Reati militari: l’accesso alla messa alla prova non costituisce un diritto assoluto dell’imputato (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 14 aprile 2021, n. 13975).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefania – Presidente –

Dott. FIORDALISI Domenico – Consigliere –

Dott. BONI Monica – Rel. Consigliere –

Dott. BINENTI Roberto – Consigliere –

Dott. RENOLDI Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI VENEZIA;

parte offesa;

nel procedimento contro:

(OMISSIS) Rossano nato a (OMISSIS) il 09/09/19xx;

avverso l’ordinanza del 05/10/2020 del TRIBUNALE MILITARE di VERONA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Monica BONI;

lette le conclusioni del PG, Dott. Luigi Maria FLAMINI, che ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 5 ottobre 2020 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Verona accoglieva l’istanza, avanzata dall’imputato (OMISSIS), di sospensione del procedimento per la messa alla prova ai sensi degli artt. 168-bis e 464-quater c.p.p. per la durata di mesi cinque, con obbligo, all’esito del quale periodo, di risarcire il danno a favore della persona offesa, Amministrazione militare, liquidato in via forfettaria nella somma di Euro 500,00, a devolvere all’Istituto Andrea Doria – Orfani della Marina militare.

A fondamento della decisione, rilevava che la pena irrogabile per il delitto di furto militare rientra nei limiti di anni quattro di reclusione, non dovendosi considerare la circostanza aggravante contestata e non ricorrendo situazioni ostative.

2. Ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte militare di appello, il quale ne chiede l’annullamento per violazione dell’art. 168-bis c.p., comma 1 e vizio di motivazione, che è apparente, illogica e criptica.

Secondo il ricorrente, il reato ascritto all’imputato, per il grado rivestito e l’utilizzo di congegno fraudolento, costituisce un reato grave punito con pena detentiva da tre a dieci anni e con la rimozione, se non con la degradazione e, nel caso specifico, la gravità oggettiva è confermata dall’entità del pregiudizio arrecato all’Amministrazione, posto che l’imputato fruiva di alloggio a titolo sostanzialmente gratuito, dovendo soltanto corrispondere le spese per consumi idrici ed elettrici; inoltre, anche il rapporto fiduciario con l’Amministrazione è stato gravemente compromesso.

A fronte di tali elementi il provvedimento ammissivo alla messa alla prova non tiene conto della oggettiva gravità del fatto e della ratio dell’istituto e la motivazione è intrinsecamente contraddittoria per avere ritenuto che l’imputato si fosse mostrato consapevole di quanto commesso, desumendo però tale conclusione dall’effetto deterrente derivante dal procedimento e dalla scelta di sottoporsi ad un programma di lavori di pubblica utilità.

Al contrario, dagli atti nulla indica che l’imputato abbia maturato un personale ravvedimento per non avere mai chiarito modalità e tempi della prolungata azione appropriativi, per cui deve ritenersi che il suo nucleo familiare abbia fruito di erogazione di energia elettrica gratuitamente sin dal luglio 2017, ossia dall’assegnazione dell’alloggio ASI, senza però che siano state rappresentate condizioni di difficoltà economica a giustificare quanto commesso e che abbia spontaneamente offerto di risarcire il danno.

Ancor più contraddittoria risulta l’ordinanza allorché ha proceduto alla quantificazione della somma a titolo di risarcimento del danno in modo forfettario, pari a due o tre fatture dei consumi, non all’entità effettiva del danno arrecato; non emergono i criteri utilizzati.

Il legislatore ha previsto il risarcimento del danno quale condizione cui è subordinata l’ammissione alla messa alla prova e lo stesso deve essere determinato in entità che favorisca il recupero dell’imputato e che sia corrispondente alle sue condizioni di vita ed al pregiudizio subito dalla vittima, oltre che allo sforzo massimo che il soggetto possa sostenere in base alle sue condizioni economiche.

Nel caso specifico il Giudice ha omesso di valutare tutti questi elementi e non ha verificato l’adeguatezza del programma sotto il profilo dell’apprezzabilità dello sforzo che l’imputato deve affrontare per eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

Inoltre, manca l’analisi dell’intensità del dolo e della condotta susseguente ai fatti, dalla quale emerge comunque l’assenza di segni di effettiva resipiscenza.

3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale militare presso la Corte di cassazione, Dott. Flamini Luigi Maria, ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

4. Con memoria in data 23 marzo 2021 la difesa ha dedotto che il ricorrente nelle more della trattazione del procedimento ha già provveduto a corrispondere il risarcimento del danno stabilito con l’ordinanza impugnata e che tale provvedimento è del tutto legittimo perché rispettoso dei criteri legali per l’ammissione alla messa alla prova e corredato da congrua motivazione.

Motivi della decisione

Il ricorso è parzialmente fondato e va accolto nei limiti in seguito indicati.

1. Il Procuratore ricorrente muove serrate critiche all’ordinanza impugnata per avere ammesso l’imputato all’istituto previsto dall’art. 168-bis c.p., pur in assenza dei presupposti legittimanti.

In particolare, contesta la decisione quanto all’apprezzamento della gravità del fatto di reato nella sua dimensione oggettiva, all’atteggiamento di reale resipiscenza del soggetto ed all’ammontare del risarcimento del danno impostogli.

L’ordinanza in contestazione, dopo avere argomentato sull’ammissibilità dell’istanza in relazione al reato ascritto all’imputato ed ai limiti edittali di pena, cui è soggetto, ed avere escluso la possibilità di un proscioglimento dello stesso ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ha escluso la sussistenza di cause ostative e formulato un positivo giudizio prognostico sull’astensione di (OMISSIS) dalla reiterazione di comportamenti criminosi a ragione dell’effetto deterrente prodotto dalla sottoposizione a procedimento penale, della consapevolezza di quanto commesso, del proposito di dedicarsi a lavori di pubblica utilità, dello stato d’incensuratezza e delle caratteristiche personologiche, elementi che, unitamente alla considerazione della gravità del reato, lo hanno indotto a ritenere adeguato il programma di trattamento proposto.

2. Va premesso che, in forza del rinvio operato dall’art. 261 c.p., mil. pace, per il quale “Salvo che la legge disponga diversamente, le disposizioni del codice di procedura penale si osservano anche per i procedimenti davanti ai tribunali militari”, è pacifica l’applicabilità al procedimento in cui siano contestati reati militari della normativa processuale ordinaria e quindi anche dello speciale rito della sospensione del processo con messa alla prova, non rinvenendosi ragioni per derogare al principio generale di complementarietà della disciplina processuale militare rispetto a quella ordinaria.

3. Si ricorda che la L. n. 67 del 2014, ha introdotto, mediante un corpo di disposizioni processuali contenute nel titolo V-bis del codice di procedura penale, artt. da 464-bis a 464-novies, ed una norma sostanziale, l’art. 168-bis c.p., il nuovo istituto della messa alla prova dei soggetti adulti.

Offre in tal modo l’opportunità anche per tali soggetti di accedere ad un rito alternativo al giudizio ordinario dibattimentale, caratterizzato dalla sospensione del processo e dalla sottoposizione ad un programma personalizzato di prestazione di lavori di pubblica utilità al fine di agevolare il percorso di reinserimento sociale della persona imputata e di evitarle la carcerazione, nonché di accelerare la definizione anticipata del procedimento.

3.1. Definite le linee del procedimento per l’ammissione al rito negli artt. 464-bis e 464-ter, il successivo art. 464-quater c.p.p., comma 3, demanda al giudice di assumere la relativa decisione in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p. sulla base dell’apprezzamento dell’idoneità del programma di trattamento presentato a realizzare il recupero del soggetto ed a prevenire la commissione di ulteriori reati.

3.2. La giurisprudenza di questa Corte ha già affermato che l’accesso alla messa alla prova non costituisce un diritto assoluto dell’imputato, la cui aspettativa può trovare accoglimento soltanto se la richiesta sia positivamente vagliata dal giudice in base al proprio potere discrezionale di valutazione delle caratteristiche del caso.

Il relativo giudizio deve avere quali criteri di riferimento la gravità del fatto di reato e la capacità a delinquere del soggetto e riscontrare “sia l’idoneità del programma di trattamento, sia la possibilità di formulare una prognosi favorevole nei confronti dell’imputato sulla circostanza che egli per il futuro si asterrà dal commettere ulteriori reati, previsione quest’ultima che, nel rifarsi alla formulazione dell’art. 164 c.p., comma 1 (con l’unica rilevante differenza che la valutazione riguarda la persona dell’imputato e non del “colpevole”), accomuna la causa di estinzione del reato di nuovo conio alla sospensione condizionale della pena, di cui all’art. 163 c.p. ” (sez., 5, n. 7983 del 26/10/2015, dep. 2016, Matera ed altro, rv. 266256).

Rileva poi che l’art. 464-bis c.p.p., comma 5, indichi anche gli strumenti conoscitivi in grado di offrire i dati informativi necessari per la formulazione della duplice prognosi, demandata al giudice richiesto di ammettere l’imputato alla prova; la norma stabilisce, infatti, che “al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni cui eventualmente subordinarla, il giudice può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato…”.

Si conviene, dunque, con l’orientamento interpretativo, già affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la lettura coordinata delle citate disposizioni autorizza a ritenere che la messa alla prova presuppone un giudizio di adeguatezza ed idoneità del programma proposto dall’imputato, valutata in base ai criteri dettati dall’art. 133 c.p. ed alle informazioni ed agli accertamenti che il giudice ritenga necessario acquisire.

3.3. L’art. 168-bis c.p., comma 2, nell’ottica di promuovere la revisione critica per i fatti criminosi commessi e di conseguire effetti socialpreventivi, stabilisce che la messa alla prova “comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato”.

Sotto questo profilo è dunque duplice, e non alternativo, il presupposto per ottenere la messa alla prova, nel senso che l’attività riparatoria deve, sia eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, sia, nei limiti del possibile, risarcire il danno cagionato alla persona offesa.

E che si tratti di condizioni necessarie per conseguire il beneficio è confermato dalle previsioni di cui agli artt. 464-quinquies, 464-septies e 464-octies c.p.p., per le quali, in caso di inadempimento delle prescrizioni imposte, il giudice dispone la revoca o la declaratoria di esito negativo dell’esperimento, ragione per la quale si è già affermato che il risarcimento della vittima costituisce condizione imprescindibile per l’accesso all’istituto (sez. 5, n. Sez. 3, n. 13235 del 02/03/2016, Venanzetti, Rv. 266322).

Con l’inserimento nel testo dell’art. 168, comma 2, della locuzione “ove possibile”, il legislatore ha inteso introdurre il rilievo della esigibilità in concreto della prestazione risarcitoria, da valutare in riferimento alla specifica vicenda processuale, tanto in relazione alla natura dell’illecito commesso ed alla produzione di un pregiudizio risarcibile in termini pecuniari, in modo da assicurare che il risarcimento corrisponda al danno, quanto alla situazione personale dell’imputato, che deve essere tale da consentirgli di compiere quanto impostogli.

Si tratta di un’indagine che non può avvalersi del giudizio di responsabilità, reso all’esito del percorso processuale di accertamento del reato e della sua attribuzione all’imputato, poiché l’introduzione del rito speciale della messa alla prova prescinde dalla condanna e dall’affermazione della colpevolezza.

Tuttavia, come osservato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 91 del 21/01/2018), il procedimento è assimilabile all’applicazione della pena a richiesta delle parti, perché, come accade per questo rito, l’imputato non contesta l’accusa che gli è mossa e si sottopone volontariamente in questo caso al trattamento, in quello alla pena.

Infatti, “non manca, in via incidentale e allo stato degli atti (perché l’accertamento definitivo è rimesso all’eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova), una considerazione della responsabilità dell’imputato, posto che il giudice, in base all’art. 464 quater c.p.p., comma 1, deve verificare che non ricorrono le condizioni per “pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129″ c.p.p., e anche a tale scopo può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, deve valutare la richiesta dell’imputato, eventualmente disponendone la comparizione (art. 464 quater c.p.p., comma 2), e, se lo ritiene necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione dell’art. 464 bis c.p.p., comma 5” (Corte Cost., sentenza n. 91/18 citata).

4. Confrontata la struttura argomentativa dell’ordinanza impugnata con i superiori principi, emerge l’infondatezza del ricorso quanto alle censure che lamentano vizi motivazionali in riferimento al riscontro di un effettivo atteggiamento di resipiscenza nell’imputato ed alla mancata percezione del reale e grave disvalore del fatto di reato.

4.1. Sotto il primo profilo deve ritenersi sufficiente e congruo il rilievo, operato dal giudice di merito, della volontaria sottoposizione ad un programma di trattamento, comprendente la prestazione di attività di pubblica utilità, che, rispetto al reato contestato, esprime un atteggiamento di mancata contestazione e di consapevolezza dell’illiceità della condotta tenuta.

4.2. In ordine, poi, alla valutazione sulla gravità oggettiva del reato, appare dirimente il rilievo della generica formulazione dell’accusa quanto alla protrazione temporale dell’appropriazione illegittima di energia elettrica ed alla precisa individuazione del quantitativo sottratto.

Sul punto il ricorso, pur illustrando i profili di particolare disvalore del fatto compiuto da un militare, già beneficiato della possibilità di occupare un alloggio di servizio dell’Amministrazione in condizioni di quasi gratuità, si è impegnato nel sostenere che il prelievo fraudolento dell’energia elettrica si sarebbe verificato sin dal luglio 2017, ossia dal momento dell’assegnazione dell’alloggio.

E’ agevole rilevare che, in difetto di specifici accertamenti condotti sui consumi misurati dal contatore condominiale e sul momento di insorgenza di un eventuale incremento, dipendente dalla deviazione dell’energia verso l’alloggio occupato da (OMISSIS) e comunque in ordine agli importi a tale titolo corrisposti dall’Amministrazione in luogo dell’assegnatario, l’assunto del ricorrente è svincolato da precise risultanze probatorie, il che è tanto più rilevante in quanto la richiesta, col parere favorevole del pubblico ministero militare, è stata accolta già nella fase delle indagini preliminari.

4.3. Al tempo stesso è, però, rispondente al vero che l’ordinanza impugnata ha provveduto a quantificare il risarcimento dovuto all’Amministrazione parte offesa in complessivi 500,00 Euro, somma individuata in base a stima forfetaria, suggerita nella relazione dell’U.E.P.E. in termini meramente simbolici.

Nel provvedimento impugnato difetta un ragionamento compiuto e verificabile, esplicativo dei criteri giustificativi di tale quantificazione, sia rispetto alla reale entità del pregiudizio arrecato alla persona offesa, sia rispetto alle possibilità materiali dell’imputato, il che viola il disposto dell’art. 168-bis c.p., comma 2, ed integra la carenza motivazionale denunciata col ricorso.

Infatti, il giudice, anziché recepire acriticamente le indicazioni dell’U.E.P.E., avrebbe dovuto attivare i propri poteri di indagine al fine di verificare presso l’Amministrazione militare la reale entità del danno subito e le condizioni economiche e patrimoniali dell’imputato al fine di riscontrare se la somma di cui ha imposto la corresponsione sia espressione del “massimo sforzo” da lui esigibile e si ponga in rapporto di proporzione e di adeguatezza con la materialità del reato e le sue conseguenze dannose.

5. Ne discende l’annullamento parziale dell’ordinanza impugnata quanto al profilo della quantificazione del risarcimento del danno con rinvio per nuovo giudizio al riguardo al G.i.p. del Tribunale militare di Verona, che dovrà attenersi ai principi di diritto sopra esposti.

6. Nel resto il ricorso va respinto.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente all’entità del danno da risarcire e rinvia per nuovo giudizio sul punto al G.i.p. del Tribunale militare di Verona.

Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, l’8 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2021.

Sentenza – copia non ufficiale -.