Una donna riferisce alla sorella di gravi ustioni al petto, alla schiena, al viso e agli arti inferiori attribuendole a un incidente domestico. I sospetti cadono subito su un convivente di una figlia della sorella che coabitava con la madre e la sua famiglia, e autore di precedenti episodi di violenza verso la persona offesa e la di lei figlia più piccola. 8 anni di reclusione (Cassazione penale sez. I, sentenza 7 aprile 2015, n. 14043).

1. Con sentenza del 12 febbraio 2013 la Corte dì appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza del 29 marzo 2012 del G.u.p. del Tribunale di Nicosia che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato S.G. colpevole del reato di tentato omicidio aggravato in danno di G.R., commesso in (OMISSIS), e l’aveva condannato alla pena di anni otto di reclusione, già ridotta per la scelta del rito.

1.1. La vicenda era stata ricostruita in primo grado sulla base delle emergenze degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero, movendo dalla denuncia sporta l’11 settembre 2011 ai Carabinieri di Regalbuto da G.P., che aveva riferito in merito alle gravi ustioni rilevate al petto, alla schiena, al viso e agli arti inferiori della sorella R., che le aveva attribuite a un incidente domestico; aveva rappresentato i suoi dubbi circa la veridicità del racconto e aveva espresso i suoi sospetti riguardanti S.G., convivente di una figlia della sorella, V. V., che coabitava con la madre e la sua famiglia, e autore di precedenti episodi di violenza verso la persona offesa e la di lei figlia più piccola, V.V..

Tali sospetti avevano trovato conferma:

– nei referti medici, essendo emerso che le ustioni per la loro estensione sulla superficie corporea (interessata per il trentacinque per cento) non erano compatibili con un incidente domestico;

– nel racconto della stessa persona offesa, che aveva dichiarato ai Carabinieri che S., che l’aveva attaccata lamentandosi per la possibile contaminazione del cibo derivante dall’uso dei detersivi, aveva appiccato il fuoco dopo averle cosparso il corpo con alcool;

– nelle dichiarazioni di V.V., che aveva riferito che il giorno del fatto, dopo il pranzo, aveva iniziato a litigare verbalmente con la madre G.R., avendo appreso da alcuni giorni che V.S.G., marito della stessa, non era suo padre biologico. Il compagno S., intervenuto, aveva colpito G.P. con schiaffi, le aveva gettato dell’alcool sulla parte superiore del corpo e le aveva lanciato contro una sigaretta accesa che stava fumando, allontanandosi freddamente mentre la donna era stata investita dalle fiamme.

La persona offesa era stata subito soccorsa con il ricorso all’acqua e alle patate e, quando le condizioni di salute erano peggiorate, era stata ricoverata presso l’Ospedale (OMISSIS).

1.2. Secondo il G.u.p. sussistevano tutti i presupposti del tentativo di omicidio, avuto riguardo alla idoneità degli atti, dotati di sicura efficienza causale in ordine alla determinazione dell’evento, essendo stato utilizzato un quantitativo non indifferente di liquido infiammabile che aveva interessato più di un terzo della superficie corporea della persona offesa, sede di zone particolarmente delicate, e tenuto conto della condotta tenuta dall’imputato, che, dopo avere appiccato il fuoco, si era allontanato disinteressandosi delle condizioni della medesima.

Nè era necessaria alcuna perizia medica, poichè l’idoneità e l’univocità della condotta non dipendevano dalla entità delle lesioni patite dalla vittima, ma dalla potenzialità offensiva dell’azione e dalla sua attitudine a cagionare l’evento.

2. La Corte di appello, dopo aver ripercorso la vicenda, sintetizzando l’ampia ricostruzione operata dalla sentenza di primo grado, esponeva le censure opposte dall’imputato appellante e rilevava, in particolare, che:

– era fondata la qualificazione del fatto in termini di tentato omicidio, poichè la persona offesa aveva riportato ustioni di primo e secondo grado, estese al petto, al viso, agli arti superiori e alla schiena e coprenti vasta zona corporea e, ricoverata con riserva di prognosi sulla vita, era stata sottoposta a terapie nel Centro di grandi ustioni di Catania.

Tali ustioni erano da qualificare gravi perchè evolvibili, secondo la scienza medica, in una fase di tossicosi e verso un quadro di sepsi. L’idoneità della condotta a provocare l’evento morte, da valutarsi ex ante, era senz’altro accertata e non era necessario riaprire l’istruzione per ulteriori accertamenti medico-legali;

– era infondata la richiesta del riconoscimento dell’attenuante della provocazione, poichè il motivo posto a base della lite, e riportato nella prima sentenza, non poteva giustificare uno stato depressivo e reattivo sull’imputato, che quindi non poteva invocare alcuno stato d’ira.

3. Avverso la sentenza di appello, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia avv. Avila Giovanni, chiedendone l’annullamento sulla base di due motivi.

3.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), la mancata assunzione di prova decisiva e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Secondo il ricorrente, la Corte di appello è incorsa nei dedotti vizi per non avere ammesso l’accertamento medico-legale, che avrebbe permesso di stabilire l’idoneità dell’azione alla causazione dell’evento, in relazione alla entità reale delle lesioni subite dalla persona offesa, anche verificando la zona inizialmente attinta dal liquido infiammabile, le conseguenze dirette dell’azione e quelle derivanti dalle fiamme dell’indumento, i postumi inemendabili delle lesioni o l’irrilevanza delle ferite invece realizzate.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., in relazione agli artt. 133 e 62-bis c.p., per non avere la Corte adeguatamente motivato in ordine alla entità della pena e al diniego delle attenuanti generiche, non dando alcun rilievo al contesto familiare in cui si era consumato il reato e all’impeto d’ira che lo aveva determinato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le censure svolte dal ricorrente con il primo motivo riguardano, nella loro formale deduzione, la incorsa violazione di legge e l’incorso vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), per la mancata assunzione di una prova decisiva e si riferiscono, nella prospettazione del vizio, al rigetto, nei due gradi del giudizio di merito, della richiesta perizia medicolegale volta ad accertare l’entità delle lesioni subite dalla persona offesa e l’eventuale idoneità delle stesse a metterne in pericolo la vita.

1.1. Secondo principi consolidati, in tema di giudizio abbreviato, posta la possibilità per il giudice di primo grado di assumere, anche di ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione ai sensi dell’art. 441 c.p.p., comma 5, (come modificato con L. n. 479 del 1999), al giudice di appello è consentito disporre di ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, secondo il disposto dell’art. 603 c.p.p., comma 3.

Le parti, che, prestato il consenso all’adozione del rito abbreviato “senza integrazione probatoria” e, per il pubblico ministero, nonostante la sopravvenuta esclusione di un suo potere di consenso (con la citata L. n. 479 del 1979), hanno definitivamente rinunciato al diritto alla prova – così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge, invece, nelle forme ordinarie del dibattimento-, possono, invece, solo sollecitare (in virtù del rinvio dell’art. 443 c.p.p., comma 4, all’art. 599 c.p.p., e, quindi, al comma terzo di questo articolo, che a sua volta rinvia al successivo art. 603 c.p.p.) i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di appello (tra le altre, Sez. U, n. 93 del 13/12/1995, dep. 29/01/1996, Clarke, Rv. 203427; Sez. 1^, n. 13756 del 24/01/2008, dep. 02/04/2008, Diana, Rv. 239767; Sez. 2^, n. 14649 del 21/12/2012, dep. 28/03/2013, Santostasi, Rv. 255358; Sez. 2^, n. 45329 del 01/10/2013, dep. 11/11/2013, Caricola, Rv. 257498), senza che il mancato esercizio da parte del giudice di appello dei sollecitati poteri officiosi di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, nei casi previsti dall’art. 603 c.p.p., comma 3, possa tradursi in un vizio deducibile mediante ricorso per cassazione, poichè alla esclusione di un diritto proprio dell’imputato a richiedere la rinnovazione della istruzione corrisponde l’esclusione dell’obbligo per il giudice di motivare il diniego di tale richiesta (tra le altre, Sez. 6^, n. 7485 del 16/10/2008, dep. 20/02/2009, Monetti, Rv. 242905; Sez. 2^, n. 25659 del 15/05/2009, dep. 18/06/2009, Marincola e altri, Rv. 244163; Sez. 2^, n. 3609 del 18/01/2011, dep. 01/02/2011, Sermone e altri, Rv. 249161).

1.2. Deve inoltre rilevarsi che, con riguardo al giudizio di appello, questa Corte ha anche più volte affermato che la deducibilità della mancata assunzione di una prova decisiva (tale intendendosi quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante, come da ultimo Sez. 4^, n. 259323 del 23/01/2014, dep. 12/02/2014, Di Meglio, Rv. 259323), quale motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), è possibile solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo lo pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse, secondo il disposto dell’art. 603 c.p.p., comma 2, (tra le altre, Sez. 5^, n. 10858 del 21/10/1996, dep. 19/12/1996, Bruzzise, Rv. 207067; Sez. 6^, n. 26713 del 30/04/2003, dep. 19/06/2003, Gervasi, Rv. 227706; Sez. 2^, n. 44313 del 11/11/2005, dep. 05/12/2005, Picone, Rv. 232772; Sez. 5^, n. 34643 del 08/05/2008, dep. 04/09/2008, PG e De Carlo, Rv. 240995; Sez. 3^, n. 11530 del 29/01/2013, dep. 12/03/2013, A.E., Rv. 254991), mentre negli altri casi previsti (art. 603 c.p.p., commi 1 e 3) la decisione istruttoria del giudice di appello è censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’indicato art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495 c.p.p., comma 2, (tra le altre, Sez. 6^, n. 33105 del 08/07/2003, dep. 05/08/2003, P.G. in proc. Pacor, Rv. 226534; Sez. 1^, n. 16772 del 15/04/2010, dep. 03/05/2010, Z., Rv. 246932; Sez. 2^, n. 841 del 18/12/2012, dep. 09/01/2013, Barbero, Rv. 254052; Sez. 2^, n. 9763 del 06/02/2013, dep. 01/03/2013, P.G. in proc. Muraca, Rv. 254974).

1.3. Con specifico riguardo al procedimento peritale, si è, in particolare, fissato il principio, ormai consolidato, secondo cui la perizia non è riconducibile al concetto di prova decisiva, la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), poichè il diritto alla controprova, riconosciuto all’imputato e al pubblico ministero dall’art. 495 c.p.p., comma 2, espressamente richiamato dall’indicata lett. d) dell’art. 606 c.p.p., e che sancisce il diritto del primo all’ammissione delle prove dedotte a discarico sui fatti costituenti oggetto della prova a carico e il diritto del secondo all’ammissione delle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico, non può avere a oggetto l’espletamento di una perizia, mezzo di prova per sua natura neutro e, come tale, non classificabile nè a carico nè a discarico dell’imputato, sottratto al potere dispositivo delle parti e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità (tra le altre, Sez. 1^, n. 9788 del 17/06/1994, dep. 13/09/1994, Jahrni, Rv. 199279; Sez. 1^, n. 11539 del 23/10/1997, dep. 15/12/1997, Geremia, Rv. 209137; Sez. 4^, n. 9279 del 12/12/2002, dep. 28/02/2003, Bovicelli, Rv. 225345; Sez. 4^, n. 14130 del 22/01/2007, dep. 05/04/2007, Pastorelli, Rv. 236191; Sez. 6^, n. 43526 del 03/10/2012, dep. 09/11/2012, Ritorto e altri, Rv. 253707; Sez. 4^, n. 7444 del 17/01/2013, dep. 14/02/2013, Sciarra, Rv. 255152).

1.4. Alla stregua di tali condivisi principi, è esente da vizi logici e giuridici la decisione della Corte di merito che, in procedimento svoltosi nelle forme del chiesto giudizio abbreviato non condizionato, ha rigettato la richiesta di riapertura della istruzione per svolgere ulteriori accertamenti medico-legali sulle lesioni patite dalla persona offesa, ragionevolmente rilevando la carenza del requisito dell’assoluta necessità.

A tal fine la Corte ha coerentemente riferito la valutazione da compiersi, secondo i criteri che presiedono alla configurabilità del delitto tentato (tra le altre, Sez. 1^, n. 39293 del 23/09/2008, dep. 21/10/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1^, n. 27918 del 04/03/2010, dep. 19/07/2010, Resa e altri, Rv. 248305; Sez. 1^, n. 32851 del 10/06/2013, dep. 29/07/2013, Ciancio Cateno, Rv. 256991), a un giudizio -non condizionato dagli effetti realmente raggiunti- di oggettiva idoneità dell’azione a provocare l’evento morte con riferimento al momento del suo compimento, e ha logicamente evidenziato, nell’indicato contesto prognostico, che tale idoneità è stata sicuramente accertata, alla luce dei richiamati dati fattuali e delle ripercorse emergenze afferenti alla zona corporea (superiore a un terzo dell’intera superficie) della persona offesa interessata dalle ustioni, conseguite all’utilizzo in suo danno di liquido infiammabile e negativamente evolvibili.

1.5. I rilievi svolti resistono alle censure difensive, che mentre sono inammissibili sotto il profilo della violazione di legge, per il già indicato limite del sindacato ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), introducono, sotto l’aspetto della contestazione della congruenza logica della decisione e della completezza della valutazione delle risultanze probatorie, deduzioni e osservazioni che, non coordinate con il ragionamento probatorio svolto dalla Corte di appello, nè correlate con le risposte già ricevute ad analoghe deduzioni già sostenute e discusse dinanzi alla stessa, si risolvono, nel contesto di una erronea prospettiva di analisi del reato in concreto ex post, in non consentite digressioni in alternative valutazioni di merito.

1.6. Consegue agli svolti rilievi la dichiarazione d’inammissibilità del primo motivo.

2. Anche il secondo motivo, che attiene al trattamento sanzionatorio, è inammissibile.

2.1. La censura riferita alla entità della pena inflitta è, invero, preclusa ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, non avendo formato oggetto dei motivi di appello, oltre a essere del tutto generica nella sua formulazione, avendo già il primo Giudice evidenziato che la pena base era pari a dodici anni, corrispondente al minimo edittale previsto dall’art. 56 c.p., in caso di delitto punito con l’ergastolo, come è il caso in esame valutate tutte le aggravanti ascritte.

2.2. La manifesta infondatezza della doglianza, riguardante il contestato disposto diniego delle attenuanti generiche, consegue alle logiche notazioni che la Corte di appello ha svolto, nel congruo esercizio del suo potere discrezionale, in merito al rilievo riconosciuto alla negativa personalità del ricorrente, desunta dalle modalità del fatto e attestata dai suoi precedenti penali, che ne hanno confermato il carattere dispotico e aggressivo, con apprezzamento di sub valenza delle ragioni dedotte a sostegno della richiesta e ora genericamente riproposte.

3. Alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso segue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè -valutato il contenuto del ricorso e in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità- al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2015