REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SABEONE Gerardo – Presidente
Dott. BORRELLI Paola – Consigliere
Dott. MICHELI Paolo – Consigliere
Dott. MINCHELLA Antonio – Consigliere
Dott. SCORDAMAGLIE Irene – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
dalla parte civile: CISTERNA ALBERTO MARIA nato a (OMISSIS) il xx/xx/xxxx;
nel procedimento a carico di:
MANCINI PIETRO nato a (OMISSIS) il xx/xx/xxxx;
LAVITOLA VALTER nato a (OMISSIS) il xx/xx/xxxx;
avverso la sentenza del 14/12/2018 della CORTE APPELLO di PERUGIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa IRENE SCORDAMAGLIA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.sa MARIA FRANCESCA LOY che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso con rinvio al Giudice civile competente;
udito il difensore l’avv. GIOVANNI PASSALACQUA insiste nell’accoglimento del ricorso. Deposita conclusioni scritte e nota spese.
L’avv. ANTONIO CERSOSIMO conclude con l’inammissibilità del ricorso della parte civile. Nel merito conclude per il rigetto.
L’avv. LUCA PUCCETTI conclude per l’inammissibilità. In subordine, per il rigetto con conseguenziale conferma del provvedimento impugnato.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Perugia, con la sentenza impugnata, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, in data 15 settembre 2016, ha assolto Mancini Pietro e Lavitola Walter dai delitti loro rispettivamente ascritti, di diffamazione a mezzo della stampa, il primo, commesso attribuendo, in un articolo apparso sul quotidiano ‘L’Avanti’, al magistrato Alberto Maria Cisterna di non essere stato garantista nei confronti del padre, Giacomo Mancini, e di omesso controllo sul contenuto del periodico di cui era direttore responsabile, il secondo, perché il fatto addebitato all’articolista non costituiva reato, in quanto privo di carattere offensivo per la reputazione del Dottor Cisterna, costituitosi parte civile.
2. Ricorre la menzionata parte civile, con tre motivi, per la cassazione della sentenza di assoluzione degli imputati.
2.1. Con il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 595 cod. pen.: la Corte territoriale, per un verso, avrebbe omesso di valutare la portata offensiva dell’espressione utilizzata dall’articolista: «Il non essere stato il Dottor Cisterna garantista nei confronti dell’Onorevole Giacomo Mancini» nel più ampio contesto comunicativo nel quale questa era inserita, in cui, sotto il titolo: «Chi di pentiti ferisce», si era evocata la vicenda che aveva visto per protagonista il padre dell’articolista stesso, rinviato a giudizio dal magistrato esponente sulla base delle «panzane dei pentiti», e, per altro verso, non avrebbe tenuto conto di quanto l’attribuzione del fatto di non essere stato garantista leda il prestigio sociale e professionale di un magistrato, gettando ombre sulla sua preparazione e serenità di giudizio, a prescindere dalla collocazione del riportato giudizio in una rivista specializzata o in una pubblicazione destinata all’informazione di una categoria indifferenziata di lettori.
2.2. Con il secondo motivo denuncia il vizio di motivazione, stigmatizzata come del tutto mancante, per essere l’affermazione contenuta in sentenza, circa il difetto di carattere diffamatorio dell’attribuzione ad un magistrato del fatto di non essere stato garantista, del tutto assertiva, in quanto frutto dell’omessa valutazione dell’enunciato esaminato nel contesto comunicativo nel quale era inserito.
2.3. Con il terzo motivo denuncia il vizio di motivazione da travisamento della sentenza di primo grado.
3. Con memoria in data 7 gennaio 2020, il difensore dell’imputato ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1. La Corte territoriale, preso atto che il Tribunale aveva ritenuto che dell’articolo a firma di Pietro Mancini, dal titolo «Chi di pentiti ferisce», apparso sul quotidiano ‘L’Avanti’, nella pagina del 25 giugno 2011, dovesse ritenersi diffamatoria nei confronti della parte civile costituita, Dottor Alberto Maria Cisterna, soltanto la parte che riportava il giudizio di negazione del garantismo di questi, allorché si era occupato, da Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Reggio Calabria, del processo che aveva visto imputato Giacomo Mancini, ha ribaltato il verdetto di colpevolezza pronunciato dal primo giudice, ritenendo che l’enunciato: « non essere stato il magistrato Dottor Cisterna garantista», per il comune cittadino, lettore di un quotidiano di informazione e non di una rivista specializzata, non esprime un significato dispregiativo, evocativo di negligenza o di un atteggiamento vessatorio, ma allude, latamente, soltanto al non essersi il magistrato conformato alla presunzione di non colpevolezza.
2. La riportata motivazione, pur calato l’evocato enunciato valutativo sul quale verte lo scrutinio nel contesto espressivo dal quale è stato enucleato, come richiesto dalla parte civile ricorrente con il primo motivo di ricorso, è giuridicamente corretta.
Considerata, infatti, l’accezione generale e atecnica del termine garantista, quale quella da prendere in considerazione nella fattispecie concreta – avuto riguardo alla platea di destinatari del pezzo giornalistico di cui si discute -, che si incentra sul rispetto, da parte di chi venga definito tale, delle garanzie costituzionali, e rilevata l’assenza, nell’articolo a firma dell’imputato, di qualsivoglia riferimento all’esercizio arbitrario o irregolare da parte del magistrato parte offesa delle proprie funzioni, essendogli stato soltanto attribuito di «avere creduto alle panzane dei pentiti», va riconosciuto che il giudizio negativo espresso dal giornalista Pietro Mancini nei confronti del Dottor Alberto Maria Cisterna, con lo stigmatizzarne l’assenza di garantismo nell’occuparsi del processo a carico di Giacomo Mancini, lungi dal risolversi in un attacco alla sfera dell’identità personale e professionale del magistrato, traduce esclusivamente il pensiero dell’articolista, espresso in termini continenti, di lecita disapprovazione dell’operato del magistrato stesso, soprattutto quanto alla valutazione dei contributi dichiarativi provenienti dai collaboratori di giustizia.Interpretazione, questa, che si colloca sulla scia dell’orientamento secondo il quale: <<Il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, costituendo l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza; ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del soggetto criticato>> (Sez. 5, n. 19960 del 30/01/2019, Giorgetti, Rv. 276891; Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866).
Da qui l’infondatezza del motivo.
2. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili, vuoi per genericità, non essendo la censura che si dirige sul vizio di motivazione correlata all’effettivo tenore delle argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata (Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, Scicchitano, Rv. 236945), vuoi per manifesta infondatezza, posto che ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen., il vizio di motivazione denunciabile in cassazione è solo quello che si riferisce al travisamento della prova derivante da atti specificamente indicati (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014 – dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774), non certo quello che deriva da una non corretta percezione del significato valutativo dell’insieme argomentativo che correda una decisione.
3. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 4 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2020.