“Boom boom boom”: le parole rivolte al centralino del Palazzo di Giustizia valgono una condanna (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 13 marzo 2020, n. 10051).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZEI Antonella Patrizia – Presidente

Dott. CIAMPI Francesco Mari – Consigliere

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere

Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere

Dott. CENTONZE Alessandro – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

1) Furiosi Antonio, nato a OMISSIS il xx/xx/xxxx;

Avverso la sentenza emessa il 10/05/2019 dal Tribunale di Milano;

Sentita la relazione del Consigliere Dott. Alessandro Centonze;

Sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Dott. Stefano Tocci, che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio; al rigetto, nel resto, del ricorso;

Sentite, nell’interesse dell’imputato, le conclusioni dell’avv. Bruno Del Papa, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 10/05/2019 il Tribunale di Milano condannava l’imputato Antonio Furiosi alla pena di 500,00 euro di ammenda, giudicandolo colpevole del reato di cui all’art. 658 cod. pen., che veniva accertato a Milano il 17/03/2016.

Si riteneva, in particolare, che l’imputato, nella data in contestazione, effettuava una telefonata di tenore allarmistico al centralino del Palazzo di Giustizia di Milano, nel corso della quale ripeteva per due volte la frase “inside bomb boom boom”.

L’identificazione di Furiosi quale autore della telefonata veniva effettuata sulla base dell’individuazione dell’utenza telefonica utilizzata dal soggetto chiamante, intestata al padre del ricorrente, Enrico Furiosi, dalla quale, pochi minuti dopo la telefonata minatoria, veniva effettuata un’ulteriore chiamata a un numero interno del Palazzo di Giustizia di Milano, attivo presso l’Ufficio del Giudice di Pace di Milano, registrato presso la rubrica del cellulare dell’imputato.

Su tali profili probatori, nel giudizio di primo grado, venivano esaminati il Mar. Acampora e il Brig. Palumbo, che ricostruivano il percorso investigativo attraverso cui si era giunti a individuare il ricorrente quale autore della telefonata allarmistica oggetto di contestazione.

Sulla scorta di tale ricostruzione degli accadimenti criminosi l’imputato Antonio Furiosi veniva condannato alla pena di cui in premessa.

2. Avverso tale sentenza l’imputato Antonio Furiosi, a mezzo dell’avv. Bruno Del Papa, ricorreva per cassazione, deducendo tre motivi di ricorso.

Con il primo motivo di ricorso si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi probatori acquisiti, che si ritenevano inidonei a consentire la formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti di Furiosi, sotto i profili dell’individuazione della telefonata allarmistica, della sua durata e dell’utenza da cui era stata effettuata.

Con il secondo motivo di ricorso si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che confutasse analiticamente le censure difensive, con cui il Tribunale di Milano aveva omesso di confrontarsi, limitandosi a richiamare assertivamente gli esiti delle verifiche di polizia giudiziaria eseguite sui tabulati telefonici acquisiti nel corso delle indagini preliminari.

Con il terzo motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del trattamento sanzionatorio irrogato a Furiosi, censurato per la sua eccessività dosimetrica e per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, che si imponeva tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo nelle quali la condotta illecita in esame si concretizzava e delle conseguenze che aveva prodotto.

Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da Antonio Furiosi è infondato.

2. Deve ritenersi infondato il primo motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi probatori acquisiti, ritenuti inidonei a consentire la formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti di Furiosi, sotto i profili dell’individuazione della telefonata allarmistica effettuata presso il centralino del Palazzo di Giustizia di Milano, della sua durata e dell’utenza da cui era stata effettuata.

Osserva il Collegio che, secondo il Tribunale di Milano, il compendio probatorio acquisito, tenuto conto degli accertamenti di polizia giudiziaria svolti sull’utenza telefonica intestata al padre del ricorrente, Enrico Furiosi, risultava univocamente orientato in senso sfavorevole alla posizione dell’imputato, che, nell’arco temporale in contestazione, effettuava due chiamate a numeri telefonici attivi presso il Palazzo di Giustizia di Milano. Tali chiamate si ritenevano decisive ai fini dell’identificazione dell’imputato quale autore della telefonata anonima in esame e venivano effettuate, la prima, tra le ore 8.25 e le ore 8.30, la seconda, alle ore 8.27. La decisività di tali chiamate discendeva dal fatto che la telefonata allarmistica in contestazione, durata 9 secondi, veniva effettuata, tra le ore 8.25 e le ore 8.30, dall’utenza numero 02-907030017, intestata al padre del ricorrente, nel corso della quale l’imputato rivolgeva all’operatore del centralino del Palazzo di Giustizia di Milano che gli rispondeva la frase “inside bomb boom boom”, ripetuta due volte.

Pochi minuti dopo, dallo stesso apparecchio telefonico, veniva effettuata un’ulteriore chiamata della durata di 51 secondi al numero 02-54332233, corrispondente a un’utenza interna del Palazzo di Giustizia di Milano, attiva presso l’Ufficio del Giudice di Pace di Milano.

Tale numero risultava registrato presso la rubrica del cellulare del ricorrente, il quale, peraltro, ammetteva di conoscere l’utenza alla quale era associato, avendola contattata per un procedimento che lo riguardava.

La sequenza delle due comunicazioni non consentiva di ipotizzare ricostruzione alternative a quella in esame e imponeva di ricondurre la telefonata allarmistica a Furiosi, non essendo emerso il coinvolgimento di altri utenti del numero telefonico in questione ed essendo incontroverso che – sulla base di quanto affermato dallo stesso imputato – la seconda delle due utenze telefoniche, sopra citate, era conosciuta dal ricorrente.

Queste ragioni impongono di ribadire l’infondatezza del primo motivo di ricorso.

3. Dall’infondatezza del primo motivo discende l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, con cui si deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che confutasse analiticamente le censure difensive, con cui il Tribunale di Milano non si era confrontato, essendosi limitato a richiamare assertivamente gli esiti delle verifiche di polizia giudiziaria eseguite sui tabulati telefonici acquisiti nel corso delle indagini preliminari.

Non può, invero, non ribadirsi, richiamando le considerazioni esposte per il primo motivo di ricorso, che, nel caso in esame, non era ragionevole attribuire alcun valore processuale all’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa di Furiosi – secondo cui un ipotetico e non identificato cliente del padre dell’imputato avrebbe effettuato la telefonata allarmistica in contestazione, essendo utilizzata l’utenza numero 02-907030017, oltre che per uso domestico, per lo svolgimento dell’attività commerciale di Enrico Furiosi -, atteso che nessuno degli elementi circostanziali richiamati nel paragrafo precedente, cui si rinvia, corroborava tale ricostruzione degli accadimenti criminosi.

Si aggiunga che un tale percorso valutativo, oltre che congetturale e smentito dalle risultanze processuali, si sarebbe posto in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: «In tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti» (Sez. 6, n. 5905 del 29/11/2011, dep. 2012, Brancucci, Rv. 252066-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 4, n. 22790 del 13/04/2018, Mazzeo, Rv. 272995-01).

Le considerazioni esposte impongono di ritenere infondato il secondo motivo di ricorso.

4. Deve ritenersi inammissibile il terzo motivo di ricorso, con cui si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del trattamento sanzionatorio irrogato a Furiosi, censurato per la sua eccessività dosimetrica e per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, che si imponeva tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo nelle quali il comportamento criminoso in esame si concretizzava e delle conseguenze prodotte.

Osserva il Collegio che il trattamento sanzionatorio irrogato a Furiosi risulta suffragato dalla ricostruzione compiuta dal Tribunale di Milano, che si soffermava correttamente sulle connotazioni, oggettive e soggettive, del reato contestato al ricorrente ex art. 658 cod. pen., escludendo, sulla base di un giudizio dosimetrico ineccepibile, che fosse possibile attenuare nei termini invocati dalla sua difesa – tenuto conto della gravità della condotta criminosa e del contesto giudiziario nel quale si sviluppava – la pena applicata all’imputato, quantificata in 500,00 euro di ammenda.

Ne discende che, tenuto conto del contesto ambientale nel quale maturava la determinazione criminosa dell’imputato e del disvalore dei fatti di reato che gli venivano contestati, nella sentenza impugnata, veniva compiuta una valutazione dosimetrica rispettosa dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., nel considerare la quale non si può non ribadire che – al contrario di quanto dedotto dalla difesa di Furiosi – il trattamento sanzionatorio risulta congruo e conforme alle emergenze probatorie.

Si consideri, infine, che le attenuanti generiche rispondono alla funzione di adeguare la pena al caso concreto nella globalità degli elementi oggettivi e soggettivi che la connotano, sul presupposto del riconoscimento di situazioni fattuali, eventualmente riscontrate con riferimento alla posizione dell’imputato.

La necessità di un giudizio che coinvolga tale posizione nel suo complesso – e che impediva la concessione a Furiosi delle attenuanti generiche – è sintetizzata dal principio di diritto affermato da questa Corte, secondo cui: «Le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale “concessione” del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena» (Sez. 6, n. 2642 del 14/01/1999, Catone, Rv. 212804-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 2, n. 30228 del 05/06/2014, Vernucci, Rv. 260054-01).

Queste considerazioni impongono di ribadire l’inammissibilità del terzo motivo di ricorso.

5. Per queste ragioni, il ricorso proposto da Antonio Furiosi deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 05/02/2020.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.