l’argomentazione di Sanavio, secondo la quale la dichiarazione resa dallo stesso e da Turci fu sempre la stessa, con il medesimo profilo di falsità rilevabile, limitato alla sola attestazione di avere svolto controlli che in realtà non erano mai stati effettuati, così come il medesimo sarebbe stato l’atteggiamento soggettivo.

Come si è detto, nell’aprile del 2012 lo scenario era radicalmente mutato: le precise notizie di- stampa, le perquisizioni e i sequestri presso la sede della Lega, le dimissioni di Bossi e Belsito, l’incarico dei nuovi vertici alla società di revisione PwC erano dati tutti pacificamente noti ai due imputati e furono all’origine della richiesta rivolta dai revisori parlamentari con la lettera del 22/5/2012 (elusa con la “non risposta” dell’11/6/2012), nella quale pure detto scenario era implicitamente evocato, laddove era premesso che le vicende dei giorni precedenti avevano “posto in chiaro l’aspettativa della collettività ad una trasparente gestione dei fondi (pubblici) dedicati allo svolgimento di attività politiche”.

Il contenuto della dichiarazione del 16 ottobre 2012, sopra riportato, è assai specifico e soprattutto è del tutto falso, avendo gli imputati attestato l’esecuzione di controlli mai effettuati e confermato gli esiti di una verifica, mai svolta, in termini di regolare tenuta della contabilità sociale e attendibilità delle scritture contabili, e di corrispondenza del bilancio di esercizio alle risultanze delle scritture e alla documentazione a supporto.

La sola consapevolezza della falsità di dette specifiche dichiarazioni integra il dolo richiesto dalla norma incriminatrice, considerato che – come efficacemente evidenziato nella sentenza impugnata (pag. 119) – “i Revisori pubblici avevano preteso una assunzione di responsabilità dei revisori del partito, e attraverso loro dello stesso partito politico – in presenza di una situazione che destava forti sospetti sulla regolarità del rendiconto trasmesso da BOSSI e BELSITO e sulla effettività degli adempimenti contabili – in mancanza della quale non sarebbe stato rilasciato il nulla osta alla erogazione”.

Nel ricorso di Turci, a proposito della illegittimità della richiesta formulata ai partiti dal Presidente della Camera, a seguito della segnalazione del Collegio dei revisori, si è dedotto un inesistente travisamento di una prova dichiarativa (la deposizione del prof. Di Tanno, presidente del Collegio), vizio che, per essere deducibile in sede di legittimità, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto; va escluso, pertanto, che integri il suddetto difetto un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colonnberotto, Rv. 271702; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087; da ultimo v. Sez. 2, n. 10988 del 28/02/2019, Ventimiglia, n.m.).

Il testimone – ha ritenuto la Corte di appello – ha nella sostanza fatto riferimento ai limiti della iniziativa assunta, avuto riguardo alla insindacabilità delle spese del partito, sulla destinazione parziale delle quali ad attività estranee all’attività politica erano già emerse varie notizie: trattasi di -una interpretazione che non integra il vizio denunciato, alla luce di un complessivo esame della deposizione, ove peraltro, sul punto specifico, è stata espressa solo una opinione, per quanto autorevole.

Del resto, nella missiva inviata dai revisori parlamentari ai Presidenti delle due Camere il 21/3/2012, si sollecitò una iniziativa che consentisse un più efficace controllo, ma pur sempre – come specificato espressamente – nel rispetto del sistema normativo vigente.

La richiesta di riferimenti specifici ai controlli effettuati (al di là della “espressione di un generico consenso sulle modalità dei bilanci”) risultava ben compatibile con lo scopo che, nella ratio della legge n. 2 del 1997, perseguiva la previsione di una relazione dei revisori dei conti del partito, da allegare al rendiconto, sulla quale doveva far affidamento il Collegio dei revisori pubblici, proprio perché sfornito di poteri istruttori e di strumenti diretti di controllo di merito.

E’ irrilevante anche la circostanza, dedotta sempre nel ricorso di Turci, circa la mancata conoscenza da parte dello stesso e di Sanavio della valutazione effettuata dalla società di revisione, che aveva rinvenuto una situazione “disastrosa” nella contabilità del partito.

Non rileva neppure la conoscenza in capo agli imputati delle falsità contenute nel rendiconto 2010, essendo sufficiente la loro piena coscienza e volontà di rendere un’articolata dichiarazione, integralmente falsa, finalizzata – questo era l’unico scopo – alla erogazione del contributo, sospesa dai Presidenti delle Camere fino a quando i revisori del partito non avessero “espresso un giudizio definitivo di regolarità del rendiconto in questione” (così la comunicazione del 25/7/2012).

Detto giudizio di regolarità del rendiconto fu espresso da Sanavio e Turci ed il contributo, dopo venti giorni dalla trasmissione della loro dichiarazione da parte del segretario Maroni, fu versato su un conto corrente del partito.

Il pagamento fu indebito anche solo perché fondato su una relazione dei revisori interni del partito, che attestava falsamente lo svolgimento dei richiesti controlli, con dichiarazioni ben più specifiche rispetto a quelle che in passato erano state ritenute sufficienti dai revisori pubblici.

Si trattò, dunque, di un dolo diretto, rispetto al quale le rassicurazioni del nuovo segretario federale non rivestono alcuna efficacia esimente, non potendo le stesse colorare di vero le dichiarazioni false che i due imputati (non Aldovisi, che dopo la risposta elusiva dell’11/6/2012, si era defilato) fecero, ben consapevoli della loro finalità.

La motivazione della sentenza in ordine all’affermazione di responsabilità di Sanavio Turci è immune da vizi e non è inficiata dalla parziale assoluzione,- per difetto di dolo di concorso, per i fatti pregressi, comunque non sovrapponibili a quello in esame, sulla quale la sopravvenuta estinzione per prescrizione ha precluso una valutazione di questo Collegio.

14.2. In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, la Corte territoriale ha affermato che, inquadrati nei termini ora descritti “la valenza della dichiarazione resa dai componenti del Comitato di Controllo di Secondo Livello […] ed il percorso determinativo che ha condotto all’erogazione dei rimborsi, nella specifica ed anomala situazione venutasi a creare nell’anno in questione, non sussistono, alla luce dei criteri distintivi evidenziati dalla giurisprudenza di legittimità e della particolarità del caso concreto, gli estremi degli artifici e della induzione in errore necessari per configurare il reato di truffa”.

La sentenza impugnata ha fornito una specifica motivazione, sulla base di una puntuale ricostruzione della vicenda, in precedenza richiamata, dalla quale è emerso un dato fondamentale: i revisori pubblici ed i Presidenti delle due Camere, a seguito dei ricordati avvenimenti risalenti all’inizio dell’anno 2012, erano indubbiamente allarmati e consapevoli delle possibili irregolarità dei rendiconti presentati dalla Lega Nord e per tale ragione – come si è visto – avevano richiesto ai revisori interni una precisa integrazione delle precedenti dichiarazioni.

La decisione di sospendere il pagamento dei contributi adottata il 25/7/2012, dopo la risposta apparente ricevuta 1’11/6/2012, conferma il fatto che in quel contesto la capacità decettiva della condotta posta in essere dai revisori interni del partito e l’affidamento di quelli parlamentari erano assai limitati, cosicché con fondamento la Corte di appello ha ritenuto che il giudizio di regolarità del rendiconto formulato dall’organo pubblico di controllo, a seguito dell’attestazione del 16/10/2012 di Turci e Sanavio, conseguì “alla mera presa d’atto della dichiarazione, prescindendo da qualsiasi tipo di controllo, anche solo di natura formale, e quindi di un’autonoma attività valutativa da parte del Collegio dei Revisori parlamentari” (pag. 117).

Il Procuratore generale ricorrente, peraltro, ha dedotto un “travisamento del fatto”, che però non rientra fra i motivi proponibili in sede di legittimità: sono inammissibili le censure che si risolvono in una mera rilettura delle risultanze probatorie poste a sostegno della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, dovendo le stesse, piuttosto, esprimere la denuncia di vizi di logicità o di contraddittorietà rispetto a specifici atti del processo, decisivi e dotati di una forza esplicativa tale da vanificare l’intero ragionamento del giudice del merito.

In particolare, avuto specifico riguardo al discrimine fra le fattispecie previste dagli artt. 640 bis e 316 ter cod. pen., la -Suprema Corte ha in -più pronunce affermato che «l’accertamento dell’idoneità del falso a trarre in errore l’autorità costituisce una tipica indagine di fatto riservata al giudice del merito, la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità se non manifestamente illogica» (così Sez. 3, n. 2382 del 01/12/2011, dep. 2012, Di Bari, Rv. 251910; in senso esattamente conforme Sez. 2, n. 27983 del 04/05/2017, Passalacqua, n.n.; Sez. 2, n. 53044 del 06/12/2016, Loddo, n.m.; Sez. 2, n. 49464 del 01/10/2014, Gattuso, Rv. 261321).

Nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da illogicità manifesta, dovendosi altresì ribadire – avuto riguardo ad alcune delle censure svolte dal P.G. ricorrente – che «debbono essere considerate censure di merito, come tali inammissibili nel giudizio di legittimità, tutte quelle che attengono a “vizi” diversi dalla mancanza di motivazione, dalla sua “manifesta illogicità”, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo. Inammissibili sono pertanto tutte le doglianze che “attaccano” la “persuasività”, la inadeguatezza, la mancanza di “rigore” o di “puntualità”, la stessa “illogicità” quando non “manifesta”, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. Tutto ciò è “fatto”, riservato al giudice del merito» (così, efficacemente, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965; nel medesimo senso, fra le pronunce più recenti, non nnassimate, v. Sez. 2, n. 35153 del 17/07/2019, Gilardini; Sez. 4, n. 33809 del 18/06/2019, Vasiljevic; Sez. 2, n. 35454 del 23/05/2019, Arzillo; Sez. 5, n. 34794 del 10/04/2019, Cristaldi).

Anche il ricorso della parte pubblica, pertanto, deve essere rigettato.

15. Nessuno degli altri motivi dei ricorsi di Sanavio e Turci ha un qualche fondamento.

15.1. La deduzione di Sanavio sulla inesigibilità della condotta era stata svolta in appello in conclusione di un ben più articolato motivo (pag. 54), riportato integralmente nel ricorso, senza alcun riferimento alle norme invocate in questa sede (artt. 48 e 54 cod. pen.), certo non immediatamente associabili a detta deduzione.

La doglianza, poi, è stata implicitamente disattesa dalla Corte di appello, in ragione delle ricordate argomentazioni, incompatibili con la prospett-azione difensiva.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di ciascuna deduzione delle parti e a prendere dettagliatamente in esame tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo.

Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Currò, Rv. 275500; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, dep. 2014, Cento, Rv. 259643; Sez. 5, n. 607 del 14/11/2013, dep. 2014, Maravalli, Rv. 258679; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Caniello, Rv. 256340; da ultimo Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062, in motivazione).

15.2. Adeguata e puntuale motivazione è stata fornita in ordine alla posizione di garanzia di fatto assunta da Sanavio e dagli altri componenti del Comitato di controllo di secondo livello, appositamente costituito e nominato dal segretario federale per certificare la regolarità del rendiconto e predisporre la relazione richiesta dalla normativa sui rimborsi elettorali, intestata “come certificazione al bilancio consuntivo”, con espresso richiamo alle leggi che all’epoca regolavano la materia.

A fronte dei controlli di ordine formale da parte dei revisori parlamentari, la relazione dei revisori del partito aveva quella particolare valenza evidenziata in precedenza (ai paragrafi 7.4 e 8.).

Il ricorso non si è nella sostanza confrontato con le ampie argomentazioni della sentenza (pagg. 110-111), risultando in questa parte inammissibile.

E’ noto che, secondo il diritto vivente, contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta, come di recente ribadito dalle Sezioni unite della Suprema Corte (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822; in senso conforme cfr., ad es., Sez. 3, n. 12727 del 21/02/2019, Jallow, Rv. 275841; Sez. 2, n. 5253 del 15/01/2019, C., Rv. 275522; Sez. 2, n. 52617 del 13/11/2018, Di Schiena, Rv. 271373-02; Sez. 5, n. 34504 del 25/5/2018, Cricca, Rv. 273778).

Il ricorso, sul punto, difetta della cosiddetta specificità estrinseca, vale a dire della esplicita correlazione del motivo di impugnazione con le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.

15.3. La Corte territoriale ha sinteticamente ma adeguatamente risposto ad un’altra deduzione proposta dallo stesso ricorrente, secondo la quale il fatto contestato integrerebbe solo la contravvenzione prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39 («I responsabili della revisione legale i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino a un anno»).

La tesi difensiva è priva di ogni fondamento. Detto decreto ha recepito, ai sensi della delega contenuta nell’art. 1, comma 1, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (legge comunitaria 2008), la direttiva 2006/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006 “relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, che modifica le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE del Consiglio e abroga la direttiva 84/253/CEE del Consiglio”.

L’attività di revisione legale, svolta da professionisti abilitati iscritti in apposito registro, riguarda le società di capitali e gli enti di interesse pubblico ed è definita quale «la revisione dei conti annuali o dei conti consolidati effettuata in conformità alle disposizioni del presente decreto legislativo o, nel caso in cui sia effettuata in un altro Stato membro dell’Unione europea, alle disposizioni di attuazione della direttiva 2006/43/CE vigenti in tale Stato membro».

E’ palese – a prescindere da ogni altra considerazione – l’estraneità della condotta contestata all’attività di revisione legale regolata dal citato decreto.

15.4. La richiesta, proposta nel ricorso di Sanavio, di applicazione della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., è ammissibile, in ragione del principio da ultimo statuito in una pronuncia della Suprema Corte, condiviso dal Collegio: «qualora il fatto venga diversamente qualificato dal giudice di appello senza che l’imputato abbia preventivamente avuto modo di interloquire sul punto, la garanzia del contraddittorio assicurata mediante la possibilità di proporre il ricorso per cassazione implica che possa in tale sede essere per la prima volta invocata la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, resa astrattamente applicabile in base agli inferiori limiti edittali di pena fissati per la diversa ipotesi criminosa ex officio ritenuta» (Sez. 3, n. 15011 del 11/12/2018, dep. 2019, Accogli, Rv. 275394).

Trattasi, però, di richiesta priva di fondamento.Ai sensi di detta norma, infatti, la punibilità è esclusa «quando, per le – modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».

Nel caso di specie le descritte modalità della condotta e soprattutto l’entità del danno cagionato, rilevantissimo e non esiguo (€ 8.882.891, pari alla somma indebitamente erogata dallo Stato), precludono con tutta evidenza l’applicazione della causa di esclusione della punibilità.

15.5. E’ inammissibile il motivo di doglianza proposto da Sanavio, inerente alla mancata applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 114 cod. pen., che – secondo costante giurisprudenza – è configurabile solo quando l’apporto del concorrente abbia assunto un’importanza obiettivamente minima e marginale ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso (Sez. 3, n. 9844 del 17/11/2015, dep. 2016, Barbato, Rv. 266461; Sez. 3, n. 34985 del 16/07/2015, Caradonna, Rv. 264455; Sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, Di Domenico, Rv. 256035; Sez. 2, n. 9743 del 22/11/2012, dep. 2013, Cannavacciuolo, Rv. 255356; Sez. 6, n. 24571 del 24/11/2011, dep. 2012, Piccolo, Rv. 253091).

Nell’atto di appello, con una deduzione invero generica, Sanavio, a sostegno della propria richiesta, aveva sostenuto che “l’intera condotta del Comitato di Controllo di Secondo livello, limitata all’allegazione di una dichiarazione neppure prevista, e, in ogni caso, neppure verificata dai Revisori Pubblici” costituiva “una inezia causale nella determinazione dell’evento danno”.

Anche in questo caso la Corte territoriale ha implicitamente disatteso il motivo, avendo ampiamente e adeguatamente smentito – come si è visto nel paragrafo precedente – la tesi sulla minima rilevanza causale della falsa attestazione resa il 16 ottobre 2012 da Sanavio e Turci, che peraltro sono gli unici imputati del reato contestato al capo c -bis).

15.6. Il motivo proposto da Turci, inerente alla regolarità del rendiconto del 2010, sulla base di una deduzione in fatto (anche in questo bilancio, come in quello del 2011, considerato veritiero, erano correttamente appostate, sotto la voce delle sopravvenienze passive, le spese prive di giustificativi) è inammissibile perché non proposto con l’appello.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Li Vigni, Rv. 269368; Sez: 3, n. 16610 del 24/01/2017, Costa, Rv. 269632; Sez. 2, n. 6131 del 29/01/2016, Menna, Rv. 266202).

Il principio trova la sua ratio nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame (da ultimo v. Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062, in motivazione).

In ogni caso la deduzione difensiva è generica in quanto non si confronta con le ampie argomentazioni della sentenza, svolte sulla base soprattutto delle consulenze, con le quali si sono evidenziate le molteplici falsità contenute nel rendiconto; prima ancora, invero, essa non è pertinente, in quanto – come si è visto (sub. 14.1.) – la condotta contestata e qualificata come reato ex art. 316 bis cod. pen. è stata integrata dalle dichiarazioni contenute nel verbale del 16 ottobre 2012, certamente false.

Inoltre, va ribadito che la eventuale presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, potrebbe comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione solo quando, per effetto di tale criticità, all’esito di una verifica sulla completezza e sulla globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna, Rv. 267723; Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445), circostanza con tutta evidenza insussistente nel caso di specie.

15.7. Proprio le considerazioni svolte nel paragrafo precedente rendono manifesta l’infondatezza del motivo di ricorso di Turci sull’atipicità della condotta di cui al suddetto capo d’imputazione.

Secondo la difesa, la dichiarazione integrativa del 16 ottobre 2012 non ebbe alcun effetto causale sull’erogazione dei fondi, che furono sbloccati con una decisione che il Collegio dei revisori parlamentari aveva già assunto prima di ricevere la dichiarazione stessa.

Trattasi di una deduzione priva di pregio, contrastante con la puntuale ricostruzione dei fatti in precedenza ricordata, ancorata a dati documentali certi (le ricordate missive e comunicazioni).

La Corte territoriale, poi, neppure su questo punto ha travisato la deposizione del teste Di Tanno, ma ha valorizzato i dati documentali in precedenza ricordati ed ha correttamente attribuito rilevanza decisiva all’attestazione del 16 ottobre 2012, emessa da un organo del partito, per quanto non previsto dallo Statuto, che aveva sempre certificato la regolarità dei bilanci, ai sensi e per gli effetti della normativa vigente sui rimborsi elettorali.

Solo in seguito alla suddetta attestazione, che conteneva le specifiche dichiarazioni richieste dal Collegio dei revisori e dai Presidenti delle Camere, il finanziamento fu sbloccato. Il teste ha precisato come la dichiarazione integrativa del 16 ottobre 2012, sottoscritta da due dei tre componenti del Comitato di controllo di secondo livello (nella missiva di trasmissione invero definito “Collegio dei revisori”), “non corrispondesse appieno a quanto richiesto, perché, a fronte di una richiesta di verifica complessiva della documentazione contabile, l’integrazione attestava una sola verifica a campione”, rilievo, però, che riguardava solo una fra le varie verifiche e indagini che Sanavio e Turci affermarono di avere effettuato.

Dalla deposizione, dunque, non si può affatto desumere – come invece sostenuto dal ricorrente – che “il Collegio dei Revisori del Parlamento aveva già deciso, prima ancora di ricevere tale dichiarazione, che avrebbe sbloccato l’erogazione dei fondi”.

15.8. E’ infondato anche il motivo proposto nel ricorso di Turci relativo alla quantificazione della pena, determinata, quanto a quella base, in un anno di reclusione, in misura piuttosto prossima al minimo edittale (sei mesi), distante da quella intermedia (un anno e nove mesi), lontanissima da quella massima (tre anni).

La Corte di appello ha congruamente motivato in ordine all’esercizio del proprio potere discrezionale, dovendosi peraltro ricordare che, quando la pena si attesti in misura non troppo distante dal minimo, è sufficiente che il giudice dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua” o “pena equa” (Sez. 2 n. 36103 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294, del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256195; Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153; da ultimo vedi Sez. 2, n. 10990, del 28/02/2019, Farinelli, Rv. n.m.).

I positivi elementi ricordati dalla difesa sono stati valutati nella sentenza impugnata con il riconoscimento, nel giudizio di comparazione fra circostanze, della prevalenza delle attenuanti generiche.

16. Al rigetto integrale dei ricorsi di Sanavio e Turci segue la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali, mentre anche Bossi e Belsito, soccombenti totalmente agli effetti civili, vengono condannati in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle due parti civili.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di Bossi Umberto e Belsito Francesco in ordine ai reati a loro ascritti  ai capi b) e c) perchè estinti per prescrizione, nonchè in ordine alla disposta alla confisca equivalente, che elimina, ferma restando la statuizione della stessa sentenza sulla confisca diretta.

Rigetta i ricorsi di Bossi Umberto e Belsito Francesco agli effetti civili in relazione ai reati di cui ai capi b) e c).

Annulla la medesima sentenza nei confronti di Belsito Francesco in relazione al reato di cui al capo d), limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio a nuovo esame sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Genova. Rigetta il ricorso nel resto. Visto l’art. 624 c.p.p., dichiara la irrevocabilità dell’affermazione della penale della responsabilità di Belsito Francesco per il reato di cui al capo d).

Annulla senza rinvio la medesima sentenza nei confronti di Aldovisi Stefano (episodio dell’11/06/2012) perchè il fatto non sussiste ed elimina le statuizioni civili a suo carico.

Rigetta i ricorsi di Sanavio Diego e Turci Antonio, che condanna al pagamento delle spese processuali.

Condanna Bossi Umberto, Belsito Francesco, Sanavio Diego e Turci Antonio, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili  Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, che liquida per ciascuna parte civile in euro 2.500, oltre accessori di legge.

Rigetta il ricorso del Procuratore Generale.

Così deciso in Roma, il 06/08/2019.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2019.

SENTENZA – copia non ufficiale -.