Circa 48mila euro. A tanto ammonta la somma che un paziente dovrà corrispondere al medico curante e all’azienda ospedaliera per averli trascinati in una lite temeraria, lamentando un danno iatrogeno non dimostrato e clamorosamente smentito dalle perizie nel corso del procedimento.
Lo ha deciso il Tribunale di Padova, con la recente sentenza n. 835/2015, rigettando il ricorso di un uomo che lamentava l’imprudente prescrizione di una terapia farmacologica destinata a curare una patologia oculistica che aveva finito per procurargli danni permanenti ai reni.
L’uomo, in particolare, sosteneva di essere stato “incredibilmente” privato della corretta informazione sulla pericolosità del farmaco e che, probabilmente, ove fosse stato correttamente informato, non avrebbe accettato il rischio di assumerlo, chiedendo, pertanto, un risarcimento di oltre mezzo milione di euro.
Ma il tribunale gli dà torto.
È vero che il consenso informato, ha affermato il giudice padovano, richiamando la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 2847/2010), “costituisce un valore in sé, un diritto che svolge la funzione di sintesi dei due diritti fondamentali della salute e all’auto-determinazione – e che – ogni persona ha diritto a essere informata in ordine alla natura e ai possibili sviluppi dell’atto terapeutico cui è sottoposta e delle eventuali terapie alternative”, ma è altrettanto vero che è il paziente “che deve dimostrare anche attraverso presunzioni che, ove correttamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento (nesso fra inadempimento e danno)”.
Posto che il rapporto rischi/benefici, deponeva a favore del (peraltro unico data l’assenza di terapie alternative) percorso terapeutico suggerito, e che la ricostruzione dell’attore sulle ragioni per cui aveva sospeso l’assunzione del farmaco (disattendendo le prescrizioni mediche) è stata smentita dalle operazioni peritali e che l’istruttoria ha escluso in maniera “macroscopica” il danno iatrogeno e la colpa del medico curante, “non si ritiene che la prova sia stata fornita”.
Anzi, a fronte delle allegazioni meramente infondate (relative all’insussistente macroinvalidità causata dal professionista, a supposti errori di diagnosi e esami di laboratorio, a gravi responsabilità derivanti da un’inopinabile negligenza del medico curante, determinata addirittura dalla mancata lettura del foglietto delle avvertenze del farmaco) portate a sostegno di una temeraria richiesta di risarcimento di oltre mezzo milione di euro, oltre alla prosecuzione della causa in mancanza di argomenti tecnici per ribattere alle conclusioni dei CTU e senza nemmeno depositare una comparsa conclusionale, il tribunale ha ravvisato quantomeno una colpa grave dell’attore, sanzionabile d’ufficio ex art. 96, comma 3, c.p.c.
E considerando l’entità del risarcimento richiesto e le spese processuali liquidabili ha determinato equitativamente la somma prevista dalla disposizione del codice di rito, per scoraggiare e sanzionare l’abuso del diritto, in euro 10mila per ciascuna delle parti convenute, oltre a quasi 28mila euro per le spese giudiziali.
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