REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –
Dott. CRISCUOLO Anna – Consigliere –
Dott. BASSI Alessandra – Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – Rel. Consigliere –
Dott. APRILE Ercole – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
Lanza Fabio, nato a Omissis il xx/xx/xxxx;
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Lecce- sezione distaccata di Taranto – il 12/07/2019;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Pietro Silvestri;
udito il Sostituto Procuratore Generale, Dott. Mario Pinelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’avv.to Rosa Angela Andriano, sostituta dell’avv. Vincenzo D’Elia, che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto- ha confermato la sentenza con cui Lanza Fabio è stato condannato per il reato di peculato, quanto ai fatti a lui contestati prima del 22/09/2014, e per il reato di truffa aggravata, in relazione ai fatti commessi successivamente. L’imputato, a cui era stato originariamente contestato un unico reato di peculato, si sarebbe appropriato, nella qualità di amministratore di sostegno fino al 22/09/2014 ed in seguito “apparendo tale”, delle quote dei canoni di locazione riscosse nell’interesse dell’amministrata, tale OMISSIS Rosa.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo quattro motivi di ricorso.
2.1. Con il primo si lamenta violazione di norma processuale e vizio di motivazione quanto agli artt. 96 – 179 – 429 cod. proc. pen.
Si assume che il 3/11/2017 il difensore del ricorrente aveva inviato con una mali una richiesta di rinvio dell’udienza preliminare – fissata per quello stesso giorno -, allegando la nomina a lui conferita il giorno precedente; la mail sarebbe stata “solo successivamente scaricata” e “letta” nel pomeriggio.
Il Tribunale e la Corte di appello avrebbero erroneamente ritenuto “l’invio della nomina inesistente” e di essa non fu data menzione nemmeno nel decreto che dispose il giudizio; si sostiene che l’indicazione del nuovo difensore nominato “avrebbe evitato l’emissione della ordinanza dibattimentale del 05/03/2018 con la quale il Tribunale aveva sostituito l’originario difensore d’ufficio con altro difensore sempre d’ufficio”, e che una “maggiore disponibilità dei giudici avrebbe permesso anche in questo processo una adeguata partecipazione del difensore di fiducia” (così il ricorso).
2.2. Con il secondo motivo si lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva e vizio di motivazione, per non avere la Corte proceduto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale attraverso il riesame di Ferarrese Rosalia e per non avere disposto una perizia contabile: nonostante il consenso del difensore d’ufficio all’acquisizione degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, l’entità delle somme sottratte dal Lanza non sarebbe stata determinata con precisione, in quanto si sarebbero dovute escludere quelle spese nell’interesse dell’amministrata; la motivazione adottata dalla Corte di appello sul punto sarebbe viziata.
2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge, anche processuale, e vizio di motivazione, quanto alla riqualificazione dei fatti commessi successivamente al 22/09/2014 e la loro riconduzione al delitto di truffa.
Il reato sarebbe stato unico ed anche i fatti successivi alla data indicata sarebbero qualificabili, ai sensi dell’art. 360 cod. pen., in termini di peculato; dunque, l’aumento di pena di sei mesi di reclusione per il reato di truffa – unificato per continuazione con quello di peculato – sarebbe peggiorativo per l’imputato.
2.4. Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla entità della pena inflitta a titolo di continuazione tra il delitto di peculato, quello di truffa ed il reato di appropriazione indebita, oggetto, quest’ultimo, di accertamento definitivo in altro procedimento a seguito di decreto penale di condanna.
La Corte non avrebbe tenuto conto delle dichiarazioni dell’imputato rese sia in relazione alle spese sostenute nell’interesse dell’amministrata, sia in ordine alla restituzione del residuo alla Sig.ra Ferrarese, che, non casualmente, non si sarebbe costituita parte civile.
Si aggiunge che per il reato di l’appropriazione indebita l’imputato fu condannato nel diverso processo alla pena di 45 giorni di reclusione, convertita in pena pecuniaria, e che, dunque, i giudici di merito non avrebbero potuto aggiungere la pena di quattro mesi di reclusione per il reato in questione a titolo di continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato, nei limiti di cui si dirà, in ordine al quarto motivo.
2. E’ inammissibile il primo motivo di ricorso.
Il difensore si duole del mancato rinvio dell’udienza preliminare e del fatto che nel decreto che dispone il giudizio non sarebbe stato indicato il nuovo difensore, la cui nomina era stata inviata via mail.
Quanto al primo profilo, dalle sentenze di merito emerge che:
a) l’istanza di rinvio fu inviata via mail alla cancelleria del giudice “ad udienza preliminare conclusa” (così il Tribunale a pag. 2 della sentenza;
b) l’istanza fu letta successivamente;
c) nessun elemento è stato mai indicato per giustificare il ritardo nella trasmissione della mail.
Rispetto a detta ricostruzione fattuale nulla è stato dedotto; dunque, una richiesta di rinvio dell’udienza tardivamente proposta, che non potè essere presa in considerazione dal giudice.
Quanto alla omessa indicazione del “nuovo” difensore nel decreto che dispone il giudizio, il motivo è strutturalmente generico, non essendo stato chiarito quale sia stato in concreto il pregiudizio subito dalla mancata indicazione; il “nuovo” difensore, la cui nomina non era stata tempestivamente comunicata, ben avrebbe potuto verificare immediatamente cosa fosse accaduto nel corso della udienza preliminare ed esercitare conseguentemente tutte le proprie prerogative nel corso del processo.
3. È inammissibile anche il secondo motivo di ricorso.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen. è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria, accertamento rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n.8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Ligresti, Rv. 229666).
È diffusa in giurisprudenza l’affermazione di principio secondo cui, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata – occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell’acquisizione probatoria – nell’ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa, posta a base della pronuncia di merito, che, tuttavia, evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti ed adeguati per una valutazione in ordine alla responsabilità dell’imputato, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620).
Ai fini del sindacato sulla decisione di non procedere alla rinnovazione della istruttoria, ciò che tuttavia deve essere valutato è se esista un vizio della deliberazione assunta sulla regiudicanda e della relativa motivazione, e, posto che esista, se detto vizio appaia conseguente, dipendente, derivante dalla erronea decisione di non provvedere all’integrazione della prova, d’ufficio o su richiesta delle parti processuali.
Si è notato, in conformità ad alcuni precedenti, che “può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello” (Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep. 2015, PR, Rv. 261799; Sez. 6, Sentenza n. 1256 del 28/11/2013, Cozzetto, Rv. 258236).
Dunque, ciò che conta non è la qualità della risposta che la Corte territoriale ha inteso dare alle istanze di prova della Difesa, ma la desumibilità o meno dal tessuto argomentativo della sentenza – posto in relazione alle censure difensive – di una grave lacuna del ragionamento probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale, dipendente dalla decisione di non rinnovare l’istruttoria dibattimentale al fine di chiarire la circostanza dedotta dalla difesa dell’imputato. Nel caso di specie, tale connessione non esiste.
A fronte di puntigliose motivazioni con cui i giudici di merito hanno ripercorso le risultanze processuali, esaminato e correttamente valutato tutte le diverse fonti di prova – dichiarative e documentali- e ricostruito i fatti, nulla di specifico è stato rappresentato dall’imputato, che non ha indicato – nemmeno genericamente- né quali sarebbero le somme da lui spese per l’assistita e che, erroneamente, sarebbero state invece considerate oggetto di appropriazione, nè su quali circostanze specifiche Ferrarese Rosalia avrebbe dovuto essere escussa.
Una richiesta di rinnovazione meramente esplorativa, del tutto sganciata dal ragionamento probatorio dei giudici di merito.
4. È infondato anche il terzo motivo di merito.
Si è spiegato, quanto alle condotte commesse successivamente al 22 settembre 2014- cioè dal momento in cui fu revocato all’imputato l’incarico di amministratore di sostegno di OMISSIS Rosa-, che Lanza continuò a conseguire la disponibilità del denaro della donna ed ad appropriarsene solo a seguito di condotte ingannatorie, cioè omettendo di riferire la sua destituzione dall’incarico.
4.1. La norma dell’art. 360 cod. pen. non richiede, necessariamente, l’attualità dell’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, e cioè che l’agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell’immanenza della condotta criminosa, ma stabilisce, in linea con la concezione oggettivo – funzionale delle qualità e dei poteri correlati alle figure tipicamente modulate dagli artt. 357-358 cod. pen., un peculiare criterio di collegamento funzionale tra la specificità del bene giuridico tutelato dalle relative fattispecie incriminatrici e la concreta capacità offensiva di una condotta la cui realizzazione è in concreto resa possibile proprio dalla natura dell’attività precedentemente esercitata.
La previsione di cui all’art. 360 cod. pen. pone cioè un principio applicabile in ogni caso in cui sia ravvisabile un rapporto funzionale tra la pur cessata qualità di pubblico ufficiale e la commissione del reato.
Il pubblico interesse rispetto al quale è apprestata la tutela penale in relazione alla qualità di pubblico ufficiale (o d’incaricato di un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità) può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale eserciti le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato dallo stesso commesso sia legato e si riconnetta all’ufficio già prestato (Sez. 6, n. 39010, del 10/04/2013, Baglivo, Rv. 256596; Sez. 6, n. 20558 del 11/05/2010, Rv. 247394; Sez. 6, n. 134 del 14/07/1981, dep. 1982, Rv. 151500; Sez. 6, n. 9661 del 21/12/1976, dep. 1977, Rv. 136544; Sez. 6, n. 815 del 09/04/1969, Rv. 111807).
4.2. Nel caso in esame, nessuna condotta appropriativa fu compiuta in ragione della precedente qualifica soggettiva e sul presupposto della già conseguita disponibilità del denaro; Lanza, che continuò a riscuotere i canoni di locazione per conto della sua non più assistita, non aveva la disponibilità di quel denaro in ragione della carica pubblica cessata ma conseguì detta disponibilità con un artificio, con un inganno, cioè omettendo di rappresentare che la carica pubblica fosse cessata.
L’imputato avrebbe commesso peculato se, dopo non essere più amministratore di sostegno, si fosse appropriato di somme la cui disponibilità avesse già conseguito prima della cessazione della carica.
Nel peculato, la rilevanza penale della condotta appropriativa del denaro o della cosa mobile altrui presuppone il possesso o comunque la disponibilità di tali beni da parte del pubblico ufficiale “per ragione del suo ufficio o servizio”.
Entro tale prospettiva, dunque, l’appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui di cui si abbia il possesso si traduce sostanzialmente nell’atteggiarsi uti dominus da parte del pubblico ufficiale nei confronti di tali beni, mediante il compimento di atti 5 ( incompatibili con il titolo per cui si possiede, così da realizzare l’interversio possessionis e l’interruzione della relazione funzionale tra il bene e il suo legittimo proprietario.
Il delitto di truffa aggravata dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione postula, invece, che l’agente, inducendo taluno in errore attraverso artifizi o raggiri, consegua per sè o per altri “un ingiusto profitto”, rappresentato anche dall’impossessamento di un determinato bene, di cui prima non aveva l’autonoma disponibilità.
La differenza di fondo fra i due illeciti risiede nel fatto che nel delitto di peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l’impossessamento della cosa si ottiene come effetto della condotta illecita è al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata.
Ciò che rileva è il modo con il quale si acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato (sul tema, tra le tante, Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 2018, Alfieri, Rv. 273395; Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 35852 del 06/07/2008, Savorgnano, Rv. 241186).
Nel caso di specie, la disponibilità del denaro non era preesistente alla condotta appropriativa, poi “coperta” con artifici o raggiri, ma fu acquisita con una chiara condotta decettiva, quale quella del silenzio malizioso da parte dell’imputato, che indusse a ritenere persistente la qualifica di pubblico ufficio. Dunque, correttamente, i giudici di merito hanno ricondotto i fatti commessi successivamente al 22 settembre 2014, al reato di truffa aggravata.
5. È invece fondato il quarto motivo di ricorso, nei limiti di cui si dirà.
Il motivo è inammissibile nella parte relativa all’aumento di pena inflitto per il reato di truffa, avendo la Corte sul punto motivato ampiamente, facendo riferimento alla gravità dei fatti, alla personalità dell’imputato, alla durata delle condotte delittuose, all’entità della offesa arrecata. Sul punto nulla di specifico è stato dedotto.
È invece fondato il motivo di impugnazione quanto alla pena inflitta a seguito del riconoscimento della continuazione fra i reati oggetto del presente procedimento e quello di appropriazione indebita accertato in un altro procedimento, definito con decreto penale di condanna, divenuto irrevocabile.
A fronte di una pena inflitta con il decreto penale di 45 giorni di reclusione, peraltro convertita in pena pecuniaria, è stato invece inflitto, per effetto del riconoscimento della continuazione di quel reato con quelli oggetto del processo, un aumento di pena pari a quattro mesi di reclusione.
Il tema attiene al divieto di “reformatio in peius” e, in particolare, alla possibilità di infliggere a titolo di continuazione per un reato giudicato definitivamente in altro procedimento, una pena superiore rispetto a quella originaria.
Sul tema, la Corte di cassazione ha già chiarito che, in tema di applicazione della disciplina della continuazione, il giudice della cognizione, che individui il reato più grave in quello sottoposto al suo esame e i reati satellite in quelli già giudicati con sentenza irrevocabile, nella rideterminazione della pena, è vincolato al rispetto del divieto di “reformatio in peius” di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., non potendo quantificare l’aumento della pena per detti reati satellite in misura superiore rispetto a quella originariamente disposta nella sentenza divenuta irrevocabile (Sez. 3, n. 13725 del 15/11/2018, dep. 2019, Ferrigno, Rv. 275187).
Si tratta di una opzione interpretativa che si pone in linea di continuità con il principio affermato, seppure in relazione alla fase esecutiva, dalle Sezioni unite della Corte di cassazione secondo cui il giudice dell’esecuzione, nel procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per effetto dell’applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna (Sez. U., n. 6296 del 24/11/2016, dep. 2017, Nocerino, Rv. 268735).
Né pare peraltro potersi fare riferimento al principio secondo cui non viola il divieto di “reformatio in peius” previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporti per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore ( Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653), atteso che, nella fattispecie, invece, la struttura del reato continuato non è mutata.
6. Ne deriva che sul punto la sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio; la Corte di appello, applicando i principi indicati, rideterminerà la pena inflitta a titolo di continuazione in relazione al reato di appropriazione indebita oggetto del decreto penale divenuto irrevocabile.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente all’aumento della pena per la continuazione in ordine al reato oggetto del decreto penale di condanna e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di Appello di Lecce.
Dichiara inammissibili nel resto il ricorso ed irrevocabile l’accertamento di responsabilità.
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2020.