È illegittimo spostare un lavoratore da mansioni di concetto a compiti manuali anche se la variazione avviene all’interno della medesima qualifica contrattuale (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 3 agosto 2020, n. 16594).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7959-2016 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, (AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO DI POSTE ITALIANE), presso lo studio dell’Avvocato ROBERTA AIAZZI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

RISIO MARIA ELISA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio degli avvocati PIER LUIGI PANICI e MICHELANGELO SALVAGNI, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6234/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/09/2015 R.G.N. 4103/2013.

RILEVATO CHE

La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 18/9/2015, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva accolto la domanda proposta da Maria Elisa Risio nei confronti di Poste Italiane s.p.a. volta a conseguire pronuncia di accertamento della intervenuta dequalificazione professionale subita nel periodo 16/7/2007-12/3/2010 per illegittimo esercizio dello jus variandi, e di condanna della parte datoriale al risarcimento del danno conseguenziale.

La ricorrente risultava infatti inquadrata nell’Area Funzionale Operativa livello C c.c.n.l. di settore, che postulava il possesso di conoscenze specifiche qualificate e comportava lo svolgimento di attività di carattere amministrativo, di coordinamento o di incarichi di responsabilità, ed il compimento di operazioni complesse in piena autonomia e con potere di iniziativa nell’ambito di procedure predefinite e disposizioni dei superiori gerarchici.

Nel periodo considerato, come desumibile dai dati probatori acquisiti in giudizio, era stata, invece, assegnata a posizione comportante l’esercizio di mansioni manuali, di mero riordino e sistemazione di materiale secondo procedure standardizzate, oltre che di supporto al personale di sportello, con evidente violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2103 c.c..

Avverso tale decisione la società soccombente interpone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, ai quali resiste la lavoratrice con controricorso illustrato da memoria ex art.380 bis c.p.c..

CONSIDERATO CHE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.1227 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si lamenta che la Corte di merito abbia disatteso un punto decisivo della controversia concernente l’intervenuta acquiescenza nei confronti del provvedimento datoriale di nuova assegnazione presso l’U.P. di Roma 104 avendo la lavoratrice lasciato trascorrere un lungo lasso di tempo (oltre un anno e mezzo) prima di impugnare il provvedimento di mutamento della sede di lavoro.

2. Il motivo è privo di fondamento.

Ed invero, secondo l’insegnamento di questa Corte, che va qui ribadito, quiescenza tacita nei confronti di un provvedimento, nel diritto amministrativo come in quello processuale civile, è configurabile solo in presenza di un comportamento che appaia inequivocabilmente incompatibile con la volontà del soggetto d’impugnare il provvedimento medesimo.

Non può, quindi, bastare, a tal fine, un atteggiamento di mera tolleranza contingente e neppure il compimento di atti resi necessari od opportuni, nell’immediato, dall’esistenza del suddetto provvedimento, in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio, ma che non per questo escludono l’eventuale coesistente intenzione dell’interessato di agire poi per l’eliminazione degli effetti del provvedimento stesso (vedi ex plurimis, Cass. S.U. 20/5/2010 n.12339).

Nello specifico il giudice del gravame ha dato atto della insussistenza di indici tali da consentire di ritenere che nel periodo di sottoutilizzazione vi fosse stata acquiescenza della lavoratrice idonea a rendere inammissibile l’azione dispiegata; ha valutato il comportamento tenuto dalla parte e reputato non si fosse evidenziata una chiara e certa volontà di accettazione del provvedimento aziendale, con apprezzamento che non appare connotato da errori di diritto né da carenze che trasfondono nella assoluta omissione, nella mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, le quali avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato in questa sede di legittimità (vedi in motivazione, con riferimento alla Cass. 11/9/2014 n. 19217, Cass. 15/1/2015 n. 10958).

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si critica la statuizione con la quale la Corte distrettuale è pervenuta all’accertamento del denunciato demansionamento, ritenendo irrilevante la clausola di fungibilità introdotta all’interno delle nuove aree di classificazione introdotte a seguito della privatizzazione.

Si ribadisce che la convenuta era stata inquadrata nell’Area Operativa per effetto del c.c.n.l. 1994 (con sistema di classificazione mantenuto anche nel successivo c.c.n.l. 11/1/2001);

si deduce che in vista del nuovo sistema introdotto dal c.c.n.l. 2003, erano state prese in considerazione le mansioni effettivamente svolte alla fine dell’anno 2003 con individuazione del livello ci erano riconducibili;

si osserva quindi che a causa della necessità di rimodulare le posizioni di staff e potenziare i servizi al pubblico era stata disposta l’applicazione della lavoratrice presso l’UP 104 con assegnazione di mansioni equivalenti a quelle in precedenza espletate.

4. Il terzo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 115- 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si lamenta che la Corte territoriale sia pervenuta all’erroneo convincimento della intervenuta dequalificazione della lavoratrice, sulla scorta del non corretto scrutinio delle prove testimoniali raccolte.

5. I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi stante la logica connessione che li connota, non sono fondati.

Invero, nel proprio incedere argomentativo, la Corte distrettuale si è conformata ai principi affermati da questa Corte e da ribadirsi in questa sede, secondo cui il divieto di variazioni in pejus (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non é sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (vedi ex plurimis, Cass. S.U. 24/11/2006 n.25033, Cass. 14/6/2013 n.15010).

Si è quindi precisato che “il nuovo contratto collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale (normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica.

Ma ciò non implica necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica” (vedi Cass. 3/9/2002, n. 12821).

La garanzia prevista dall’art. 2103 cod. civ. opera infatti anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, precludendo l’indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell’accorpamento convenzionale;

conseguentemente, il lavoratore addetto a determinate mansioni – che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex art. 96 disp.att. cod.civ. nell’esercizio del suo potere conformativo delle iniziali mansioni alla qualifica -, non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica contrattuale, dovendo, per contro, procedere ad una ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine di salvaguardare, in concreto, il livello professionale acquisito e di fornire un’effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali del dipendente (V., tra le altre, Cass. 3/2/2015 n. 1916, Cass. 25/9/2015 n. 19037, Cass. 4/3/2014 n.4989, Cass. 14/6/2013 n.15010).

Nello scrutinio attinente al corretto esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro è, dunque, necessario accertare che le nuove mansioni conferite siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze, ed in coerenza coi dettami di cui all’art. 2103 c.c. il cui baricentro, (come affermato da Cass. S.U. n. 25033/2006) è dato proprio dalla protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro.

La Corte di merito non ha vulnerato i suesposti principi; ha infatti proceduto ad un ragionato raffronto fra le mansioni di originaria appartenenza e quelle successivamente ascritte alla lavoratrice, pervenendo ad un giudizio di disomogeneità, elaborato alla stregua dei parametri di concreta equivalenza rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, con apprezzamento non censurabile in questa sede di legittimità.

6. In tal senso appare, dunque, inammissibile la critica formulata dalla società con riferimento al non corretto vaglio del quadro probatorio elaborato dal giudice del gravame.

Sotto il profilo della denuncia di error in judicando (violazione degli artt. 115-116 c.p.c.) non può essere utilmente invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dal giudice a quo, essendo la valutazione di quelle – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito; questi, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicibili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20/4/2012, n. 6260).

Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come rigorosamente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053), comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.

Con esso si è invero avuta la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

Nell’ottica descritta, lo scrutinio del materiale istruttorio acquisito da parte del giudice del gravame, che ha fatto leva sulla deposizione di un teste ritenuto particolarmente attendibile e non contraddetto da ulteriori testimoni, appare rispondente agli innanzi enunciati requisiti di essenzialità e coerenza motivazionale che ostano all’esercizio di un sindacato nella presente sede.

7. In definitiva, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore degli avv.ti Panici e Salvagni.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.p.r. n. 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore degli avv.ti Panici e Salvagni.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.