Pur sapendola innocente, accusa la moglie di tentato omicidio per avergli somministrato del veleno nel caffè (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 15 aprile 2020, n. 12208).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOGINI Stefano – Presidente

Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere

Dott. AMOROSO Riccardo – Consigliere

Dott. COSTANTINI Antonio – Rel. Consigliere

Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Scaroni Fabio, n. a Brescia il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 11/12/2018 della Corte di appello di Brescia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Emilia Anna Giordano;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Perla Lori che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Brescia ha confermato, oltre alle statuizioni civili in favore di Alessandra Gabana, la condanna di Fabio Scaroni alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di calunnia (art. 368 cod. pen.) commesso il 29 aprile 2015 quando, sapendola innocente, accusava la moglie, con la quale era in corso un procedimento di separazione giudiziale, del reato di tentato omicidio mediante la somministrazione, in due occasioni, di caffè avvelenato tanto da causargli i segni tipici di avvelenamento.

In particolare, attraverso la memoria istruttoria depositata ai sensi dell’art. 183, comma 6, n. 2 cod. proc. pen., a firma del difensore di fiducia, aveva deferito alla Gabana giuramento formale ai sensi dell’art. 228 cod. proc. civ. sulla circostanza che, in due occasioni, lo Scaroni manifestava sintomi di avvelenamento dopo avere bevuto un caffè offertogli dalla moglie.

2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il ricorrente denuncia violazione di legge, in relazione all’art. 368 cod. pen., per la ritenuta sussistenza del reato in carenza del dolo poiché, dal contenuto della memoria depositata al giudice civile, traspare l’intima e radicata convinzione dell’imputato circa la colpevolezza della moglie rispetto ai presunti episodi di avvelenamento, convincimento confermato dal contenuto dell’esame in dibattimento.

Erroneamente la Corte distrettuale non aveva riconosciuto lo stato d’animo compulsivo dell’imputato, esasperato dall’estenuante conflitto giudiziario con la moglie, tale da escludere la cosciente volontà di incolparla ingiustamente, poiché aveva travisato la realtà dei fatti essendosi sentito male subito dopo l’assunzione delle bevande offertegli.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati.

2. La sentenza impugnata ha confermato il giudizio di colpevolezza del ricorrente espresso in primo grado poiché ha ritenuto provata la falsità dell’accusa: irrilevante, ai fini della idoneità dell’accusa, era la circostanza che il giudice civile non avesse ammesso il mezzo di prova e riconducibile all’imputato la formulazione della falsa accusa, dal momento che era supportata da documentazione (i referti del 16 marzo e 21 ottobre 2013) forniti dallo Scaroni al difensore di fiducia.

Ha ritenuto, infine, sussistente, l’elemento psicologico del reato e la consapevolezza dell’innocenza della persona incolpata poiché strumentalmente, non era stato, invece, prodotto il risultato delle analisi effettuate in occasione degli accessi al Pronto Soccorso che avevano smentito l’assunzione di bevande alterate.

3. Le deduzioni difensive, in punto di dolo, non si confrontano con tale circostanza di fatto e rieditano argomentazioni, sullo stato d’animo dell’imputato – esasperato dalla protrazione della situazione di conflittualità giudiziaria con la moglie e fermamente convinto della fondatezza delle sue accuse – che i giudici di merito hanno esaminato pervenendo alla conclusione della coscienza e volontà, da parte dell’imputato, di accusare la moglie del reato di tentato omicidio, mediante avvelenamento, sapendola innocente, conclusione fondata su un dato di fatto incontrovertibile ovvero il risultato delle analisi tossicologiche, eseguite in occasione degli accessi al Pronto Soccorso, che smentiva l’assunto dello Scaroni, e che non erano state prodotte in occasione del deferimento del giuramento decisorio.

4. Le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale sono corrette alla stregua dei principi di diritto, in materia di accertamento della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di calunnia, enunciati da questa Corte, secondo i quali la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza della persona accusata può escludersi solo quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà, e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 46205, del 06/11/2009, Dennattè, Rv. 245541; Sez. 6, n. 27846, del 10/06/2009, Giglio, Rv. 244421).

La giurisprudenza di legittimità ha chiaramente tracciato una linea di discrimine, stabilendo che se l’erroneo convincimento sulla colpevolezza dell’accusato riguarda fatti storici concreti, suscettibili di verifica o, comunque, di una corretta rappresentazione nella denuncia, l’omissione di tale verifica o rappresentazione viene a connotare effettivamente in senso doloso la formulazione di un’accusa espressa in termini perentori.

Di contro, solo quando l’erroneo convincimento riguardi i profili valutativi della condotta oggetto di accusa, in sè non descritta in termini difformi dalla realtà, l’attribuzione dell’illiceità potrebbe apparire dominata da una pregnante inferenza soggettiva, come tale inidonea, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, ad integrare il dolo tipico del delitto di calunnia. Ne discende che l’ingiustificata attribuzione come vero di un fatto del quale non si è accertata la realtà presuppone la certezza della sua non attribuibilità sic et simpliciter all’incolpato.

5. A fronte di un quadro fattuale quale quello evidenziato dalla Corte di merito e, cioè, l’avere strumentalmente taciuto la negatività degli esami tossicologici e prospettato le sue convinzioni come vere, correttamente è stato escluso che l’erroneo convincimento dell’imputato riguardi profili valutativi della condotta oggetto di accusa e che l’attribuzione dell’illiceità potesse ritenersi dominata da una pregnante inferenza soggettiva, come tale inidonea ad integrare il dolo tipico del delitto di calunnia.

6. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed, essendogli imputabile la colpa nella proposizione di siffatto ricorso, il versamento della somma indicata in dispositivo a in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000.00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2020.

Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal Consigliere Emilia Anna Giordano, viene sottoscritto dal solo Consigliere anziano del Collegio per impedimento del Presidente del Collegio, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) del d.P.C.M. 8 marzo 2020.