REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SETTIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IZZO Fausto – Presidente
Dott. VILLONI Orlando – Consigliere
Dott. GIORDANO Emilia Anna – Consigliere
Dott. SCORDAMAGLIE Irene – Consigliere
Dott. ROSI Elisabetta – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
CANDITA MAURIZIO nato a OMISSIS il xx/xx/xxxx;
avverso la sentenza del 15/05/2019 del TRIBUNALE di BRINDISI;
udita la relazione svolta dal Consigliere ELISABETTA ROSI;
Ritenuto
che a Candita Maurizio è stata applicata, con sentenza ex art. 444 c.p.p. del Tribunale di Brindisi emessa in data 15/05/2019, la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione e euro 1.000,00 di multa, per il reato ex art. 73 comma 5 DPR 309/90, commesso in Brindisi il 5 marzo 2019, con recidiva reiterata specifica e infraquinquennale;
che l’imputato, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per Cassazione, depositato in cancelleria il 3/09/2019, chiedendo l’annullamento della sentenza per l’erronea applicazione di legge nonché manifesta illogicità della motivazione laddove non è stato rilevato lo stato di tossicodipendenza dell’imputato che avrebbe dovuto portare alla qualificazione del fatto nell’ipotesi di cui all’art. 75 DR 309/90 o quanto meno all’applicazione dell’art. 73 comma 5 bis con conversione della pena in lavoro di pubblica utilità, e per manifesta mancanza di motivazione in ordine alla determinazione della pena in concreto inflitta.
Considerato
che, in base al testo del comma 2-bis dell’art. 448 c.p.p., come introdotto dalla legge n. 103 del 2017 in vigore dal 3 agosto 2017, il ricorso avverso la sentenza di patteggiamento è proponibile solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza;
che invero, la sentenza che recepisce l’accordo fra le parti va considerata sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (deducibile dal capo d’imputazione), con l’affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all’art. 129 c.p.p., per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 Cost. (Sez. 4, n. 34494 del 13/7/2006, P.G. in proc. Koumya, Rv. 234824), ciò in quanto la richiesta consensuale di applicazione della pena si traduce in una scelta processuale che implica la rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa i cui termini formali e sostanziali sono stati inequivocamente “accettati” dalle parti con la richiesta ex art. 444 c.p.p., come pure è stata accettata la dosimetria sanzionatoria;
che nel caso di specie non è stato eccepita l’illegalità della pena, né si ravvisa alcuna illegalità della pena, ma il ricorrente si limita a lamentarsi in modo generico della sentenza impugnata;
che ciò dà luogo ad una causa di inammissibilità dichiarabile “de plano”, ai sensi delle modifiche apportate con legge n. 103 del 2017 e che, alla presente declaratoria, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di euro quattromila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro quattromila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020.