Imposte sui redditi: dichiarazione infedele, confermato il maxi sequestro da 6 mln a Mirko Vucinic (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 21 ottobre 2020, n. 29095).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Rel. Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

VUCINIC MIRKO nato a NIKSIC (JUGOSLAVIA) il 01/10/1983;

avverso l’ordinanza del 03/12/2019 del TRIB. LIBERTA di LECCE;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Angelo Matteo SOCCI;

sentite le conclusioni del PG  Dott.ssa Valentina MANUALI: “Inammissibilità del ricorso”;

il difensore Avvocato Antonio Savoia insiste nell’accoglimento dei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 3/12/2019, il Tribunale del riesame di Lecce rigettava il ricorso presentato nell’interesse di Mirko Vucinic e, per l’effetto, confermava il decreto di sequestro preventivo emesso il 4/11/2019 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 4, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, contestata quanto alle annualità dal 2014 al 2017, per complessivi C 5.854.068,67 di imposte dirette evase.

2. Propone ricorso in cassazione Mirko Vucinic, deducendo l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 4 d. Igs. 74 del 2000 e dell’art. 321 cod. proc. pen.

Il Tribunale non avrebbe adeguatamente valutato l’ampia documentazione in atti, che attesterebbe che l’indagato – noto calciatore professionista – negli anni di interesse avrebbe svolto la propria attività negli Emirati Arabi Uniti, alle dipendenze di una società sportiva con sede in Abu Dhabi; con la costante presenza del ricorrente sul posto, per partecipare agli allentamenti, ai ritiri della squadra ed alle varie competizioni.

L’allontanamento dall’Italia, peraltro, si sarebbe verificato già prima del 30/6/2014 (allorquando il ricorrente aveva sciolto il vincolo con l’italiana Juventus Football Club s.p.a), atteso che, sin dal gennaio di quell’anno, Vucinic si sarebbe più volte recato all’estero per negoziare nuovi ingaggi.

Gli elementi di segno contrario indicati nell’ordinanza, e che attesterebbero atti dispositivi del patrimonio che l’indagato avrebbe eseguito in Italia negli anni in questione, non avrebbero peraltro effettiva valenza indiziaria, dato che non terrebbero conto della prassi – largamente diffusa – della firma preventiva, peraltro confermata dal procuratore del calciatore.

L’ampio compendio documentale, dunque, attesterebbe che tra il 2014 ed il 2017 il ricorrente avrebbe stabilito negli Emirati Arabi il centro dei propri interessi vitali, lì trasferendosi anche la moglie ed i figli (nell’ottobre 2014), che avrebbero pure ottenuto il passaporto dalle locali autorità; Vucinic, a sua volta, avrebbe preso stabile residenza negli Emirati Arabi, disponendo di un’abitazione, un autoveicolo con patente di guida rilasciata dallo stesso Stato e, tra l’altro, si sarebbe iscritto ad un esclusivo circolo privato, il tutto a conferma del fatto che gli Emirati Arabi avrebbero costituito – negli anni in rubrica – il luogo di ogni relazione personale e professionale del ricorrente.

Quel che, tuttavia, il Tribunale non avrebbe accertato, interpretando in modo erroneo la nozione di residenza fiscale, come prevista dalla normativa interna e dalla Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa tra l’Italia e gli stessi Emirati.

Le disposizioni convenzionali (in particolare l’art. 4 del modello di convenzione OCSE) prevedono degli obblighi che si impongono anche sulle norme interne (vedi art. 169 del T.U.I.R.).

La doppia imposizione pertanto è vietata e la persona si deve considerare residente nello Stato dove ha un’abitazione permanente, o – ove abbia due abitazioni – nello Stato dove le sue relazioni personali ed economiche sono più strette, o, in subordine, dove soggiorna stabilmente.

Orbene, il ricorrente soggiornava stabilmente fuori dall’Italia e aveva un’abitazione e i suoi interessi negli Emirati Arabi.

Ha chiesto pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Osserva preliminarmente questa Corte che, in sede di ricorso in cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge.

Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606, stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).

4. Tanto premesso in termini generali, il ricorso risulta inammissibile, atteso che – dietro la parvenza di una duplice violazione di legge – di fatto ripropone alla Corte le stesse considerazioni di merito già sottoposte ai Giudici della cautela, chiedendone un inammissibile, ulteriore esame; l’intera impugnazione, infatti, ripropone gli elementi che – nell’ottica difensiva – attesterebbero che Vucinic, tra il 2014 ed il 2017, avrebbe tenuto all’estero il centro primario dei propri interessi e delle proprie relazioni, ma con ciò non evidenzia alcuna effettiva violazione di legge ravvisabile nell’ordinanza, specie nell’ottica di una motivazione assente o di mera apparenza.

Con il ricorso, in sintesi, si lamenta un’errata od insufficiente lettura dei documenti prodotti dalla difesa, con valutazione propria del merito, così però ponendosi l’atto all’esterno del rigoroso alveo di intervento che l’art. 325 cod. proc. pen. consente in materia alla Corte di legittimità.

5. A ciò si aggiunga, peraltro, che l’ordinanza impugnata – lungi dal presentare il grave vizio motivazionale richiamato – si sviluppa su un percorso argomentativo del tutto logico, fondato su molteplici e concreti elementi di indagine e tale da riscontrare il fumus del delitto di cui all’art. 4, d. Igs. n. 74 del 2000 con riguardo a tutte le annualità contestate.

6. Il Tribunale, in particolare, ha preso in esame la disciplina dell’art. 2, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte dirette), in forza della quale “soggetti passivi dell’imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato (comma 1).

Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile (comma 2).

Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale (comma 2-bis)”.

Muovendo da tale dato normativo – che richiama un criterio sia formale (iscrizione nell’anagrafe) che sostanziale (residenza fiscale effettiva, fondata tra l’altro sui legami familiari, sugli interessi economici, sulle movimentazioni di denaro) – il provvedimento ha dunque affermato che Vucinic, negli anni di interesse, aveva mantenuto in Italia il centro dei propri interessi, come evidenziato – tra l’altro – dal fatto che la famiglia (moglie e figli) non avesse mai trasferito la residenza da Lecce.

Ancora, il Tribunale ha evidenziato che gli Emirati Arabi Uniti rappresentano un Paese a fiscalità privilegiata (giusta d.m. 4 maggio 1999), tale da far operare la presunzione relativa di residenza in Italia di cui al comma 2- bis, citato; presunzione che, dunque, ben può essere superata dall’interessato, dando prova della sussistenza degli indici di effettiva residenza all’estero elencati alla pag. 6 dell’ordinanza, ossia, in sintesi, “della perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la parallela controprova di una reale e duratura localizzazione nel Paese fiscalmente privilegiato”.

Prova che – si legge nell’ordinanza, con valutazione di merito non sindacabile in sede di legittimità – il ricorrente non ha fornito, quanto agli anni in contestazione.

7. Di seguito, il Tribunale ha preso in esame anche la Convenzione contro le doppie imposizioni vigente tra la Repubblica italiana e gli Emirati Arabi Uniti, che – riprendendo il Modello OCSE di Convenzione – indica quali criteri debbano esser valutati per verificare quale Paese debba ritenersi di effettiva residenza del soggetto, e quale debba invece rinunciare al proprio potere impositivo: criteri (non alternativi) che sono stati così individuati:

1) nel possesso di un’abitazione permanente;

2) nel centro degli interessi vitali (da intendersi quale luogo nel quale sono più stringenti le relazioni personali ed economiche, familiari, sociali, occupazionali, politiche, culturali ed altro);

3) nel luogo in sui si soggiorna abitualmente, in termini affini alla nozione di residenza di cui all’art. 43 cod. civ.

8. Muovendo da questo tessuto normativo, l’ordinanza ha dunque preso in esame tutte le annualità coinvolte e – una ad una – ha analiticamente riportato tutti gli indici che legavano il ricorrente al territorio italiano, con particolare riguardo al versamento di contributi per collaboratori domestici, ai numerosi rapporti finanziari correnti, alla proprietà di autoveicoli e motoveicoli, alla titolarità di immobili ed utenze in Lecce ed a Roma, alle rilevanti spese sostenute (ammontanti sempre a numerose centinaia di migliaia di euro), alla stipula di contratti immobiliari (e senza poter valutare la possibile firma preventiva evocata nel ricorso).

Ancora, il Tribunale ha esaminato la frequentazione degli istituti scolastici da parte dei figli del ricorrente, verificandone i periodi effettivi e controllando al riguardo anche i timbri di ingresso ed uscita dagli Emirati Arabi; analoga dettagliata verifica, inoltre, è contenuta nell’ordinanza quanto ai periodi di formale residenza all’estero degli stessi familiari.

Un complesso ed articolato percorso motivazionale, dunque, frutto di una diffusa verifica del materiale istruttorio in atti, ed all’esito della quale il Tribunale – con argomento non censurabile – ha concluso per il fumus del delitto contestato (unico profilo oggetto di ricorso), assumendo che Vucinic avesse mantenuto effettivo e sostanziale domicilio in Italia per almeno 183 giorni in ciascuno degli anni coinvolti, sì da doversi confermare l’ipotesi accusatoria di cui all’art. 4, d. Igs. n. 74 del 2000, nei termini dell’omessa dichiarazione dei redditi percepiti negli Emirati Arabi Uniti.

9. Deve, comunque, rilevarsi come – sia davanti ai giudici della cautela e sia nel ricorso in cassazione – Vucinic non evidenzia (e neanche prospetta) il pagamento delle imposte negli Emirati Arabi; presupposto, questo, indispensabile per l’applicazione della Convenzione che mira ad evitare – appunto – le doppie imposizioni (“In tema di imposte sui redditi, la Convenzione tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti del 22 maggio 1995 per evitare le doppie imposizioni (ratificata con I. n. 309 del 1997) prevede che i proventi delle professioni indipendenti debbano essere tassati nello Stato di residenza del contribuente, salvo che essi costituiscano remunerazioni per servizi resi ad uno Stato contraente o ad una suddivisione politica o amministrativa o a un ente locale, intendendosi con tale espressione non soltanto le attività inerenti all’esercizio delle funzioni pubbliche tipiche afferenti il Governo dello Stato, ma in genere qualunque servizio chiesto dal Governo per profili di interesse generale.

In tal caso, tali emolumenti possono essere comunque inclusi nella base imponibile, ex art. 23 della Convenzione, a condizione che sia riconosciuta una detrazione pari all’imposta versata nello Stato estero, purché non vi sia una disposizione della medesima che espressamente stabilisca diversamente.

Nella specie, la S.C. ha accolto il ricorso avverso la sentenza che aveva ritenuto tassabili in Italia i proventi erogati dall’Emirato del Dubai per attività di consulenza e promozione, nel paese estero, della disciplina sportiva della resistenza equestre, sebbene l’art. 19 della Convenzione espressamente escludesse la possibilità di tassazione in Italia di remunerazioni di funzioni pubbliche” (Sez. 5, CIVILE Sentenza n. 1210 del 21/01/2020, Rv. 656609 – 01).

E’ pur vero che rileva, in materia, solo il potenziale assoggettamento alla fiscalità dello Stato in convenzione (“In tema di doppia imposizione internazionale, la nozione di persona fisica residente in uno Stato contraente, utilizzata ai fini della applicazione della minore imposta dalla Convenzione Italia-Svizzera – ratificata e resa esecutiva in Italia con I. n. 943 del 1978 – deve essere intesa nel senso di potenziale assoggettamento della stessa ad imposizione in modo illimitato nello Stato di residenza, indipendentemente dall’effettivo prelievo fiscale subìto, essendo lo scopo delle convenzioni bilaterali quello di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali ed agevolare l’attività economica internazionale, come affermato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza 19 novembre 2009, n. 540” Sez. 5 CIVILE, Ordinanza n. 10706 del 17/04/2019, Rv. 653542 – 01), ma nell’ipotesi di un provvedimento cautelare – sequestro – quello che viene in rilievo è il fumus del reato, che deve valutarsi anche in concreto in relazione agli esborsi fiscali del ricorrente (o all’estero o in Italia).

10. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.

Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 (tremila) in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso, il 21/07/2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.