Non è diffamatoria la foto dell’articolo meramente illustrativa di una categoria (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 1 aprile 2020, n. 10967).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere

Dott. MICHELI Paolo – Consigliere

Dott. PEZZULLO Rosa – Rel. Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MAURO EZIO nato a OMISSIS il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 23/03/2019 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Rosa PEZZULLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. Mario Maria Sstefano PINELLI che ha concluso chiedendo il rigetto;

udito il difensore l’avv. ANGELA LIQUINDOLI si associa alle conclusioni del Proc. Gen. riportandosi ai motivi depositati in cancelleria in data 30.10.2019 e nota spese delle quali chiede la liquidazione;

l’avv. ENRICO GROSSO insiste nell’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27/3/2019 la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del locale Tribunale del 6/2/2017 con la quale Ezio Mauro era stato condannato alla pena di euro 1000,00 di multa, nonché al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile dr. Matteo Alessio Incarbone, per il reato di cui all’art. 57 c.p., in relazione all’art. 595 comma 1 e 2 c.p., perché, nella sua qualità di direttore responsabile del quotidiano “La Repubblica”, ometteva di esercitare sul contenuto di tale quotidiano il controllo necessario ad impedire che venisse offesa la reputazione della predetta p.o., attraverso la pubblicazione dell’articolo a firma di Laura Asnaghi dal titolo “certificati al telefono, medico condannato” e l’accostamento a tale articolo di una fotografia dell’ Incarbone nell’atto di mostrare una lastra radiografica ad una paziente, medico del tutto estraneo ai fatti di cui trattava l’articolo.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, avv. prof. Carlo Federico Grosso, deducendo:

– con il primo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 595 c.p. e la conseguente insussistenza del reato presupposto e, comunque, il vizio di motivazione in merito alla coscienza e volontà della condotta;

invero, la Corte territoriale nell’operare la verifica circa la sussistenza del reato di diffamazione, reato presupposto a quello in contestazione di cui all’art. 57 c.p., è incorsa in plurimi vizi quanto al profilo oggettivo e soggettivo;

in particolare, in merito all’elemento materiale, fermo restando che il contenuto dell’articolo a firma della Asnaghi non contiene autonomi profili di diffamatorietà, né a carico dell’Incarbone, né a carico di altri, denunciando solo una cattiva prassi, diffusa tra i medici, di rilasciare certificati e ricette al telefono, la sentenza impugnata ritiene, invece, che la pubblicazione dell’immagine dell’Incarbone sia autonomamente diffamatoria, siccome accostata a un fatto di cronaca esposto con la massima visibilità nel titolo dell’articolo e, dunque, sarebbe quell’accostamento ad integrare il reato;

tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, una fotografia ritraente una persona della quale in nessuna parte dell’articolo è fatto il nome non può essere ritenuta di per sé idonea a ledere l’onore, in quanto il lettore medio non è messo in grado di collegare l’immagine al soggetto che si ritiene offeso, trattandosi, peraltro, di un’immagine astratta;

nel corso dell’istruttoria è stato accertato che il redattore della pagina aveva selezionato quella foto di ambiente dall’archivio per puro caso, siccome ritraente un medico nell’atto di svolgere una visita e lo stesso Incarbone aveva accettato anni addietro di posare per una fotografia destinata ad essere utilizzata ai fini di illustrazione, dimostrando che egli aveva liberamente accettato che l’immagine fosse utilizzata;

ai fini, poi, dell’individuabilità della persona offesa occorre fare riferimento alla possibilità che il soggetto diffamato sia riconoscibile dal cd. “lettore medio”, ma qualora la persona diffamata non sia menzionata per nome e cognome, occorre almeno che il suddetto lettore medio sia in grado di ricondurre con certezza ad essa la notizia, elementi questi che non ricorrono nella fattispecie;

inoltre, nella fattispecie in esame a spiegazione della generica fotografia illustrativa vi era una didascalia “anche l’ordine richiama i medici al rigore nelle visite per i certificati di malattia”, che lungi dal ricondurre la foto alla persona condannata evocata nel titolo, faceva a sua volta riferimento al contenuto dell’articolo, ove era ospitata un’intervista al Presidente dell’Ordine dei medici di Milano;

sarebbe bastato, dunque, un minimo sforzo di diligenza da parte del lettore medio per rendersi conto del contesto e del significato complessivo del messaggio;

peraltro, la p.o. ha dichiarato di aver avuto notizia della pubblicazione della foto da un suo paziente che si era subito accorto dell’equivoco;

in ogni caso l’Incarbone non è persona nota al grande pubblico, sicchè non vi sono elementi che possano ricondurre il titolo dell’articolo alla persona del querelante da parte di chi non conosceva la p.o. stessa, laddove chi la conosceva è stato messo immediatamente in condizioni di capire che il medico condannato a cui si riferiva l’articolo non era lui;

la foto oggetto di contestazione è stata pubblicata al mero fine di illustrare il contenuto di un articolo che si occupava in generale di un problema deontologico riguardante tutti i medici, sicchè non si tratta di pubblicazione di una foto sbagliata, ma di una mera foto di contesto avente una funzione meramente illustrativa;

al più potrebbe parlarsi di negligenza da parte del redattore, ma ciò non integrerebbe l’elemento soggettivo del dolo richiesto dalla norma incriminatrice con la conseguenza che il fatto di diffamazione non sussiste;

– con secondo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 57 c.p., sotto il profilo della sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa nel reato omissivo improprio contestato e, comunque, la manifesta illogicità della motivazione sul punto;

invero, la Corte territoriale ha omesso di verificare se il direttore responsabile poteva materialmente avvedersi in termini di esigibilità in concreto del fatto che quella foto, in quello specifico contesto, era idonea ad assumere significato diffamatorio e se quella foto non intendeva raffigurare il presunto autore del reato messo in evidenza dal titolo dell’articolo, trattandosi di una mera foto di contesto, diretta ad illustrare un medico qualunque, intento ad operare una visita ad un paziente qualunque; all’imputato non si sarebbe potuto richiedere – in termini di esigibilità concreta – di avvedersi che quella fotografia raffigurava un vero medico e non un attore, che un domani avrebbe potuto dolersi dell’accostamento con il titolo dell’articolo; non essendo provata la coscienza e volontà dell’ignoto autore di ledere l’onore di colui che ai suoi occhi altro non è che un figurante, impersonante l’anonima figura di un medico, intento ad effettuare una visita, non potrebbe essere chiamato a rispondere ex art. 57 il direttore responsabile del quotidiano, né si configura una specifica negligenza inescusabile.

3. Con memoria in data 30.10.2019 la parte civile, dr. Matteo Incarbone, a mezzo del suo difensore, nel condividere il contenuto della sentenza impugnata, ha concluso per il rigetto del ricorso, dando conto dell’infondatezza di entrambi i motivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

1. L’imputato, in qualità di direttore responsabile del quotidiano “la Repubblica”, risponde, come accennato in premessa, del delitto di cui all’art. 57 c.p., per non aver impedito, attraverso il controllo sul quotidiano da lui diretto, che venisse diffamato il dr. Incarbone, accostando la sua persona, con la pubblicazione di una sua fotografia, al tema oggetto dell’articolo a firma di Laura Asnaghi.

In particolare, la diffamazione del dr. Incarbone sarebbe avvenuta mediante la pubblicazione sul quotidiano predetto del 16.5.2012, nella parte relativa alla Cronaca di Milano, di un articolo di Laura Asnaghi all’inizio della pg. IX, così impaginato:

1) titolo: “Certificati al telefono, medico condannato”;

2) sottotitolo: “aveva prorogato i giorni di malattia a una paziente senza visitarla”;

3) sottostante articolo della Asnaghi, nel quale si commentava una sentenza di questa Corte, di conferma della condanna di un medico di famiglia, che aveva rilasciato un certificato di malattia “al telefono”, senza visitare il paziente;

4) fotografia del dr. Incarbone, raffigurato mentre era seduto in uno studio medico, intento a colloquiare con una “paziente”, mostrandole una lastra radiografica, con sottostante didascalia: “anche l’ordine richiama i medici al rigore nelle viste per i certificati di malattia”.

2. Lo stesso ricorrente ha evidenziato come l’Incarbone avesse posato, qualche anno prima della pubblicazione dell’articolo, per un servizio fotografico di “ambiente medico”, al fine di promuovere l’attività del senologo durante una visita specialistica, aveva cioè acconsentito ad essere ritratto nell’ambito di una scenetta nella quale impersonava un medico nell’atto di una visita ambulatoriale; allo stesso set aveva partecipato una collega dell’Incarbone che aveva finto di essere una paziente (la “finta paziente ritratta nella medesima foto).

Sempre il ricorrente ha evidenziato che la redazione del quotidiano aveva utilizzato quella foto, a carattere medico, tratta dall’archivio del giornale per illustrare l’ “argomento medico” a cui si riferiva l’articolo, senza avere alcuna contezza della identità della persona ritratta in tale foto e senza aver mai avuto l’intenzione di pubblicare la fotografia di quella persona che il titolo menzionava come condannata, avendo invece quale unico obiettivo quello di rappresentare con l’articolo in questione (in larga parte dedicato a un’intervista al presidente dell’ordine dei medici di Milano) la necessità di una compiuta visita al paziente prima del rilascio dei certificati.

3. Il reato di cui all’art. 57 c.p. configura un’ipotesi di reato proprio, autonoma e strutturalmente caratterizzata dall’omissione della attività di controllo del direttore responsabile, al fine di evitare che, attraverso il periodico da lui diretto, venga dolosamente lesa la reputazione di terze persone – contemplata come causa di un evento non voluto -, addebitabile al direttore di stampa periodica a titolo di colpa (Rv. 150974), sicché tale reato non può configurarsi ove venga accertato che nessun reato di diffamazione è stato commesso (arg. ex Sez. 5, n. 8418 del 1992, Rv. 191929; Sez. 5, n.22850 del 29/04/2019, Rv. 275556).

4. Il reato presupposto di diffamazione non è stato ravvisato nel contenuto dell’articolo della giornalista Laura Asnaghi, tanto è vero che la posizione di quest’ultima è stata archiviata dal G.i.p. di Monza, non occupandosi l’articolo suddetto in alcun modo dell’Incarbone, né menzionando il nome dello stesso, né contenendo alcun riferimento anche indiretto a lui riconducibile.

I giudici di merito hanno ritenuto diffamatorio, invece, l’accostamento tra il titolo, avente una carica negativa (“medico condannato”), e l’immagine del dott. Incarbone, atteso che l’associazione visiva tra quel titolo e l’immagine, ha ingenerato nel lettore medio l’idea che proprio l’Incarbone -ossia quel soggetto vestito da medico raffigurato nella fotografia- fosse collegato alla condanna.

La sentenza impugnata mette, poi, in risalto come sia notorio che il “pubblico medio” non si impegna nella lettura di tutti gli articoli accostati alle immagini, fermandosi a considerare l’impatto visivo e il collegamento tra titolo e immagine: ” il fatto che il nome dell’Incarbone non emerga in nessuna parte dell’articolo o della didascalia, non esclude l’efficacia diffamatoria, perché è stata proprio l’immagine del dottore a essere stata resa pubblica e associata al titolo, e considerata anche la notorietà del dottore moltissime persone dell’ambiente medico, ma non solo, avranno comunque rilevato l’imbarazzante accostamento a quel titolo; e peraltro anche coloro che non l’avessero ancora conosciuto personalmente sarebbero stati indotti a ricordare il volto dell’Incarbone, come quello del medico apparso sul giornale, perché condannato”.

Invero, in tema di diffamazione a mezzo stampa, nel caso in cui l’articolo pubblicato non abbia di per sè un contenuto diffamatorio, ma sia il complesso dell’informazione, per le modalità di presentazione e, soprattutto, per i titoli che l’accompagnano, ad attribuire alla informazione un contenuto offensivo dell’altrui reputazione, del fatto lesivo non può essere chiamato a rispondere l’autore dell’articolo quando questi si sia limitato – come di regola – a fornirne il testo alla redazione del giornale, la quale abbia provveduto alla pubblicazione stabilendone essa, come appunto avviene di norma, e cioè la collocazione in una determinata pagina, il risultato da dare alla notizia, la formulazione di titoli e sottotitoli ed ogni altro particolare. (Sez. 5, n. 1478 del 27/11/1991 Rv. 189092).

Nel caso di specie è stata proprio la presentazione del fatto di cronaca giudiziaria descritto alla Asnaghi nell’articolo (ossia la condanna di un medico che avev sciato un certificato di malattia ad un paziente che lo aveva contattato telefonicamente senza visitarlo), mediante il titolo “Certificati al telefono, medico condannato”, abbinato alla foto dell’Incarbone a far ritenere diffamatoria la pubblicazione in questione.

Nella utilizzazione dei mezzi di informazione, invero, fatti e notizie debbono essere riferiti con correttezza, e la valutazione di tale requisito va effettuata con riferimento non solo al contenuto letterale dell’articolo, ma anche alle modalità complessive con le quali la notizia viene data, sicché decisivo può essere l’esame dei titoli e dei sottotitoli, lo spazio utilizzato per sottolineare maliziosamente alcuni particolari, l’utilizzazione eventuale di fotografie (Rv. 195833), posto che l’attività giornalistica ha forme diverse che vanno dallo scrivere un articolo, all’illustrarlo con immagini, fotografie e fotomontaggi, dalla impaginazione grafica (titolo, risalto tipografico, etc.) alle ricerche storiche o d’archivio, etc. (Rv. 145281).

5. Prima di passare ad esaminare il merito della vicenda oggetto di giudizio, occorre premettere che, in tema di diffamazione, è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, la portata offensiva della pubblicazione ritenuta diffamatoria.

Occorre, poi, subito sgombrare il campo dall’equivoco, ravvisabile in un passaggio del ricorso, secondo cui, avendo qualche anno prima l’Incarbone posato per una fotografia destinata ad essere utilizzata a fini di illustrazione, ciò sarebbe dimostrativo del fatto, che la p.o. aveva liberamente accettato che tale immagine fosse pubblicata (aveva firmato, come si dice tecnicamente la “liberatoria” per lo sfruttamento dell’immagine).

Sul punto giova richiamare i principi più volte affermati da questa Corte, in merito al fatto che il consenso alla pubblicazione di una foto non vale come scriminante del delitto di diffamazione se l’immagine sia riprodotta in un contesto diverso da quello per cui il consenso sia ‘prestato che implichi valutazioni peculiari, anche negative sulla persona effigiata (Sez. 5, n.30664 del 19/06/2008 Rv. 240452).

5.1.Neppure può essere esclusa la portata “offensiva” dell’accostamento titolo/fotografia, per il solo fatto che fosse difficile riconoscere nella foto selezionata dalla redazione la reale identità della persona rappresentata.

Fermo restando che è necessario adottare la massima cautela allorquando vengano utilizzate foto presenti nell’archivio della redazione, specie ove esse non siano inerenti alle tematiche in ordine alle quali il consenso risulti eventualmente prestato in origine dall’avente diritto (Sez. V, 2008 n. 30664, Rv. 240452), non può condividersi, comunque, la tesi della sostanziale irrilevanza della foto, per la natura “scenica” della stessa. Infatti, trattasi di un’ immagine in cui risulta immortalato un professionista, chiaramente identificabile, che opera nel suo tipico contesto lavorativo e non certo di un attore.

Che la vicenda rappresentata, poi, si inserisca in realtà in un momento di finzione scenica è del tutto irrilevante, trattandosi di un dato noto soltanto alle persone fotografate, a chi ha scattato la foto e alla redazione del giornale, e non anche al lettore medio, al cui apprezzamento soltanto ci si deve riferire.

6. Proprio muovendo da quest’ultimo aspetto deve escludersi, tuttavia, la rilevanza penale del fatto in esame, stante l’assenza di offensività della pubblicazione. In proposito, deve osservarsi che non si ritiene di condividere l’impostazione della Corte territoriale che sembra far coincidere il concetto di “lettore medio” con quello di “lettore frettoloso”, incapace di andare oltre la lettura di titoli e foto, sminuendo la capacità dello stesso di sapersi orientare nella lettura e nell’analisi di tutti gli aspetti della pubblicazione di interesse.

Tale capacità deve cogliersi ancor più nel caso, come quello in esame, in cui la notizia risulta collocata all’interno del giornale, collocazione questa che presuppone appunto una lettura più accurata, non frettolosa o “di passaggio”, come quella indotta dall’esposizione del quotidiano nell’edicola ove risultano visibili i titoli di prima pagina.

6.1. La Corte territoriale afferma che nella fattispecie in esame il lettore medio, all’impatto visivo, ha sicuramente associato la figura del medico effigiato alla condanna, ritenendo in sostanza che tale lettore abbia tratto la conclusione della diffamatorietà dal mero abbinamento titolo/fotografia.

Tuttavia, le pronunce di questa Corte che hanno fatto riferimento al concetto di “lettore medio” non hanno inteso circoscriverlo in un ambito sì riduttivo quando hanno evidenziato che risulta integrato il reato di diffamazione laddove sia il contesto della pubblicazione a determinare un mutamento del significato apparente di una o più frasi altrimenti non diffamatorie, percepibile dal lettore medio (Sez. 5, n. 10372 del 18/05/1999; Sez. 5, n.4298 del 19/11/2015).

Anzi, nelle pronunce suddette si dà conto della perspicacia e capacità del lettore medio ad individuare il reale significato delle espressioni utilizzate nel contesto narrativo. 5.2. Nel caso in esame, il lettore medio, dunque, potrebbe solo ad un primo sguardo fraintendere eventualmente l’identità della persona condannata, attraverso l’associazione del solo titolo con l’immagine pubblicata, mentre il complessivo contesto in cui la fotografia ed il titolo sono inseriti induce senz’altro a una lettura progressiva di tutti gli elementi utili a cogliere il reale significato della notizia.

6.3. Diversi e ulteriori indici, infatti, concorrono nello smentire tale associazione.

In particolare, il sottotitolo “aveva prorogato i giorni di malattia a una paziente senza vistarla”, dà conto, invece, visivamente del contrasto tra quanto rappresentato nella foto (medico intento a colloquiare con la paziente) rispetto alla mancata visita per il rilascio del certificato.

Inoltre, la didascalia dell’immagine “anche l’Ordine (dei medici) richiama i medici al rigore nelle visite per i certificati di malattia” contiene un riferimento che non ha a che vedere con la condanna di un medico, raccordandosi piuttosto con l’oggetto del contenuto dell’articolo, contenente anche l’intervista al Presidente dell’Ordine dei medici di Milano, sulla denunciata e diffusa prassi di rilasciare i certificati medici al telefono.

Senza considerare, poi, il testo dell’articolo che stigmatizza la degenerazione dell’etica professionale dei medici, traendo spunto da una sentenza di condanna di un medico identificato con le sue iniziali, incompatibili con quelle della costituita parte civile che si assume lesa dalla pubblicazione.

6.4. In altri termini, nella fattispecie in esame, il lettore medio, sulla base di tutti gli elementi contenuti nella pubblicazione in contestazione, senza effettivi sforzi o particolare arguzia, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, è stato perfettamente in grado di avvedersi del fatto che la persona effigiata non aveva nulla a che vedere con il medico condannato, cui si riferisce il titolo dell’articolo.

Anche con una mera una progressione visiva, che percorre una sequenza che va dal titolo, al testo dell’articolo, comprensiva di tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione (oltre all’immagine, occhiello, sottotitolo e didascalia), ogni contenuto di diffamatorietà, pertanto, può essere nel caso di specie escluso.

6.5. Alla luce di quanto evidenziato, dunque, l’assenza di offensività della pubblicazione agli occhi del “lettore medio”, esclude il reato di cui all’art. 595 c.p. e conseguentemente quello di cui all’art. 57 c.p. ascritto all’imputato.

7. La sentenza impugnata va, dunque, annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Così deciso il 14.11.2019.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.