(Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 18 giugno – 10 luglio 2015, n. 29799)
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 17/7/2014 la Corte d’appello di Campobasso, ribadito il giudizio di penale responsabilità, con le già concesse attenuanti generiche considerate prevalenti sulla contestata aggravante, e la diminuente per il rito abbreviato, riduceva a cinque mesi e dieci giorni di reclusione la pena inflitta a .V. Lancieri per il reato di cui all’art. 589 cod. pen. allo stesso ascritto per avere cagionato, per colpa, la morte del pedone F.G.S., investendolo con l’autobus di linea del quale era alla guida.
Secondo quanto accertato in giudizio la mattina del (OMISSIS), verso le ore 9,00, il L., alla guida dell’autobus, intento ad uscire a bassissima velocità dal Terminal bus di Via Martiri della Resistenza in Termoli diretto verso Piazza del Papa, giunto in prossimità dello svincolo di accesso alla predetta via, investiva -prima con la parte anteriore destra del proprio veicolo e successivamente con la ruota anteriore destra – la F., la quale, benché subito soccorsa, decedeva poche ore dopo per grave shock emorragico conseguente alle lesioni subite.
L’evento era ascritto a colpa generica e specifica del L., quest’ultima per aver violato l’art. 140 cod. strada, perché, pur accortosi di persone ferme lungo il marciapiede destro della sua corsia all’interno del terminal predetto, non aveva arrestato la propria marcia.
A fondamento del confermato giudizio di penale responsabilità rilevava la Corte che il L. aveva spontaneamente dichiarato che, mentre procedeva a bassissima velocità, incanalato nella corsia che consente l’uscita dal terminal, aveva notato sul marciapiede alla sua destra, diverse persone.
Dopo aver dato un colpo di clacson, aveva dunque rivolto il suo sguardo anche alla sua sinistra, dove c’erano altre autovetture in manovra, al fine di ottenere la precedenza per poter uscire.
Nel corso di tale manovra veniva improvvisamente bloccato da un urlo che lo faceva frenare e, in tale circostanza, notava delle persone che gli facevano cenno di indietreggiare. Pur non comprendendone il motivo, faceva retromarcia per qualche metro e solo allo scendere dal mezzo si accorgeva che a terra si trovava una donna che sanguinava.
Specificava che non si era accorto di nulla al momento dell’investimento e che non era in grado di riferire se la signora investita fosse o meno sul marciapiede insieme alle persone che aveva avvistato prima di prendere la marcia, ma indicava con certezza che ella non proveniva dalla sua sinistra.
Da ciò i giudici molisani desumevano che l’imputato era talmente impegnato a guardare alla sua sinistra – nella preoccupazione di ottenere la precedenza che gli competeva rispetto ad altri veicoli inopinatamente presenti in quell’area – da avere il proprio sguardo puntato decisamente in quella sola direzione nel momento del sinistro, in tal modo distraendolo dal lato destro, tanto da neppure accorgersi dell’impatto a cose avvenute, essendone allertato solo dalle urla provenienti dall’esterno.
L’assunto difensivo secondo cui nella circostanza il conducente aveva osservato persino un maggior grado di prudenza, avendo guardato prima a destra e poi a sinistra, era disatteso dalla Corte sulla base del rilievo che in realtà egli non poteva pretendere di tenere contemporaneamente sotto costante controllo, mentre continuava a marciare sia pure a bassa velocità, tanto il suo lato destro che quello sinistro.
La regola cautelare avrebbe piuttosto imposto in quel contesto – particolarmente pericoloso per la mancanza di transenne ai marciapiedi e la presenza di passeggeri di ogni età in movimento, circostanza di cui lo stesso imputato era consapevole per sua stessa ammissione – di arrestare il mezzo e verificare che almeno uno dei due lati fosse sgombro e libero da pericoli per poter concentrare, allora sì, la sua costante attenzione sull’altro lato.
Per lo stesso motivo escludeva che la condotta della vittima, bensì colposa e concorrente nella dinamica del sinistro, potesse assumere efficacia interruttiva del nesso causale con la condotta ascritta all’imputato, non potendo essa considerarsi causa eccezionale, atipica, non prevista e non prevedibile, da sola sufficiente a produrre l’evento.
In proposito la Corte giudicava irrilevante accertare se la vittima fosse o meno con gli altri passeggeri ad aspettare sul marciapiede o stesse piuttosto camminando nella sede stradale parallelamente al marciapiede stesso, così come riteneva non condivisibile il rilievo, pur avvalorato dai carabinieri verbalizzanti e dal consulente del PM, secondo cui la vittima per la sua bassa statura (1,64 m) non avrebbe potuto essere vista dall’autista del bus neppure se avesse tenuto costantemente puntato il proprio sguardo verso destra; in senso contrario rilevava infatti che, se il L. avesse mantenuto costante attenzione verso il lato destro, soprattutto ad autobus in movimento, egli si sarebbe certamente avveduto della presenza della donna che procedeva appiedata sul marciapiede o nella sede stradale, provenendo da tergo, ben prima del punto e del momento dell’impatto, e avrebbe pertanto avuto tutto il tempo di prendere le contromisure che la prudenza del caso imponeva.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato, per mezzo del proprio difensore, sulla base di due motivi.
2.1. Con il primo deduce inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rese dall’imputato contra se a fondamento del giudizio di responsabilità.
Rilevava che tali dichiarazioni erano state rese da esso ricorrente ai carabinieri in fase di sommarie informazioni senza l’assistenza del difensore e senza la formulazione degli avvisi previsti dagli artt. 63, 64 ss. e 350 cod. proc. pen., come sarebbe stato necessario avendo egli assunto fin dall’inizio la qualità di persona sottoposta alle indagini.
Rileva che, diversamente da quanto indicato dai verbalizzanti, tali dichiarazioni non potevano essere considerate spontanee, ma bensì acquisite ai sensi e per gli effetti dell’art. 350 cod. proc. pen., senza però il rispetto degli obblighi posti a garanzia e tutela dell’indagato.
Lamenta che sul punto la Corte d’appello nulla osserva, omettendo così una necessaria verifica su di essa incombente anche d’ufficio secondo costante giurisprudenza di legittimità.
2.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in relazione all’affermazione di penale responsabilità.
Lamenta che i giudici del merito hanno completamente trascurato gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria e gli accertamenti svolti dallo stesso consulente del PM, in sede di accertamento tecnico preventivo, preferendo accreditare la relazione del perito di parte civile.
Censura come illogica e contraddittoria la motivazione offerta al riguardo dalla Corte territoriale secondo cui le conclusioni dei carabinieri e del perito del P.M. sarebbero frutto di una analisi della vicenda erroneamente limitata all’aspetto statico della stessa; osserva che di contro appare più logico pensare che la donna fosse giunta da una direzione assolutamente e tragicamente in linea con il montante destro dell’autobus, tanto da risultare invisibile all’autista.
Sotto altro profilo rileva che erroneamente i giudici del merito hanno considerato la manovra posta in essere dall’autista inosservante della regola cautelare possa dall’art. 140 cod. strada.
Assume che, al contrario, quella condotta, oltre a essere stata osservante, era anche l’unica logicamente possibile, rimarcando in particolare che egli non avrebbe potuto arrestare la marcia ma anzi era costretto ad uscire dal terminal, come evidenziato anche dal perito del P.M..
Considerato in diritto
3. È infondato il primo motivo di ricorso.
L’art. 350, comma 7, cod. proc. pen. consente che le “dichiarazioni spontanee” rese alla polizia giudiziaria dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini siano pienamente utilizzate nella fase delle indagini preliminari (v. Sez. U, n. 1150 del 25/09/2008, dep. 2009, Correnti, Rv. 241884) e anche nel giudizio abbreviato, attesa la natura peculiare dello stesso, caratterizzato dallo svolgimento allo stato degli atti, implicando la relativa richiesta la rinuncia a sollevare eccezioni sulla ritualità degli atti in base ai quali è documentato, anche se trattasi di atti compiuti dalla polizia giudiziaria che non sarebbero di per sé utilizzabili in eventuale accertamento dibattimentale (v. e pluribus Sez. 5, n. 44829 del 12/06/2014, Fabbri, Rv. 262192; Sez. 5, n. 6346 del 16/01/2014, Pagone, Rv. 258961; Sez. 4, n. 1554 del 31/01/1997, Pedullà, Rv. 207872).
È bensì vero che, trattandosi di norma che fa eccezione alle disposizioni più generali poste dai commi precedenti – e, in particolare, a quelle secondo cui le notizie assunte sul luogo o nella immediatezza del fatto da persona nei cui confronti vengono svolte indagini senza la presenza del difensore possono essere utilizzate solo ai fini della immediata prosecuzione delle indagini mentre ne è vietata ogni documentazione e ogni altra utilizzazione (commi 5 e 6) oltre che al principio generale posto dagli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. (ed al principio generale del nemo tenetur se detegere) – essa è di stretta interpretazione e come tale richiede una rigorosa verifica officiosa della ricorrenza in concreto dell’elemento che la giustifica, ossia della effettiva spontaneità delle dichiarazioni, le quali dunque non debbono risolversi sostanzialmente in risposte a domande della polizia, salvo naturalmente che si tratti domande volte ad ottenere precisazioni su fatti spontaneamente dichiarati (v. Sez. 3, n. 2627 del 19/11/2013, dep. 2014, Cuberi, Rv. 258368; Sez. 3, n. 36596 del 07/06/2012, Osmanovic, Rv. 253575).
Nel caso di specie, tuttavia, non emergono elementi, né sono stati concretamente dedotti, idonei a porre in dubbio che una tale verifica non sia stata compiuta o che lo sia stata con esiti manifestamente illogici: elementi, cioè, che possano indurre a smentire la qualificazione data dagli operanti – e accreditata dai giudici di merito – alle dichiarazioni rese nell’immediatezza dall’odierno ricorrente, come spontanee.
In tal senso non può risultare sufficiente la sola circostanza che tali dichiarazioni non siano state rese nell’immediatezza del fatto ma a distanza di alcune ore negli uffici del Comando Compagnia Carabinieri di Termoli, non ricavandosi comunque dal verbale (al cui esame questa Corte ha diretto accesso trattandosi di censura di natura processuale), né lo stesso ricorrente avendo affermato, che egli vi si sia presentato perché convocato, né essendovi motivo alcuno di sospettare che si sia trattato di dichiarazioni rese in risposta a richieste dei verbalizzanti o, comunque, da questi sollecitate.
4. Rimane assorbito l’esame del secondo motivo di ricorso dal momento che la condotta descritta dallo stesso ricorrente, con le richiamate dichiarazioni, evidenzia un indubbio profilo di colpa causalmente efficiente nella determinazione del sinistro, rappresentato dall’aver distolto lo sguardo dal lato destro dell’autobus, mentre lo stesso era in movimento, pur nella consapevolezza della presenza in quel lato di passeggeri di ogni età in attesa sul marciapiede non protetto: situazione questa che rendeva certamente prevedibile il rischio di movimenti o incursioni, ancorché avventate o imprudenti, di pedoni nella sede stradale.
Può comunque rilevarsi che, pur indipendentemente dal superiore rilievo, anche la seconda censura, in sé considerata, si appalesa destituita di fondamento.
L’adesione prestata dai giudici di merito alla ricostruzione dell’accaduto operata dal consulente tecnico della parte civile (secondo cui questo può spiegarsi solo per il fatto che il conducente dell’autobus per colpevole distrazione abbia omesso di vigilare con la dovuta attenzione i movimenti pedonali nell’area della stazione posta a destra del mezzo, posto che, invece, ove tale costante attenzione fosse stata prestata, egli avrebbe ben potuto notare i pur inconsulti e imprudenti movimenti della vittima, se non nella sua tragica traiettoria finale almeno nelle fasi antecedenti) risulta adeguatamente motivata all’esito di una attenta considerazione anche della contrapposta tesi del consulente del PM (secondo cui la vittima non era invece visibile perché di bassa statura e nascosta dal montante destro), la quale infatti viene espressamente disattesa in ragione del rilievo, in sé del tutto plausibile e non specificamente contrastato in ricorso, che questa in realtà è valutazione riferita solo alla parte finale del percorso seguito dalla vittima.
Trattasi pertanto di valutazione tipicamente di merito come tale insindacabile in questa sede, poiché congruamente motivata e non manifestamente illogica.
Giova rammentare al riguardo che la Cassazione non è giudice delle prove, non deve sovrapporre la propria valutazione a quella che delle stesse hanno fatto i giudici di merito, ma deve stabilire – nell’ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato – se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se nell’interpretazione del materiale istruttorio abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (cfr. Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203428; Sez. 1, n. 12496 del 21/09/1999, Guglielmi, Rv. 214567): il vizio di motivazione denunciabile ex art. 606, comma 1, lett. e) non può, cioè, consistere nella mera deduzione di una valutazione del contesto probatorio ritenuta dal ricorrente più adeguata (Sez. 5, n. 45420 del 04/10/2004, Lebbiati, non mass.), ma deve essere volto a censurare l’inesistenza di un plausibile e coerente apparato argomentativo a sostegno della scelta operata in dispositivo dal giudicante.
Del resto – può incidentalmente osservarsi – ad apparire del tutto implausibile è piuttosto la tesi del ricorrente, secondo cui, pur nell’ipotesi in cui il conducente avesse costantemente prestato attenzione sul suo lato destro, egli potrebbe non essersi accorto dell’anziana donna in quanto proveniente da un imprecisato punto della zona e procedente in linea con il montante destro dell’autobus, tanto da risultare invisibile all’autista.
È infatti da ritenere inverosimile che possa esistere una parte dell’area da cui l’autobus si muove e in particolare di quella posta a destra dello stesso dal quale salgono e scendono i passeggeri che l’autista non possa avere sotto il pieno controllo attraverso parabrezza, finestrini e specchio retrovisore.
A fortiori privo di pregio è poi l’assunto secondo cui il conducente non potesse nell’occorso comunque condursi diversamente da come ha fatto e in particolare non potesse non procedere in avanti, sia pure a passo d’uomo, per liberare la corsia d’uscita dal terminal bus e dare spazio agli altri mezzi in continua entrata e uscita.
È appena il caso di rilevare in proposito che una siffatta esigenza di traffico veicolare è ovviamente del tutto recessiva rispetto a quella di tutela della vita e incolumità delle persone e non potrebbe giustificare di per sé una carenza di attenzione e cautela a garanzia di tali valori primari: essa comunque non avrebbe reso impossibile né pericoloso anche un arresto emergenziale del mezzo nel momento in cui fosse stato avvertito per tempo il pericoloso avvicinarsi alla sede stradale del pedone.
5. Alla luce delle esposte sussidiane considerazioni appare evidente che le dichiarazioni rese dal conducente non fanno altro che confermare quella che è la più probabile e anzi l’unica logica e plausibile spiegazione dell’accaduto e con essa anche, come detto, la colpa del conducente medesimo, in mancanza di emergenza o allegazione alcuna di una condotta assolutamente abnorme e imprevedibile dell’anziano pedone: abnormità e imprevedibilità anzi nel descritto contesto assai difficilmente ipotizzabile se non anzi da escludere.
Mette conto rammentare al riguardo che il dovere di attenzione del conducente teso all’avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel principio generale di cautela dettato dall’art. 140 cod. strada che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: quello di ispezionare la strada dove si procede o che si sta per impegnare; quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (in particolare, proprio dei pedoni) (cfr., per riferimenti, Sez. 4, n. 33207 del 02/07/2013, Corigliano, Rv. 255995).
Trattasi di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, vuoi genericamente imprudenti (tipico il caso del pedone che si attarda nell’attraversamento, quando il semaforo, divenuto verde, ormai consente la marcia degli automobilisti), vuoi in violazione degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall’art. 190 cod. strada. Il conducente, infatti, ha, tra gli altri, anche l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui (Sez. 4, n. 1207 del 30/11/1992, dep. 1993, Cat Berrò, Rv. 193014).
Ne discende che il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o in violazione di una specifica regola comportamentale) del pedone (una tale condotta risulterebbe, invero, concausa dell’evento lesivo, come anche nella specie ritenuto, penalmente non rilevante per escludere la responsabilità del conducente: cfr. art. 41, comma primo, cod. pen.), ma occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento (cfr. art. 41, secondo comma, cod. pen.).
Ciò che può ritenersi solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, infatti, l’incidente potrebbe ricondursi, eziologicamente, proprio ed esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente ed operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima.
Condizione quest’ultima certamente insussistente nel caso di specie, quanto meno e in via assorbente per le stesse caratteristiche del luogo, di per sé deputato, come s’è ripetuto, alla presenza e al continuo e non protetto movimento di passeggeri in transito.
6. Deve pertanto pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.