REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI NICOLA Vito – Presidente
Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Rel. Consigliere
Dott. REYNAUD Gianni Filippo – Consigliere
Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE di PRATO
nei confronti di:
(OMISSIS) FRANCESCO nato a FIRENZE il 16/01/19xx;
(OMISSIS) ALESSANDRO nato a PRATO il 13/01/19xx;
avverso l’ordinanza del 04/03/2021 del TRIBUNALE di PRATO;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Aldo ACETO;
lette le conclusioni del PG, Dott. Gianluigi PRATOLA, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso del PM e l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato con trasmissione atti.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato ricorre per l’annullamento dell’ordinanza del 04/03/2021 del GUP del medesimo Tribunale che, pronunciando all’esito dell’udienza preliminare nel processo a carico di Francesco (OMISSIS) e Alessandro (OMISSIS), imputati del reato di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., affinché proceda con citazione diretta a giudizio.
1.1. Con unico motivo deduce l’abnormità del provvedimento impugnato osservando che:
a) ai fini dell’esercizio dell’azione penale con citazione diretta o con richiesta di rinvio a giudizio, occorre aver riguardo al massimo della pena edittale prevista per il reato al momento dell’esercizio dell’azione non alla pena vigente alla data di consumazione del reato;
b) nel caso di specie, il delitto di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, alla data della richiesta di rinvio a giudizio era punito con pena edittale di quattro anni e sei mesi di reclusione, con conseguente inapplicabilità dell’art. 550, comma 1, cod. proc. pen.;
c) il provvedimento del giudice produce una stasi irrisolvibile perché impone al pubblico ministero di esercitare direttamente l’azione penale in violazione dell’art. 550 cod. proc. pen. e, dunque, con atto nullo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso deve essere rimesso alle Sezioni Unite.
3. Osserva preliminarmente il Collegio:
3.1. si procede nei confronti degli imputati per il reato di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, commesso nelle date del 22/09/2014 e del 29/09/2016;
3.2. all’epoca della sua consumazione il reato era punito con pena massima edittale di tre anni di reclusione, elevata a quattro anni e sei mesi di reclusione dall’art. 39, comma 1, lett. d), d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157, con decorrenza dal 24/12/2019;
3.3. il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio depositata il 16/12/2020;
3.4. in tema di esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio, il rinvio previsto dall’art. 550 cod. proc. pen. alla pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni è “fisso” in quanto, stante l’inderogabilità del principio “tempus regit actum” in ambito processuale, va riferito alla norma vigente al momento dell’esercizio dell’azione penale e non già a quella di diritto sostanziale concretamente applicabile all’imputato, sulla base dei criteri che regolano la successione delle leggi penali del tempo (Sez. 2, n. 9876 del 12/02/2021, Rv. 280724 – 01; 3, Sez. 3, n. 18297 del 04/03/2020, Rv. 279238 – 01; Sez. 4, n. 4313 del 22/09/2000, Rv. 217661 – 01);
3.5. ne consegue che il PM aveva esercitato correttamente l’azione penale e che il GIP ha errato nell’affermare il contrario.
4. Quanto alla impugnazione della decisione del Giudice, la Corte ricorda che la legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati.
Così recita l’art. 568, comma 1, cod. proc. pen., che fissa il principio della tipicità e tassatività dei provvedimenti impugnabili e dei relativi mezzi di impugnazione, secondo il quale:
a) non è possibile impugnare un provvedimento se la legge non lo consente espressamente;
b) non è possibile impugnare un provvedimento con un mezzo diverso da quello espressamente previsto.
E tuttavia, l’art. 111, comma settimo, Cost., consente sempre il ricorso per cassazione contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali.
L’art. 568, comma 2, cod. proc. pen., codifica il principio stabilendo, a sua volta, che sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28.
La giurisprudenza di legittimità ne ha tratto argomento per dar corpo, già in costanza del precedente codice di rito, alla figura dei provvedimenti cd. abnormi, astrattamente non impugnabili in base al principio di tassatività e tipicità dei mezzi di impugnazione e tuttavia ricorribili per cassazione.
4.1. La figura dell’abnormità dei provvedimenti del giudice – spiega in motivazione Sez. U, n. 11 del 09/07/1997, Quarantelli – rappresenta il risultato di una lunga elaborazione giurisprudenziale con cui – a partire dall’entrata in vigore del codice del 1930 – è stata creata, accanto a quella tradizionale della invalidità, la categoria del provvedimento abnorme.
L’intento dichiarato di tale operazione di integrazione normativa è stato quello di introdurre un correttivo al principio della tassatività dei mezzi di impugnazione, nel senso che si è inteso apprestare il rimedio del ricorso per cassazione contro quei determinati provvedimenti che, pur non essendo oggettivamente impugnabili, risultino, tuttavia, affetti da anomalie genetiche o funzionali così radicali da non poter essere inquadrati in alcuno schema legale e da giustificarne la qualificazione dell’abnormità.
Il ricorso per cassazione costituisce, pertanto, pertanto, “Io strumento processuale utilizzabile per rimuovere gli effetti di un provvedimento che, per la singolarità e la stranezza del suo contenuto, deve essere considerato avulso dall’intero ordinamento giuridico” (cfr. Cass., Sez. Un., 9 maggio 1989, Goria).
In mancanza di una definizione legislativa, la giurisprudenza della Suprema Corte ha configurato il paradigma del provvedimento abnorme ponendone in risalto i caratteri salienti nel fatto che esso si discosta e diverge non solo dalla previsione di determinate norme ma anche dall’intero sistema organico della legge processuale, tanto da porsi come atto insuscettibile di ogni inquadramento normativo e da risultare imprevisto e imprevedibile rispetto alla tipizzazione degli atti processuali compiuta dal legislatore (Cass., Sez. III, 9 luglio 1996 P.M. in proc. Cammarata; Cass., I, 19 maggio 1993, La Ruffa ed altro, Cass., Sez., VI, 19 novembre 1992, Bosca; Cass., 22 giugno 1992, P.M. in proc. Zinno).
In altre decisioni è stato precisato che è abnorme non solo il provvedimento che, per la sua singolarità, non sia inquadrabile nell’ambito dell’ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite (Cass. Sez. III, 21 febbraio 1997, Cazzaniga ed altro; Cass., Sez. I, 11 giugno 1996, P.M. in proc. Settegrana; Cass., Sez. V, 13 gennaio 1994, P.M. in proc. Marino ed altro).
Nella ricerca degli elementi qualificanti la figura del provvedimento abnorme è stato altresì stabilito che l’atto abnorme rappresenta un’evenienza del tutto eccezionale essendo emesso in assoluta carenza di potere, oltre che con radicale divergenza dagli schemi e dai principi ispiratori dell’ordinamento processuale (Cass., Sez. VI, 30 settembre 1993, Russo ed altro), e che l’abnormità inerisce soltanto a quei provvedimenti che si presentano avulsi dagli schemi normativi e non anche a quelli che, pur essendo emessi in violazione di specifiche norme processuali, rientrano tra gli atti tipici dell’ufficio che li adotta (Cass., Sez. II, 10 aprile 1995, P.M. in proc. Saraceno).
Inoltre, è stato posto in luce che l’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché, per la- sua singolarità, si pone fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, pur non estraneo al sistema normativo, determina la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (Cass., Sez. III, 14 luglio 1995, P.M. in proc. Beggiato ed altri; Cass., Sez. V, 11 marzo 1994, P.M. in proc. Luchino ed altro).
L’assenza di criteri omogenei e uniformi di identificazione dei caratteri distintivi del provvedimento abnorme ha contribuito ad una progressiva estensione di tale categoria alla quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto ricorso per rimuovere situazioni processuali “extra ordinem” – altrimenti non eliminabili – create da provvedimenti del giudice inficiati da anomalie genetiche o funzionali che ne impediscono l’inquadramento nei tipici schemi normativi e li rendono incompatibili con le linee fondanti del sistema processuale.
È opportuno, poi, osservare che il legislatore del 1988, pur prendendo atto del diritto vivente e della flessibilità inerente alla nozione di provvedimento abnorme, ha preferito astenersi da qualsiasi diretto intervento normativo, motivando la scelta dell’esclusione di una espressa previsione dell’impugnazione dei provvedimenti abnormi con «la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione e la necessità di lasciare sempre alla giurisprudenza di rilevarne l’esistenza e di fissarne le caratteristiche ai fini della impugnabilità.
Se infatti, proprio per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per cassazione consente comunque l’esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall’ordinamento» (Relazione al prog. prel., pag. 126).
4.2. In sintesi: è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite.
L’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo strutturale, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (Sez. U, n. 17 del 10/12/1997 – dep. 1998 – Di Battista; Sez. U, n. 26 del 24/11/1999 – dep. 2000 – Magnani).
4.3. Dunque, come autorevolmente ricordato in motivazione da Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, «non si può ricorrere alla categoria dell’abnormità quando l’atto o il provvedimento che si vuole rimuovere rientri nei poteri del giudice che lo ha adottato, e cioè discende da un potere riconosciuto o attribuito dalla legge, dato che in tal caso nessuna estraneità al sistema può evidenziarsi.
Così è nell’ipotesi in cui si faccia valere l’inosservanza di norme che prevedono l’adozione di un determinato atto a date condizioni di fatto, e l’eventuale insussistenza delle stesse ne determina l’illegittimità ma non l’abnormità e, quindi, si tratterà di un provvedimento “contro norma” ma non “extra norma” (…) la configurazione di un atto abnorme non richiede verifica ulteriore rispetto a quella concernente l’assenza di potere del giudice di provvedere, con la conseguenza che il ricorso per cassazione con denuncia di abnormità non può autorizzare la verifica, in sede di legittimità, di un vizio di legge del provvedimento, ex art. 606 comma 1 lett. c) c.p.p., “salvo eludere lo stesso fondamento del concetto di abnormità” e porre nel nulla il principio di tassatività delle impugnazioni» (nello stesso senso, già Sez. U, n. 4 del 31/01/2001, Romano, secondo cui «va peraltro ribadita la rigorosa affermazione giurisprudenziale (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 22.11.2000, P. M. in proc. Boniotti) per la quale il solo fatto che un provvedimento sia inficiato da una qualsivoglia violazione di legge non ne giustifica, di per sé, l’immediata ricorribilità per cassazione in nome della categoria dell’abnormità, la quale non può essere surrettiziamente utilizzata, dilatandone i confini, al fine di aggirare la preclusione correlata alla tipicità dei mezzi d’impugnazione secondo il dettato degli artt. 568 e 586 del codice di rito, insieme con il principio di tassatività delle nullità stabilito dall’art. 177 stesso codice»).
5. Tanto premesso, sulla natura abnorme del provvedimento del giudice che erroneamente dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 33-sexies, cod. proc. pen., persiste un irrisolto contrasto interpretativo:
5.1. un primo orientamento sostiene non essere abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto della qualificazione del fatto come reato procedibile a citazione diretta, trattandosi di atto che non si pone al di fuori del sistema normativo e non determina un’irrimediabile stasi processuale (Sez. 2, n. 23814 del 17/07/2020, Rv. 279547 – 01; Sez. 6, n 6945 del 05/02/2019, Rv. 275083 – 01; Sez. 6, n. 41037 del 20/10/2009, Rv. 245033 – 01);
5.2. un secondo orientamento, maggioritario, afferma, invece, che è abnorme, in quanto determina una indebita regressione del processo, il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare il quale, investito della richiesta di rinvio a giudizio per un reato che prevede la celebrazione dell’udienza preliminare, disponga, previa riqualificazione giuridica del fatto, la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., affinché si proceda con citazione diretta (Sez. 1, n. 30062 del 29/09/2020, Rv. 279729 – 01; Sez. 3, n 18297 del 04/03/2020, Rv. 279238 – 01; Sez. 5, n. 10531 del 20/02/2018, Rv. 272593 – 01; Sez. 5, n. 35153 del 19/04/2016, Rv. 267766 – 01; Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014, Rv. 261397 – 01).
5.3. Il primo orientamento ha trovato autorevole avallo nella motivazione della sentenza Sez. U, n. 48590 del 18/04/2019, Sacco, n.m. sul punto, secondo cui «la disciplina dell’art. 33-sexies cod. proc. pen. va necessariamente correlata a quella relativa al termine entro il quale rilevare od eccepire l’inosservanza delle disposizioni relative alla cognizione monocratica o collegiale.
L’art. 33-quinquies cod. proc. pen., infatti, stabilisce che l’erronea individuazione dell’attribuzione collegiale o monocratica deve essere eccepita o rilevata a pena di decadenza “prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall’art. 491, comma”.
Dalla lettura coordinata delle norme sopra richiamate, quindi, si desume che il modulo procedurale previsto all’art. 33-sexies cod. proc. pen. è riferito ai casi in cui il vizio nella modalità dell’esercizio dell’azione è desumibile dalla stessa formulazione dell’imputazione; ha riguardo, cioè, ai fatti-reato così come contestati dal pubblico ministero, non già a quelli, eventualmente ridotti o diversi, ritenuti dal giudice all’esito dell’esame nel merito della richiesta di rinvio a giudizio e degli atti sui quali essa si fonda (vedi, Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162).
La previsione di termini preclusivi richiede infatti necessariamente la preesistenza, e quindi la conoscibilità per le parti, del presupposto per l’esercizio della facoltà, sicché il regime dell’eccezione di parte di cui all’art. 33-quinquies cod. proc. pen. e la relativa decadenza devono necessariamente riferirsi all’imputazione originaria così come formulata dal pubblico ministero e non si applicano alla diversa ipotesi del mutamento dell’imputazione per effetto di una sopravvenuta diversa valutazione da parte del giudice dell’udienza preliminare».
5.4. Nel caso di specie, il GUP non ha operato una diversa qualificazione del fatto contestato dal PM sicché la sua decisione, ancorché errata, sembra porsi nel solco fisiologico di uno dei possibili esiti decisori dell’udienza preliminare:
a) rinvio a giudizio;
b) sentenza di non luogo a procedere;
c) trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda con citazione diretta a giudizio.
Il pur sempre possibile vizio del provvedimento che definisce l’udienza preliminare non ne legittima automaticamente l’impugnazione quale meccanismo riparatorio.
La decisione del GUP di trasmettere gli atti al PM ai sensi del primo comma dell’art. 33-sexies cod. proc. pen. produce gli effetti contemplati dal secondo comma: formazione del fascicolo del dibattimento e trasmissione degli atti al giudice competente il quale ben potrebbe condividere la decisione del GUP, ma anche disattenderla e restituire gli atti al PM (art. 550, comma 3, cod. proc. pen.).
In tal caso, la decisione del giudice del dibattimento prevale su quella del GUP (art. 28, comma 2, cod. proc. pen.) il quale dovrà necessariamente celebrare l’udienza preliminare entrando questa volta nel merito della regiudicanda.
5.5. Si tratta di meccanismo farraginoso ma, come ricordato da Sez. U, Sacco, cit., «la previgente formulazione dell’alt. 33-sexies cod. proc. pen. non contemplava la regressione del procedimento dinanzi al pubblico ministero, prevedendo invece che fosse il giudice dell’udienza preliminare, una volta ritenuta la cognizione del tribunale in composizione monocratica, ad emettere il decreto di citazione a giudizio, disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero. La differente scelta compiuta con la modifica dell’art. 33-sexies cod. proc. pen. operata con l’art. 47 I. 16/12/1999, n. 479, nel senso di prevedere la regressione del procedimento è stata generalmente ricondotta alla prevalente necessità di garantire la netta separazione tra le diverse forme dell’esercizio dell’azione penale per i reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, risultando la citazione diretta una prerogativa propria all’organo dell’accusa».
5.6. Altrimenti ragionando si perverrebbe all’introduzione per via “pretoria” di un mezzo di impugnazione sostanzialmente “tipizzato” (ancorché non espressamente previsto) ogni volta che il giudice erroneamente escluda che per il reato così come contestato si debba procedere con richiesta di rinvio a giudizio.
Nè si può affermare che in tal modo il PM sarebbe costretto ad emettere un atto nullo; il decreto di citazione diretta a giudizio emesso nei casi in cui è necessaria l’udienza preliminare non è nullo, non soccorrendo alcuno dei casi previsti dall’art. 552, comma 2, cod. proc. pen.
Nè si può affermare che tale eventualità – che secondo l’indirizzo maggioritario creerebbe una stasi del processo – non sia stata prevista dal legislatore al punto da creare un vuoto colmabile con il rimedio dell’abnormità.
Deve piuttosto essere stigmatizzato il pericolo che la valutazione sulla correttezza dell’operato del giudice possa influire (nel senso di “creare un pregiudizio”) sulla qualificazione dell’atto come abnorme: una cosa è l’abnormità dell’atto, altra è la sua erroneità.
5.7. Successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite, Sacco, la Corte è tornata nuovamente sull’argomento ribadendo, con pronuncia di questa Sezione ampiamente citata dal PM ricorrente a sostegno del ricorso, che è abnorme, in quanto determina una indebita regressione del procedimento, l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, investito di richiesta di rinvio a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio (Sez. 3, n. 18297 del 2020, cit.).
La pronuncia in questione si segnala per il fatto che il giudice non aveva riqualificato il fatto così come contestato ma si era limitato a sostenere che in ordine al reato di cui all’art. 4, comma 4-bis, I. 13 dicembre 1989, n. 401, commesso il 26 giugno 2018, si dovesse procedere con citazione diretta a giudizio ex art. 550 cod. proc. pen., incorrendo nello stesso errore nel quale è incorso il giudice del provvedimento oggi impugnato.
La Corte di cassazione aveva in quel caso ritenuto abnorme il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero sul rilievo che «qualora (..) esercitasse l’azione penale con citazione diretta a giudizio, porrebbe in essere un atto nullo, con le conseguenze previste dall’art. 550, comma 3, cod. proc. pen., trattandosi di reato per il quale, al momento della richiesta di rinvio a giudizio correttamente avanzata ex art.416 cod. proc. pen., era prevista, come tuttora lo è, la celebrazione dell’udienza preliminare».
5.8. La paventata nullità del decreto di citazione diretta a giudizio per un reato per il quale il codice di rito prevede la richiesta di rinvio a giudizio costituisce, insieme con la mancata riqualificazione del reato, argomento non affrontato dalle Sezioni Unite, Sacco, e per certi versi nuovo che “rafforza” la tesi, maggioritaria, come detto, della abnormità del provvedimento.
5.9. La persistenza dell’irrisolto contrasto giurisprudenziale impone la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite in ordine al seguente quesito di diritto:
«se sia abnorme il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che, ai sensi dell’art. 33-sexies, comma 1, cod. proc. pen., disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero nell’erroneo presupposto che per il reato per il quale è stato richiesto il rinvio giudizio, l’azione penale debba essere esercitata con citazione diretta a giudizio».
P.Q.M.
Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, l’1/10/2021.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2021.