In tema di prelazione agraria (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 11 marzo 2020, n. 7023).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16682/2016 R.G. proposto da:

Chiuccariello Antonio e De Masis Michelina, rappresentati e difesi dagli Avv.ti Pasquale Forte e Vita Lucrezia Vaccarella, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Liberiana, n. 17;

– ricorrenti –

contro

Guidacci Maria, Trivisano Leonarda, Trivisano Ascanio, Trivisano Antonio, Trivisano Lucia e Trivisano Michele, rappresentati e difesi dall’Avv. Sabina Prignano, con domicilio eletto in Roma, via di Pietralata, n. 320, presso lo studio dell’Avv. Gigliola Mazza Ricci; – controricorrenti –

e nei confronti di

Trivisano Lucia (cl. 1953), Trivisano Rosa e Trivisano Leonarda (cl. 1941);

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari, n. 407/2016, pubblicata il 5 aprile 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 febbraio 2020 dal Consigliere Emilio Iannello.

Rilevato in fatto

1. Con sentenza in data 5/4/2016 la Corte d’appello di Bari ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda di riscatto agrario proposta — quale proprietario coltivatore diretto del terreno confinante con quello oggetto di retratto — da Francesco Trivisano (alla cui morte erano subentrati, nel corso del giudizio d’appello, gli eredi) in relazione alla vendita effettuata, con contratto del 20/11/1995, da potere di Lucia (cl. 1953), Rosa e Leonarda Trivisano (cl. 1941) in favore di Antonio Chiuccariello e Michelina De Masis.

2. Avverso tale decisione questi ultimi propongono ricorso per cassazione articolando otto motivi, cui resistono gli eredi del riscattante, depositando controricorso.

Le altre intimate, venditrici del terreno, non svolgono difese nella presente sede.

All’esito dell’adunanza camerale del 14/11/2018, in vista della quale i ricorrenti hanno depositato memoria, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione sulla questione rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza n. 28844 del 09/11/2018 (circa le conseguenze della mancata asseverazione di conformità all’originale informatico della copia cartacea della relata di notifica a mezzo p.e.c. della sentenza e del relativo messaggio di posta elettronica certificata).

Prima dell’odierna adunanza camerale i ricorrenti hanno depositato copia della sentenza notificata, con attestazione autografa di autenticità, e ulteriore memoria.

Considerato in diritto

1. Occorre preliminarmente dare atto che la questione con riferimento alla quale la causa è rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle Sezioni Unite (circa l’idoneità, ai fini del rispetto degli oneri imposti dall’art. 369, comma secondo, num. 2, cod. proc. civ., della produzione della relazione di notifica telematica della sentenza impugnata in copia analogica priva della asseverazione di conformità all’originale informatico), è stata risolta dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8312 del 25/03/2019), con l’affermazione — per quel che in questa sede interessa — dei seguenti principi:

«1) il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo p.e.c. priva di attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1 -bis e 1 -ter, della legge n. 53 del 1994 oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comporta l’applicazione della sanzione dell’improcedibilità ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti (anche in caso di tardiva costituzione) depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli ex art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005.

Invece, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità, il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio nell’ipotesi in cui l’unico destinatario della notificazione del ricorso rimanga soltanto intimato (oppure tali rimangano alcuni o anche uno solo tra i molteplici destinatari della notifica del ricorso) oppure comunque il/i controricorrente/i disconosca/no la conformità all’originale della copia analogica non autenticata della decisione tempestivamente depositata;

«2) i medesimi principi si applicano all’ipotesi di tempestivo deposito della copia della relata della notificazione telematica della decisione impugnata – e del corrispondente messaggio PEC con annesse ricevute – senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1 -bis e 1 -ter, della legge n. 53 del 1994 oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa».

Come sopra s’è detto, i ricorrenti hanno depositato copia cartacea della sentenza, della relata di notifica e del messaggio di posta elettronica certificata a mezzo del quale tale notifica è avvenuta, con attestazione autografa mancante.

Alla luce dell’esposto principio, cui questo Collegio intende dare continuità, non sussistono pertanto le condizioni per l’applicazione della sanzione di improcedibilità ex art. 369, comma secondo, cod. proc. civ..

2. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 8 e 31 legge 26 maggio 1965, n. 590, e 7 legge 14 agosto 1971, n. 817, in relazione all’art. 2697 cod. civ., in punto di onere della prova circa il requisito della inesistenza sul fondo oggetto di riscatto di insediamento di coltivatore diretto.

Lamentano che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto incombere su di essi, acquirenti retrattati, l’onere di provare l’anteatta detenzione del fondo oggetto di riscatto in virtù di contratto d’affitto, laddove — rilevano — secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’insussistenza dell’insediamento nel fondo di coltivatore diretto, costituendo una condizione dell’azione, deve essere dimostrata da chi agisce in giudizio per far valere il diritto di prelazione e riscatto.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «travisamento della prova» in relazione alla ritenuta esistenza di giudicato esterno circa l’inesistenza, fino al 1991, di contratto d’affitto tra essi ricorrenti e la loro dante causa, Trivisano Lucia.

Sostengono che la sentenza del Pretore di Lucera, cui i giudici d’appello hanno attribuito il predetto contenuto preclusivo, si limitava ad affermare che del predetto rapporto agrario non fosse stata in quella sede fornita la prova, ma non escludeva che lo stesso potesse sussistere tra le parti.

4. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione dell’art. 4 legge 4 gennaio 1968, n. 15, in relazione all’art. 2697 cod. civ.», nonché «travisamento del contenuto degli atti notori», per avere la Corte d’appello attribuito valore probatorio alle autocertificazioni prodotte in giudizio dal riscattante a supporto della affermata sua qualità di coltivatore diretto.

5. Con il quarto motivo essi poi denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 8 e 31 legge n. 590 del 1965 per avere la Corte territoriale accolto la domanda di riscatto sebbene il retraente avesse completamente omesso di fornire dati rilevanti ai fini della manifestazione di volontà di riscattare il fondo e di provare comunque i relativi presupposti a fronte delle contestazioni al riguardo opposte da essi retrattati.

Lamentano in particolare che erroneamente la sentenza ha ritenuto sussistente la qualità di coltivatore diretto in capo al riscattante (nonostante egli risultasse pensionato ed invalido, cancellato d’ufficio dagli elenchi dei coltivatori diretti) e non fosse stata fornita prova specifica dell’attività di coltivazione diretta sui propri fondi posti a confine con quelli oggetti di riscatto.

6. Con i motivi quinto, sesto e settimo i ricorrenti deducono violazione o falsa applicazione dell’art. 8 legge n. 590 del 1965 in relazione, rispettivamente: al requisito della mancata alienazione di fondi rustici nel biennio precedente; a quello della capacità lavorativa necessaria ai fini della coltivazione dei fondi; a quello, infine, della coltivazione diretta del proprio fondo confinante nel biennio precedente l’atto di vendita del fondo oggetto di retratto.

Rilevano che: — non risulta documentatamente provato che il Trivisano non abbia venduto nel biennio precedente fondi rustici e che la certificazione a tal fine dallo stesso prodotta non si riferisce ai terreni de quibus; — la Corte di merito non ha indicato l’estensione dell’azienda, nulla ha riferito sulle coltivazioni praticate e nessun accertamento ha compiuto sui fondi oggetto di riscatto; — non vi è prova nemmeno della pregressa coltivazione del fondo confinante il quale peraltro, soggiungono, non è stato nemmeno individuato, tanto da non potersi dire come sia stato coltivato e da chi.

7. Con l’ottavo motivo i ricorrenti deducono, infine, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Lamentano che la Corte d’appello: — «ha completamente ignorato che Trivisano Francesco non ha riferito quali fossero i suoi fondi confinanti con quelli oggetto di causa, non ha detto che li coltivava nel biennio precedente l’atto di compravendita impugnato, né quali coltivazioni fossero praticate ai fini dell’accertamento in concreto della necessaria capacità lavorativa»; — non ha considerato in concreto l’attività di coltivazione dei fondi, ma solo un’astratta capacità lavorativa che nemmeno è stata riportata correttamente (anzi, soggiungono subito dopo, «è stata completamente ignorata»); — ha omesso di esaminare la documentazione allegata agli atti e le deposizioni di ben 11 testimoni, i quali hanno concordemente riferito che il ricorrente non è coltivatore diretto, essendo pensionato ed invalido.

8. Il secondo motivo di ricorso, di rilievo preliminare rispetto al primo, è inammissibile, per difetto di autosufficienza.

Il motivo infatti si fonda su documento (la sentenza del Pretore di Lucera della quale si contesta il valore di giudicato invece attribuitole dai giudici d’appello) in relazione alla quale i ricorrenti non hanno osservato gli oneri, imposti dall’art. 366, comma primo, num. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione del contenuto, mediante trascrizione quantomeno delle parti rilevanti ai fini della censura, e di localizzazione dell’atto nell’incartamento processuale.

Va in proposito data continuità al principio, affermato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale (Cass. del 08/03/2018, n. 5508; 13/12/2006, n. 26627).

Nel caso di specie i ricorrenti si limitano a censurare l’interpretazione accolta nella sentenza impugnata e a opporvi la propria senza però porre in condizione questa Corte, per le ragioni dette, di verificare direttamente il contenuto della sentenza, nei termini sopra esposti, se non in minima parte, palesemente insufficiente allo scopo, attraverso la trascrizione di poche righe (v. ricorso, pag. 12, penultimo capoverso).

9. La sentenza impugnata resiste, pertanto, alle censure dei ricorrenti, quanto all’accertamento dell’insussistenza, almeno fino al 1991, di alcun rapporto agrario che desse titolo agli acquirenti di detenzione del fondo.

Tale accertamento non vale però di per sé ad escludere che sul fondo oggetto di riscatto, anche al momento dell’atto di compravendita, posteriore di quattro anni rispetto al tempo cui detto accertamento è riferito, risultassero insediati «mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti» (l’eventuale sussistenza di tale insediamento essendo, ex art. 7, comma secondo, n. 2, legge 14 agosto 1971, n. 817, condizione impeditiva della configurabilità del diritto del proprietario coltivatore diretto del fondo confinante e, correlativamente, dell’esercizio del diritto di riscatto).

Esclusa dunque la decisività di tale dato (giudicato esterno sulla insussistenza di rapporto agrario fino al 1991) l’accoglimento della domanda di riscatto si rivela per il resto, sul punto, frutto — come fondatamente dedotto dai ricorrenti con il primo motivo — dell’applicazione di una erronea regola di giudizio.

Gli argomenti spesi in sentenza, con riferimento a tale requisito sono infatti i seguenti:

a) nell’atto d’acquisto si dice che gli acquirenti avevano già, fin dall’anno 1985, la «materiale detenzione diretta e personale del fondo» (si parla dunque — chiosano i giudici d’appello — «di materiale detenzione diretta e personale, non ex contractu; troppi aggettivi, mentre sarebbe bastato dire che erano gli affittuari»);

b) la prova del rapporto di affitto incombeva sugli acquirenti retrattati.

È evidente però che, data l’ambiguità del primo elemento (letterale), implicitamente riconosciuta in sentenza, il peso della motivazione poggia interamente sulla seconda affermazione, come del resto esplicitato anche nel rilievo conclusivo, leggibile nel secondo capoverso dell’ultima pagina della sentenza, secondo cui «in definitiva: Chiuccariello-De Masis non hanno provato che loro fossero gli affittuari dei fondi e che quindi dovessero prevalere su Trivisano Francesco, del quale non hanno provato non fosse nelle condizioni per ottenere il riscatto».

Così decidendo i giudici d’appello sono però certamente incorsi nella dedotta violazione dell’art. 2697 cod. civ., essendo pacifico nella giurisprudenza di questa Corte il principio — cui in questa sede deve darsi continuità — secondo cui in tema di prelazione agraria, l’onere probatorio di dimostrare che sul fondo oggetto di riscatto non sussista la condizione impeditiva dello stabile insediamento di un coltivatore diretto grava sul retraente, senza che possa trovare applicazione il principio di vicinanza della prova, non invocabile allorché le circostanze da provare rientrino nella piena conoscibilità ed accessibilità di entrambe le parti, come accade nel caso di specie, considerate le caratteristiche della situazione presa in esame dalla legge agraria, ovvero la contiguità dei fondi e l’attività lavorativa, svolta su quello confinante, da chi esercita il retratto (Cass.26/09/2016, n. 18769; 19/11/2007, n. 23929).

10. Il terzo, il quarto e il settimo motivo, congiuntamente esaminabili nella parte in cui essi afferiscono alla ritenuta sussistenza del requisito della coltivazione diretta del fondo confinante con quello oggetto di riscatto, sono inammissibili.

Sul punto, la sentenza impugnata offre congrua motivazione del proprio convincimento attraverso una sia pur sintetica rassegna degli elementi di prova, in gran parte rappresentati dalle deposizioni dei testimoni, ritenuti convergenti a tal fine (v. pagg. 10 – 12).

Tra tali elementi, il riferimento (a pag. 13, in fine) anche alle autocertificazioni, bensì equivoco ed erroneo, assume tuttavia un rilievo del tutto marginale e non decisivo, posto che, anche espungendolo dalla motivazione, il convincimento sul punto espresso non rimarrebbe privo di ragioni giustificative sufficienti.

La doglianza al riguardo svolta con il settimo motivo si appalesa del tutto generica e meramente assertiva, non investendo detta parte della motivazione, tanto meno secondo critiche riconducibili al paradigma censorio previsto dal (pur menzionato in rubrica) num. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ..

La censura poi (di cui al quarto motivo) secondo cui erroneamente la Corte di merito ha ritenuto compatibile la qualità di coltivatore diretto con quella di pensionato e invalido non si confronta con l’effettivo contenuto della sentenza impugnata che, in buona sostanza, ha ritenuto non preclusivo il dato formale della percezione di pensione di invalidità (anche alla luce della precisazione secondo cui questa sarebbe stata corrisposta solo per tre anni e fino al 1989), né tanto meno di quella di vecchiaia, a fronte di quello prevalente rinveniente dalle prove raccolte che dimostrano, secondo i giudici di merito, lo svolgimento di fatto dell’attività di coltivazione diretta.

11. Il sesto motivo è del pari inammissibile. Non risulta che in punto di idoneità della forza lavorativa del nucleo familiare a garantire, nella misura di almeno un terzo, quella occorrente per la normale necessità della coltivazione del fondo (art. 31 legge n. 590 del 1965), oggetto di positivo accertamento già in primo grado, fosse stato proposto specifico motivo di gravame.

Al riguardo, secondo quanto desumibile dalla sentenza, le sole contestazioni mosse dagli appellanti si basavano sulle condizioni personali o lavorative dei componenti del nucleo familiare per negarne l’idoneità di ciascuno di essi a fornire un effettivo contributo alla coltivazione dei fondi, non facendosi invece questione se tali contributi, ove ne fosse confermata l’effettività, consentissero nel complesso (come positivamente accertato dal primo giudice) di disporre di una forza lavorativa adeguata, nella misura richiesta, alla coltivazione dei fondi accorpati.

Sui punti in contestazione la sentenza d’appello offre un coerente accertamento, richiamando, come detto, le deposizioni testimoniali che supportano il convincimento della effettività del contributo offerto da ciascuno dei componenti della famiglia e affermando in ultima istanza la esistenza di condizioni che rendono «possibile il riscatto».

L’assenza poi di uno specifico calcolo che, in rapporto alla estensione dei fondi accorpati e al tipo di coltivazione svolta, desse ragione del requisito predetto, non è in questa sede censurabile, non essendo tale questione stata proposta in appello.

Occorre sul punto rammentare che, come questa Corte ha ripetutamente precisato, la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti perché possa trovare accoglimento una domanda di riscatto agrario, che costituiscono condizioni dell’azione, può essere verificata d’ufficio dal giudice d’appello solo se la questione non sia stata espressamente esaminata dal giudice di primo grado, mentre nel caso in cui tale esame sia avvenuto è onere della parte soccombente proporre in merito specifici motivi d’appello (Cass.22/03/2013, n. 7265; 08/04/2003, n. 5508).

Di conseguenza, deve farsi applicazione del principio secondo cui, «ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa» (v. ex Cass. 12/12/2019, n. 32506; 24/01/2019, n. 2038).

12. Per la stessa ragione è inammissibile anche il quinto motivo, concernente il requisito della mancata alienazione di altri fondi rustici nel biennio precedente (art 8, comma primo, legge n. 590 del 1965, richiamato dall’art. 7 legge n. 817 del 1971).

Anche sul punto, infatti, oggetto di positivo accertamento in primo grado, non risulta che sia stata sollevata questione in grado d’appello, con la proposizione di specifico motivo di gravame.

13. Per le stesse ragioni, e anche perché palesemente distante dai requisiti richiesti dal paradigma censorio di cui all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., va considerato infine inammissibile anche l’ottavo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti deducono vizio di motivazione in ordine ai requisiti:

a) della capacità lavorativa necessaria ai fini della coltivazione dei fondi;

b) della mancata alienazione di altri fondi nel biennio precedente.

14. In accoglimento, dunque, del solo primo motivo, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso;

– dichiara inammissibili i rimanenti;

– cassa la sentenza in relazione al motivo accolto;

– rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese di giudizio di legittimità.

Così deciso il 05/02/2020.

Depositato in Cancelleria l’11 marzo 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.