Chirurghi dimenticano una grossa pinza nell’addome della paziente che poi muore. Condannati (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 15 febbraio 2021, n. 5806).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMU Giacomo – Presidente

Dott. FERRANTI Donatella – Consigliere

Dott. TANGA Antonio Leonardo – Consigliere

Dott. PICARDI Francesca – Rel. Consigliere

Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

(OMISSIS) CARMINE nato a (OMISSIS) il 06/01/1964;

(OMISSIS) GIUSEPPE nato a (OMISSIS) il 18/11/1949;

avverso la sentenza del 03/06/2020 della CORTE APPELLO di SALERNO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa FRANCESCA PICARDI;

trattato il procedimento con le modalità di cui all’art. 23, comma 8, d.l. n.137 del 2020.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Salerno ha confermato la condanna di Carmine (omissis) e Giuseppe (omissis) (rispettivamente alla pena sospesa di anni uno di reclusione per il primo ed mesi otto di reclusione per il secondo), riconosciute ad entrambi le generiche, per il reato di cui agli artt. 113 e 589 cod.pen., per avere cagionato, in qualità di medici dell’Ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona (più precisamente in qualità di primo e secondo chirurgo dell’equipe che ha effettuato, in data 19 luglio 2012, l’intervento di rimozione di adenocarcinoma del grosso intestino e di medici in servizio durante il successivo ricovero della paziente in data 15 febbraio 2013), il decesso di Nicoletta (omissis), in data 16 febbraio 2013, ore 21,00, non avvedendosi, nel corso dell’intervento del luglio 2012, di aver lasciato nell’addome della paziente una pinza di considerevoli dimensioni e successivamente, allorquando la paziente, in data 15 febbraio 2013, è sopraggiunta in nosocomio, in preda a forti dolori addominali, vomito ed anuria, omettendo di effettuare urgentemente l’intervento di laparotomia atto alla rimozione del ferro chirurgico, nonostante l’evidenza del reperto in base agli esami eseguiti.

2. Avverso tale sentenza hanno tempestivamente proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore, gli imputati, che hanno dedotto:

1) e 2) la violazione degli artt. 40 e 41 cod.pen. e la motivazione meramente apparente:

a) in relazione all’individuazione della causa del decesso, tenuto conto, da un lato, dell’aporia tra la diagnosi di addome acuto e la conclamata assenza della relativa sintomatologia (dolori addominali lancinanti, addome a tavoletta e non trattabile, febbre, vomito, pus) e, dall’altro lato, del radicale contrasto tra i pareri dei periti dell’accusa e quelli della difesa (la cui tesi, della riconducibilità del decesso alla situazione renale ed all’edema polmonare della paziente, sono state disattese senza alcuna argomentazione scientifica e senza la valutazione delle prove favorevoli, quali, ad esempio, la deposizione della infermiera (omissis), sulla base, peraltro, di un travisamento della prova e, cioè, della cartella clinica, da cui si desume che la paziente ha riferito di aver vomitato e non, come afferma la Corte territoriale, che ha vomitato durante il ricovero);

b) in relazione all’asserita riconducibilità dell’evento letale alla mancata effettuazione dell’intervento all’epoca del ricovero nel febbraio 2013, senza lo svolgimento di un giudizio controfattuale, secondo una valutazione ex ante, alla luce della situazione concreta (caratterizzata dall’assenza di sintomi che rendessero doveroso l’intervento ed, al contrario, dalle condizioni molto scadute della paziente, che rendevano l’intervento di rimozione del Klemmer pericoloso per la sua sopravvivenza, come confermato dai nefrologi dott. (omissis) e (omissis) e dall’anestesista (omissis), interpellata dal dott. (omissis), contrariamente a quanto affermato dal perito prof. (omissis)) e senza un’esaustiva motivazione tecnico scientifica in ordine alla condivisione della tesi del Prof. (omissis), fondando le conclusioni al riguardo sul dato travisato del vomito ed ignorando la deposizione dell’infermiera (omissis), che ha affermato essere la paziente in buone condizioni nella notte tra il 15 ed il 16 febbraio 2013, così come la cartella clinica n. 8241, nella parte in cui riporta un alvo canalizzato e non strozzato;

3) e 4) la violazione dell’art. 590 sexies cod.pen., atteso che i giudici di merito hanno attribuito agli imputati la responsabilità per la derelizione della pinza chirurgica (Klemmer) nell’addome della paziente, da un lato, sostenendo, contrariamente alla logica e a quanto prescritto dalle linee guida (in cui si legge che “il chirurgo chiede conferma verbalmente che il conteggio sia stato eseguito e che il totale…corrisponda”, in particolare v. delibere ospedaliere n. 436/2020 e n. 448/31/2012, che recepiscono le raccomandazioni ministeriali), che i chirurghi avrebbero dovuto prendere attivamente parte alla procedura di conta, mentre le linee guida esigono dal primo operatore (e non dal secondo) esclusivamente la verifica dell’esecuzione della conta (nel caso di specie effettuata con esito positivo, come riferito dall’infermiera (omissis) e come riportato sulla cartella clinica), che compete al ferrista e al personale infermieristico, e, dall’altro lato, erroneamente escludendo che in sala operatoria fosse presente lo strumentista (mentre è, invece, pacifica la partecipazione all’intervento del dott. (omissis), specialista chirurgo strumentista) e tralasciando la distinzione tra dimenticanza e smarrimento;

5) la violazione, limitatamente al ricorrente (omissis), del principio di correlazione tra il fatto contestato e la sentenza, con riferimento alla contestazione allo stesso della posizione di ferrista (o tutore del ferrista) invece che di chirurgo operante, risultante, peraltro, da attestazione rilasciata dalla struttura ospedaliera (da cui si evince che (omissis) era secondo operatore, senza altra mansione di alcun genere se non chirurgica).

3. Il giudizio è stato trattato con le modalità di cui all’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020.

4. La Procura Generale presso la Corte di Cassazione ha chiesto rigettarsi il ricorso.

5. Il ricorrente Carmine (omissis) ha depositato memoria ex art. 611 cod.proc.pen. e nota difensiva in cui, replicando alle conclusioni della Procura Generale, ha insistito per l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

Per completezza, va rilevato che il reato contestato non è ancora prescritto, tenuto conto dei periodi di sospensione del relativo termine di prescrizione risultanti dalle schede degli uffici di merito (due mesi e nove giorni in primo grado; quattro mesi e sedici giorni in secondo grado).

2. Agli imputati sono state contestate due diverse condotte omissive colpose e, cioè, non aver rimosso, durante l’intervento del 19 luglio 2012, la pinza inserita nell’addome della paziente e non aver eseguito con urgenza l’intervento diretto alla rimozione di tale ferro in data 15 febbraio 2013 (sulla ricostruzione della prima condotta come omissiva, si rinvia alla sentenza di primo grado, conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, cfr. Sez. 4, n. 39062 del 26/05/2004 ud. – dep. 06/10/2004, Rv. 229832 – 01).

I ricorrenti hanno censurato la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto esistere un nesso eziologico tra le condotte de quibus ed il decesso della vittima (p. 1- 15 del ricorso relativamente alla prima condotta; p. 26-30 del ricorso relativamente alla seconda condotta), denunciando la omessa valutazione di rilevanti dati probatori, il travisamento di altri, il superamento delle contrapposte tesi scientifiche rispetto a quelle dell’accusa senza un effettivo e corretto approccio fondato su regole tecniche, l’assenza di un effettivo giudizio contro-fattuale.

Deve, però, evidenziarsi che la sentenza di primo grado, a p. 47, è chiara nel precisare che l'”omessa asportazione della pinza, avvenuta nel corso del primo intervento chirurgico eseguito dagli odierni ricorrenti”, è stata “la condizione imprescindibile della patologia, che ha portato al secondo ricovero” ed al decesso della vittima, a prescindere dalla ricostruzione delle due condotte in termini di progressione causale o di concorso di cause (che, come affermato dal Tribunale di Salerno, “non si riflette negativamente sulla certezza del nesso di causalità….in quanto entrambi i processi causali sono comunque riconducibili alla condotta omissiva degli odierni imputati”).

Questa conclusione risulta del tutto condivisibile, considerato, del resto, che la seconda condotta, oltre ad essere riferita agli stessi imputati, non potrebbe reputarsi come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, alla luce dell’orientamento secondo cui, in tema di interruzione del nesso causale, il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento si riferisce o all’ipotesi di un processo causale del tutto autonomo da quello antecedente oppure all’ipotesi di un processo causale non completamente avulso dall’antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta (Sez. 2, n. 17804 del 18/03/2015 ud. – dep. 29/04/2015, Rv. 263581 – 01).

3. Da tale premessa consegue che l’infondatezza delle doglianze formulate dai ricorrenti con riferimento alla prima condotta (omessa rimozione della pinza, dall’addome della paziente, nel corso dell’intervento del luglio 2012) comporta la carenza di interesse relativamente alle ulteriori doglianze formulate con riferimento alla seconda condotta (omessa rimozione della pinza, tramite esecuzione di un ulteriore intervento, nel febbraio 2013), posto che il ricorso è stato proposto al solo fine di negare la affermata responsabilità penale degli imputati e che l’eventuale esclusione del nesso di causalità e del profilo di colpa in ordine alla seconda condotta non inciderebbe sull’accertamento del reato contestato, per la cui configurabilità è sufficiente anche soltanto la prima condotta omissiva.

Difatti, l’interesse richiesto dall’art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento oggetto dell’impugnazione e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione del predetto provvedimento, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante (Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016 ud. – dep. 28/04/2016, Rv. 267172 – 01; del resto, tale impostazione è confermata dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui I ‘omesso esame di un motivo di ricorso per cassazione non dà luogo ad errore di fatto rilevante a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen., né determina incompletezza della motivazione della sentenza allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima, ovvero quando l’omissione sia soltanto apparente, risultando le censure formulate con il relativo motivo assorbite dall’esame di altro motivo preso in considerazione, giacché, in tal caso, esse sono state comunque valutate, pur essendosene ritenuta superflua la trattazione per effetto della disamina del motivo ritenuto assorbente, v. Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002 cc. – dep. 30/04/2002, Rv. 221283 – 01).

4. In ordine all’accertamento del nesso causale, occorre ricordare che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Sez.U, n. 30328 del 10/07/2002 ud. – dep. 11/09/2002, Rv. 222138 – 01).

Proprio, in relazione ai reati colposi omissivi, si è altresì specificato che il giudizio di alta probabilità logica deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019 ud., dep. 31/05/2019, Rv. 276292 – 03).

Deve, tuttavia, ribadirsi che l’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento va condotto (contrariamente all’impostazione seguita in molti passaggi del ricorso, v., ad esempio, p. 12 e 13, in cui si sovrappongono le censure in ordine al profilo oggettivo del rapporto causale ed in ordine al profilo soggettivo della colpa) su base totalmente oggettiva, con un giudizio “ex post”, mediante il procedimento cd. di eliminazione mentale e va tenuto ben distinto rispetto alla diversa e successiva indagine sull’elemento soggettivo del reato che deve essere valutato, invece, con giudizio “ex ante”, alla stregua delle conoscenze del soggetto agente (Sez. 5, n. 51233 del 09/10/2019 ud. – dep. 19/12/2019, Rv. 277960 – 01).

5. Alla luce di tali principi, la doglianza si rileva infondata con riferimento al nesso di causalità tra la condotta del luglio 2012 e la morte della vittima, atteso che la motivazione della sentenza sul punto è congrua ed esaustiva e conforme agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

I giudici di merito hanno, difatti, affermato, in modo logico e coerente, la sussistenza del nesso causale tra l’omessa rimozione della pinza dall’addome della paziente ed il decesso in considerazione dell’avvenuto strozzamento dell’intestino nell’anello di detta pinza, rilevato in sede di autopsia, e del processo patologico necrotico-emorragico conseguentemente innescatosi, che risulta descritto con puntualità ed esaustività del consulente della pubblica accusa, Prof. (omissis) – non contestato dalla difesa (che, alla nota n. 3, trascrive parte della consulenza della difesa, in cui si conferma “il quadro di ischemia intestinale, rilevato all’esame autoptico a carico dell’ansa di tenue infilatasi nell’occhiello dello strumento”, semplicemente escludendo che l’ischemia fosse già insorta al momento della visita del dott. (omissis)).

Tali conclusioni non si espongono alle censure dei ricorrenti, secondo i quali le stesse sarebbero fondate su una mera preferenza soggettiva e non su argomentazioni tecnico- scientifiche.

Difatti, la Corte territoriale ha evidenziato, in modo coerente e non manifestamente illogico, come il parere del consulente della difesa (dott. (omissis)) sia stato formulato in modo a-specifico, senza un collegamento preciso con i risultati dell’autopsia (v. p. 15 della sentenza impugnata in cui si sottolinea che il dott. (omissis) ha affermato che le cause del decesso sono state l’insufficienza renale “anche se non ho elementi, come dire…perché dall’autopsia non è che si capisce se il problema è stata un’insufficienza renale”).

Peraltro, i ricorrenti, nell’odierno ricorso, si sono limitati ad insistere sui dubbi insinuati dai loro tecnici, rinviando genericamente ai loro pareri, senza indicare con precisione, i dati probatori idonei ad escludere la riconducibilità del decesso allo strozzamento intestinale (v. p. 6 del ricorso, in cui è riportata la deposizione del prof. (omissis), “la paziente aveva insufficienza renale sulle cui cause, onestamente, non saprei dire ma mi sento di escludere che fosse di pertinenza intestinale”, sebbene lo stesso teste confermi la possibile derivazione dell’insufficienza renale da problematiche intestinali; ancora p. 7, nota 5, in cui si è riportata la consulenza del prof. G. (omissis), che collega il decesso all’insufficienza renale della paziente, genericamente affermando che la paziente doveva soffrire da tempo di tale malattia, ma senza individuare l’elemento probatorio da cui desume tale assunto).

Né sussiste, da un lato, l’asserito travisamento della prova denunciato, atteso che il vomito a cui hanno fatto riferimento i giudici di merito è chiaramente quello anteriore al ricovero, confermato dalla stessa difesa, o, dall’altro, l’omessa valutazione di dati probatori rilevanti, atteso che il sonno della paziente, nella notte tra il 15 ed il 16 febbraio 2013, come riferito dall’infermiera di turno, non assume rilevanza ai fini del nesso causale accertato e che la cartella clinica richiamata n. 8241 si riferisce alle condizioni immediatamente anteriori al decesso e non a quelle rilevate in sede di autopsia.

Ad ogni modo, in tema di prova scientifica, la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice delle acquisizioni tecnico-scientifiche, essendo solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al relativo sapere, che include la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto; ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti della prova suddetta, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente argomentato (Sez. 1, n. 58465 del 10/10/2018 ud. – dep. 28/12/2018, Rv. 276151 – 01).

Da tali premesse deriva l’esaustività e non manifesta illogicità della motivazione sul punto, fondata sulle conclusioni del consulente della pubblica accusa, la cui attendibilità scientifica non è, di fondo, contestata neppure dalla difesa, che si limita a prospettare alternativi decorsi causali, che, tuttavia, non risultano ancorati ad alcun concreto elemento probatorio.

6. Pure sono infondate le doglianze dei ricorrenti in ordine all’elemento soggettivo che ha caratterizzato la condotta omissiva del luglio 2012 ed alla violazione dell’art. 590 sexies cod.pen.

Tali censure si rivelano del tutto a-specifiche, in quanto non si confrontano affatto con la ricostruzione dei fatti, effettuata in modo congruo e non manifestamente illogico dai giudici di merito, i quali hanno accertato, da un lato, che il conteggio sistematico dei materiali chirurgici non è stato svolto in modo conforme alla raccomandazione ministeriale n. 2 del 2008, che prescrive che la procedura deve essere eseguita da due operatori contemporaneamente ed a voce alta (in particolare, v. p. 19 della sentenza in cui si legge “rilievo assorbente ..assume la circostanza per cui, secondo le linee guida, tale conteggio doveva svolgersi ad alta voce e con modalità ben precise onde permettere a tutti gli operatori dell’equipe, compresi gli imputati, di attenzionarlo dovutamente”, mentre “ciò non avveniva nel caso di specie, in quanto il (omissis) si limitava a chiedere il positivo esito della conta”) e, dall’altro, che, mancando il personale infermieristico, a causa di carenza di personale, lo stesso personale medico ha provveduto a tale incombente (in particolare, secondo quanto dichiarato dall’infermiera (omissis), che non poteva toccare ciò che è sterile, (omissis), pur non avendo formalmente il ruolo di ferrista, ha prelevato i ferri sterili dall’apposita sede nel caso di specie; secondo quanto dichiarato dall’infermiera (omissis) “poiché non c’era lo strumentista doveva essere l’equipe a contarsi i ferri”, v. p. 20 e 21).

Ancora, in modo erroneo, i ricorrenti hanno asserito che il dott. (omissis) – da loro indicato come ferrista – sia stato qualificato dalla Corte territoriale come uno specializzando, mentre a p. 21 si è precisato che lo stesso era un medico già specializzato, ma, con una motivazione del tutto ragionevole, che lo stesso non ha assunto alcuna responsabilità legata alla conta, sebbene probabilmente vi abbia malamente partecipato, in quanto non era dipendente dell’ospedale (ulteriore passaggio motivazionale ignorato nel ricorso).

Alla luce di tali precisazioni in ordine alla ricostruzione dei fatti, operata dai giudici di merito, è smentito l’assunto della difesa, secondo cui, nel caso di specie, sarebbero state rispettate le linee guida, necessario presupposto dell’applicazione dell’art. 590 sexies cod.pen.

Parimenti risulta del tutto irrilevante la prospettata distinzione tra smarrimento e dimenticanza, considerato che gli stessi ricorrenti riconoscono che gli autori della sono responsabili dell’eventuale smarrimento di uno strumento nel corpo del paziente, sicché tale distinzione non scalfisce l’affermazione della responsabilità avvenuta in base all’accertamento che, nel caso di specie, gli stessi medici, mancando il personale infermieristico, hanno eseguito la conta – in particolare il dott. (omissis), unitamente al dott. (omissis), v. p. 20 della sentenza, la cui azione è stata monitorata dal primo chirurgo dott. (omissis) in modo difforme dalle linee guida e, cioè, solo con una domanda generica in ordine all’esito della conta, p. 19 della sentenza impugnata.

Relativamente a tali censure, deve, dunque, ribadirsi che l’impugnazione è inammissibile per genericità dei motivi se manca ogni indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità (Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007 Cc. – dep. 10/09/2007, Rv. 236945 – 01; v. anche Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 ud. – dep. 16/05/2012, Rv. 253849 – 01), secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione.

7. Come già evidenziato, si prescinde dall’esame delle doglianze relative alla seconda condotta omissiva contestata, la cui fondatezza non potrebbe condurre all’accoglimento del ricorso, stante il rigetto di quelle aventi ad oggetto la prima condotta omissiva contestata.

8. Il motivo, avente ad oggetto la violazione del principio di necessaria correlazione tra contestazione e sentenza, in considerazione dell’omessa attribuzione della qualifica di ferrista in capo all’imputato (omissis) nel capo di imputazione, è meramente ripetitivo di quello proposto in appello e rigettato, con adeguata motivazione, dalla Corte d’Appello, in modo del tutto conforme agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

Difatti, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (così Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014 ud. – dep. 19/08/2014, Rv. 260161 – 01, in una fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori).

Si è, anche, affermato che nei procedimenti per reati colposi, il mutamento dell’imputazione, e la relativa condanna, per colpa generica a fronte dell’originaria formulazione per colpa specifica non comporta mutamento del fatto e non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell’addebito (Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018 ud. – dep. 29/11/2018, Rv. 274500 — 02) e che, una volta contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell’addebito (Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018 ud. – dep. 14/06/2018, Rv. 273588 — 01).

Peraltro, occorre aggiungere che la stessa Corte territoriale ha precisato che “come attestato da documentazione in atti, prodotta anche all’udienza odierna, il (omissis) non era formalmente il ferrista …ma sta di fatto che per l’operazione della (omissis) mancava detto infermiere, sicché il compito fu certamente assunto dal dott. (omissis) e dal dott. (omissis)”, congruamente argomentando tale conclusione in base alla deposizione della teste (omissis), riscontrata da quella della teste (omissis).

Da tale precisazione deriva, dunque, che la sentenza non si discosta neppure dal capo di imputazione.

9. In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.