Intercettazioni di comunicazioni – parlamentari – autorizzazione della Camera (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 4 marzo 2020, n. 8795).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere

Dott. GAI Emanuela – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Rel. Consigliere

Dott. MACRI’ Ubalda –  Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MAIETTA PASQUALE nato a (OMISSIS) il xx/xx/xxxx;

avverso l’ordinanza del 02/08/2019 del GIP TRIBUNALE di LATINA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ALESSIO SCARCELLA;

lette le conclusioni del Procuratore Generale Dott.ssa ANTONIETTA PICARDI, che ha chiesto annullarsi senza rinvio l’ordinanza del GIP di Latina;

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza 2.08.2019, il GIP/Tribunale di Latina, in accoglimento dell’istanza del PM presentata in data 3.04.2019, richiedeva a norma dell’art. 6, co. 2, legge n. 140 del 2003, alla Camera dei Deputati, l’autorizzazione all’utilizzazione delle conversazioni e comunicazioni indicate nel prospetto allegato all’ordinanza, disponendo trasmettersi alla Camera l’ordinanza ed una serie di atti in copia.

2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione in questa sede, che in data 9.04.2018, il medesimo GIP aveva emesso una ordinanza custodiale in carcere nei confronti di numerosi indagati, tra cui il Maietta, eseguita il 16 aprile successivo, all’epoca dei fatti parlamentare della Repubblica Italiana, intercettato indirettamente nell’ambito del relativo procedimento penale.

Detta ordinanza, impugnata davanti al tribunale del riesame, è stata annullata dichiarando inutilizzabili le conversazioni intercettate richiamate nell’ordinanza medesima, non essendo stata richiesta l’autorizzazione alla Camera di appartenenza del parlamentare.

Il ricorso per Cassazione, proposto dal Pm, è stato dichiarato inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 34552/2017 che, nell’affrontare il tema dell’autorizzazione successiva delle intercettazioni indirette, ha ritenuto inutilizzabili quelle conversazioni perché intercettate al di fuori dei casi previsti dalla legge.

Successivamente, a seguito dell’emissione del decreto di giudizio immediato cautelare, dinanzi al giudice del dibattimento, il PM ha depositato al tribunale – dopo la declaratoria di inutilizzabilità parziale delle intercettazioni di cui era stata richiesta la trascrizione, in base a quanto stabilito da questa S.C. – istanza di invio alla Camera dei Deputati della richiesta di autorizzazione.

Individuato dal tribunale il GIP quale organo competente all’inoltro della richiesta, il PM ha avanzato identica istanza al GIP, accolta con l’ordinanza impugnata.

3. Contro la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

3.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli articoli 125, 127, 178, 191 e 268 c.p.p. e dell’articolo 6, I. n. 140/2003 e correlato vizio motivazionale, per aver l’ordinanza impugnata, con atto abnorme, accolto l’istanza di cui all’articolo 6 comma 2 I. n. 140/2003, disponendo la trasmissione delle intercettazioni nelle quali figura quale interlocutore indiretto l’ex parlamentare alla Camera dei Deputati, affinché ne venga autorizzato l’utilizzo nell’ambito del procedimento penale n. 1308/15 R.g.n.r e 3864/18 R. g. trib. attualmente pendente innanzi al Tribunale di Latina.

In sintesi, la difesa ritiene innanzitutto che l’ordinanza impugnata sia affetta da abnormità in quanto si è esplicata al di fuori dei casi e delle ipotesi previste dall’ordinamento.

Invero, l’abnormità riguarda il profilo strutturale e funzionale dell’atto che non rientra tra quelli tipici del segmento processuale. Nel caso di specie, per la difesa, il Gip di Latina, al fine di sopperire al ritardato esercizio da parte dell’Ufficio della Procura, si è attribuito un potere che non gli spettava più, essendo tra- scorso oltre un anno dall’esercizio dell’azione penale e trovandosi il procedimento in fase di istruttoria dibattimentale (in questo senso vengono citate: Cass, SSUU, Magnano e Di Battista).

Del resto, la difesa sottolinea che sul tema si è già espressa la Corte costituzionale che ha dichiarato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 224 c.p.p. manifestamente inammissibile.

Nello specifico, la Corte ha ritenuto di non avvallare l’ipotesi di una ultrattività della funzione del Gip che, nel caso di specie, sarebbe rimasto per il Tribunale rimettente competente alla trascrizione delle intercettazioni pur in costanza del dibattimento.

Infatti, i giudici della Consulta ritengono che attribuire una competenza funzionale al Gip in materia di acquisizioni probatorie, destinata ad operare anche dopo la fase delle indagini costituisce un regime privo di riscontro sistematico nel codice di rito (sul tema viene citata, Corte cost. n. 255/2012).

Per la difesa, pertanto, si versa in un caso di mancanza di competenza funzionale che rende il provvedimento del giudice non conforme ai parametri normativi e rende l’atto viziato da nullità assoluta e attaccabile per abnormità.

Del resto, si sottolinea che, ai sensi di una regola non scritta, per non aderire alla decisione costituzionale, il giudice ordinario deve sol- levare una nuova questione di legittimità, circostanza che non è avvenuta nel caso di specie, in cui il giudice si è limitato ad ipotizzare la possibilità che due diversi organi giurisdizionali possano a proprio piacimento intervallarsi tra loro (a tal proposito vengono citate: Cass., SSUU, n. 212075/1998; Cass., SSUU; n. 211195/1998; Cass., SSUU, n. 203426/1995).

La difesa inoltre sottolinea l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che ha preso le mosse dalla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite De Lorenzo, in virtù del quale il Gip, una volta pronunciato il decreto che dispone il rinvio a giu- dizio, perde la propria competenza funzionale in ordine ad atti che non siano quelli urgenti collegati alla libertà personale dell’imputato.

Del resto, le ragioni addotte dal provvedimento impugnato non risultano, per la difesa, sufficienti a radicare la propria competenza, in particolare quanto alla circostanza che l’articolo 6 comma 3, della I. 140/2003 non preveda un termine di decadenza entro il quale la richiesta di autorizzazione deve essere presentata, né contenga indicazioni circa la perdita di competenza del Gip.

Sostenere diversamente vorrebbe dire non considerare le pronunce delle Sezioni Unite che sottolineano che la competenza funzionale è desumibile dal sistema e costituisce un principio implicito e immanente dell’ordina- mento. In altre parole, il passaggio dalla fase investigativa a quella deputata all’accertamento della responsabilità penale segnerebbe il confine entro il quale è possibile per il Gip esercitare le proprie funzioni.

Per la difesa sembra, poi, inconferente il richiamo che nell’ordinanza si opera all’articolo 4 comma 4 e 6 comma 4 della I. citata, in cui si prevede una procedura speciale da mettere in atto nel caso in cui sia necessario rinnovare la richiesta di autorizzazione, peraltro già ritualmente trasmessa alla Camera e da quest’ultima vagliata positivamente, nel caso di scioglimento delle Camere.

Invero, nel caso di specie si tratta di una mera autorizzazione postuma e, comunque, la difesa sottolinea che negli articoli indicati non si specifica che il soggetto preposto all’inoltro della richiesta d’autorizzazione da rinnovare debba essere il Gip.

A tal proposito, nel silenzio della legge, si deve ritenere, secondo la difesa, che la competenza a tale rinnovo sia del giudice che procede, per evitare indebiti accavallamenti di competenze funzionali.

Inoltre, la difesa sottolinea che l’interpretazione sistematica offerta dal provvedimento impugnato confligge con l’interpretazione autentica della disciplina di riferimento, nella misura in cui non considera che, in sede dei lavori parlamentari che hanno preceduto l’entrata in vigore di tale legge costituzionale, l’onorevole Fanfani aveva proposto di inserire un emendamento che permettesse di posticipare il termine ultimo per l’inoltro dell’istanza di autorizzazione postuma alla fase immediatamente successiva alle indagini preliminari, emenda- mento che tuttavia non era stato approvato.

Infine, la difesa censura il provvedimento impugnato laddove ha inteso ancorare la competenza funzionale del Gip al fatto che tale fase incidentale non ha determinato alcuna regressione del procedimento: infatti, tale affermazione per la di- fesa crea un cortocircuito argomentativo. In altre parole, è proprio la mancata regressione del processo alla fase anteriore a costituire la ragione per cui deve essere esclusa un’ ultrattività del Gip, mentre non vi sarebbe stato alcun problema se il processo principale fosse regredito e la Procura, unitamente a un nuovo esercizio dell’azione penale, avesse deciso di sollecitare il Gip ai sensi dell’articolo 6 comma 2 della I. n. 140/2003.

4. Il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte, dott.ssa Antonietta Picardi, con requisitoria scritta, depositata presso la cancelleria di questa Corte in data 8.10.2019, ha chiesto annullarsi senza rinvio l’ordinanza del GIP di Latina.

Innanzitutto il Procuratore Generale, nonostante la difesa non abbia operato tale osservazione, rileva che si è già formato il giudicato cautelare sulla possibile utilizzabilità delle intercettazioni alla luce della pronuncia della Sesta sezione penale n. 34552/2017 che ha confermato l’ordinanza del Tribunale del riesame dichiarando non utilizzabili le intercettazioni in cui il Maietta era stato indirettamente intercettato, dal momento che egli era stato iscritto nel registro degli indagati sin dall’inizio delle indagini.

Il Procuratore Generale sottolinea quindi che, nonostante si tratti di un giudicato cautelare, esso riguarda il mezzo di prova ed il P.m., nel reiterare l’istanza, non ha apportato elementi nuovi e tali da modificare il quadro probatorio definito in sede cautelare.

Del resto, il Procuratore generale ricorda il costante orientamento giurisprudenziale in virtù del quale le valutazioni circa la legittimità delle procedure di autorizzazione di operazioni di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni compiute in sede di incidente cautelare dalla Corte di cassazione precludono la riproposizione delle medesime questioni nel giudizio principale, salvo che non siano emersi o dedotti fatti nuovi (sul tema: Cass., sez. I, n. 23748/2012).

In secondo luogo, ritiene comunque da accogliere il ricorso, dal mo- mento che ci si trova di fronte ad un provvedimento emesso fuori dal termine massimo previsto dalla I. n. 140 del 2003 che deve individuarsi nel termine delle indagini preliminari.

Invero, il giudice per le indagini preliminari non ha il ruolo di mero nuncius dell’istanza del Pm, ma deve valutare la necessità di utilizzare le intercettazioni o i tabulati telefonici e non può avere il diritto di ius dicere quando il processo si sta celebrando dinnanzi ad un giudice diverso.

Infatti, questa interpretazione sarebbe incoerente con il nostro sistema basato su una progressione processuale e su norme che disciplinano incompatibilità dei giudici che si sono pronunciati sul processo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5. Il ricorso è fondato.

6. Al fine di meglio chiarire le ragioni che hanno condotto questa Corte a tale approdo, occorre esaminare il tema giuridico centrale, relativo alla disciplina delle intercettazioni del parlamentare.

7. Con la riforma dell’art. 68 Cost., avvenuta per mezzo della legge costituzionale n. 3/1993, è stato modificato il sistema delle immunità parlamentari per garantire il corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali nei confronti dei parlamentari.

Infatti, con la nuova disciplina si è previsto un sistema per proteggere l’integrità di composizione e la piena autonomia decisionale delle assemblee legislative da attività giudiziarie illegittime.

Dal punto di vista costituzionale, l’immunità parlamentare assolve a un compito di estrema importanza, ed infatti permette di proteggere i parlamentari dagli abusi che l’esecutivo potrebbe esercitare per mezzo dell’autorità giudiziaria, garantendo così l’indipendenza del potere legislativo.

Del resto, l’indipendenza e la libertà di espressione dei parlamentari nell’esercizio delle proprie attribuzioni istituzionali costituivano un argomento particolarmente sentito dai Costituenti che, all’indomani del ventennio fascista e memori dei mezzi tanto brutali quanto efficaci con i quali il regime usava zittire i dissidenti, vollero accordare ai parlamentari una tutela tale da garantirne l’indipendenza, in funzione di una equilibrata separazione di competenze tra i poteri forti dello Stato.

Per questo motivo l’art. 68 della Costituzione prevedeva una tutela molto ampia: “I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.

Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”.

8. Sono stati così individuati una serie di atti, fra cui le intercettazioni dei parlamentari, che per essere compiuti richiedono un’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare sottoposto all’attività processuale.

Del resto, la conclusione è coerente con il sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato così come delineato dalla Costituzione, nonché con il valore che la stessa Costituzione attribuisce alla volontà popolare.

Va infatti considerato il fine cui tende l’immunità prevista dall’art. 68 Cost. che è quello di garantire al parlamentare l’autonomia che gli deriva dall’essere stato scelto dal corpo elettorale per la gestione della cosa pubblica.

Per tali ragioni la Magistratura necessita del consenso della Camera di appartenenza del parlamentare per l’adozione di misure gravi come l’arresto, le perquisizioni, le intercettazioni, perché con esse, dato il loro carattere invasivo, si può interferire con la sovranità popolare (esercitata a norma dell’art. 1 Cost. proprio attraverso i parlamentari liberamente eletti): infatti, tali misure sono potenzialmente idonee ad ostacolare l’esercizio delle funzioni che gli elettori hanno loro affidato.

In altre parole, sono gli elettori stessi che devono acconsentire all’adozione di quelle misure e alla conseguente limitazione di sovranità attraverso il voto favorevole della maggioranza dei loro rappresentanti.

9. La nuova disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni dei parlamentari (I. 20.6.2003, n. 140) ha tentato dunque di tradurre in regole di dettaglio le scelte costituzionali espresse nell’art. 68. e ha previsto, in particolare, che l’autorità giudiziaria debba essere autorizzata sia se voglia sottoporre a intercettazione (diretta o indiretta) un parlamentare (art. 4), sia se voglia usare processualmente nei confronti del parlamentare una sua intercettazione casualmente raccolta (art. 6).

Nel primo caso l’autorizzazione è preventiva alla raccolta della prova e rende il mezzo probatorio legittimo sul presupposto che esso occorra; nel secondo caso l’autorizzazione è successiva alla raccolta della prova e rende il dato probatorio (ab origine legittimo) fruibile processualmente nei confronti del parlamentare sul presupposto che esso sia necessario. In altre parole, si possono presentare tre diverse ipotesi. In primo luogo, è possibile che il magistrato voglia sottoporre ad intercettazioni le conversazioni e le comunicazioni telefoniche del parlamentare (c.d. intercettazioni dirette).

In tal caso egli deve chiedere ed ottenere la preventiva autorizzazione da parte della camera di appartenenza ed evidentemente si tratta di una ipotesi irrealistica, giacché il parlamentare, sapendo prima che le proprie utenze sono intercettate, si guarderà bene dal dire qualcosa di penalmente rilevante a suo carico. In secondo luogo, si può verificare il caso in cui il magistrato voglia sottoporre ad intercettazioni le conversazioni e le comunicazioni telefoniche non del parlamentare, ma di suoi interlocutori abituali, come un familiare o membri del suo staff (c.d. intercettazioni indirette “mirate”), ed anche in tal caso deve chiedere ed ot- tenere la preventiva autorizzazione da parte della camera di appartenenza.

In definitiva, ciò che conta è la finalità dell’indagine e cioè il voler captare le comunicazioni del parlamentare, indipendentemente dalla titolarità dell’utenza intercettata. In questi casi, dunque, se il giudice delle indagini preliminari ritiene le registrazioni penalmente rilevanti, anziché distruggerle, per utilizzarle deve chiedere l’autorizzazione preventiva alla camera di appartenenza (su questo tema: Corte cost. nn. 163/2005, 390/2007, 74/2013).

Infine, il magistrato, nell’intercettare un soggetto terzo sottoposto ad indagini, si può imbattere nella conversazione occasionale tra questi ed un parlamentare (c.d. intercettazioni indirette “casuali” o “fortuite”) e, per utilizzare il contenuto di tali intercettazioni contro il parlamentare (o anche solo i tabulati telefonici), dovrebbe comunque chiedere l’autorizzazione, in questo caso successiva, alla Camera di appartenenza.

10. La Corte di cassazione ha esplicitato i parametri in virtù dei quali una intercettazione si può definire fortuita ed invero ha stabilito che in tema di intercettazioni telefoniche, la casualità della captazione delle conversazioni cui abbia preso parte un parlamentare, in assenza di autorizzazione della Camera di appartenenza, deve essere accertata con riferimento a molteplici parametri costituiti:

a) dalla tipologia dei rapporti intercorrenti tra il parlamentare e il terzo sottoposto a controllo;

b) dall’attività criminosa oggetto di indagine;

c) dal numero di conversazioni intercorse tra il terzo ed il parlamentare;

d) dall’arco di tempo della captazione;

e) dal momento in cui sono sorti indizi a carico del parlamentare.

11. Sul tema sono state numerose le pronunce di costituzionalità.

11.1. In primo luogo, è stata la Corte di cassazione con ordinanza del 9 marzo 2004 a promuovere il giudizio di costituzionalità, censurando l’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e l’art. 7 della legge n. 140/2003, perché in contrasto con gli articoli 3, 24 e 112 della costituzione, che recano appunto la richiamata disciplina delle cosiddette intercettazioni indirette ossia dell’utilizzabilità delle registrazioni e dei verbali di conversazioni o comunicazioni di soggetti terzi «intercettate in qualsiasi forma» e alle quali abbiano «preso parte membri del Parlamento».

Il giudice a quo riteneva che ricadesse nella previsione normativa non solo l’ipotesi del parlamentare intercettato allorché l’utenza del suo interlocutore fosse sotto controllo, ma anche quella ove ad essere intercettata casualmente fosse la comunicazione di altro soggetto, che in qualità di mero nuncius del parlamentare si limitasse a trasmettere la sua volontà.

Nel caso di specie si trattava di un militare della Guardia di Finanza addetto alla sicurezza di un senatore a vita che per conto di quest’ultimo ed utilizzando la sua utenza telefonica prendeva contatti con l’esponente di vertice di un’organizzazione criminale allo scopo di ordinare della sostanza stupefacente per l’uso personale del senatore.

La Corte costituzionale dichiarò inammissibile la questione sollevata in quanto ri- tenne non condivisibile la premessa interpretativa da cui muoveva la Cassazione: infatti, il Giudice delle leggi puntualizzò che era necessario riferirsi al comune significato dell’espressione, “prende parte” ad una conversazione o comunicazione per comprendere che si deve ritenere tale solo colui che interloquisce in essa e non anche colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene, sia pure nella veste di mero portavoce.

Affermò, inoltre, che dai lavori preparatori della I. n. 140/2003 emerge come il legislatore aveva inteso sganciare il meccanismo autorizzatorio dalla mera “riferibilità” al membro del Parlamento dei contenuti della conversazione intercettata, fuori dei casi di una sua partecipazione personale e diretta ad essa. In altre parole, l’inutilizzabilità va circoscritta alle sole conversazioni cui il soggetto abbia preso parte interloquendo, con esclusione di quelle cui il parlamentare, pur presenziandovi, sia rimasto muto o di quelle in cui taluno, in qualità di “nuncius”, abbia riportato la sua volontà o il suo pensiero (sul punto Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24621 del 21/06/2006).

11.2. In secondo luogo, con la sentenza 23 novembre 2007 n. 390 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 2°, 5° e 6° dell’art. 6, I. n. 140/2003, nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dai membri del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate. In sostanza, a seguito di questa sentenza il Gip non ha più bisogno di alcuna autorizzazione parlamentare per utilizzare le intercettazioni nei confronti dei terzi, anche se contengono conversazioni con parlamentari.

L’autorizzazione rimane necessaria solo per utilizzarle anche nei confronti dei parlamentari, ma nell’eventualità in cui la camera di appartenenza neghi tale autorizzazione, non vi è più alcun obbligo di distruzione ed il Gip potrà liberamente utilizzarle nei confronti dei terzi.

Infatti, in tema di intercettazioni telefoniche, in assenza di autorizzazione della Camera di appartenenza, non può escludersi l’utilizzabilità nei confronti del terzo delle conversazioni captate sull’utenza nella sua disponibilità cui abbia preso parte casualmente un parlamentare, anche dopo che quest’ultimo sia stato identificato come interlocutore del soggetto intercettato, salvo che si accerti che le stesse erano finalizzate ad intercettare indirettamente il parlamentare (in questo senso: Cass., Sez. 2, sentenza n. 8739 del 16/11/2012).

Al contrario, quando il Gip ritiene necessario utilizzare le intercettazioni nei confronti del parlamentare intercettato il giudice decide con ordinanza ed entro dieci giorni richiede l’autorizzazione alla Camera cui appartiene il parlamentare o apparteneva al momento in cui sono state intercettate le sue comunicazioni.

Nel caso in cui non venga concessa l’autorizzazione la documentazione relativa alle intercettazioni va distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dal diniego.

Inoltre, nell’ipotesi in cui queste prescrizioni non vengano rispettate in ogni stato e grado del procedimento devono essere dichiarati inutilizzabili tutti i verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni.

Infine, la Corte costituzionale ha esemplificato i presupposti che legittimano l’uso di questo mezzo di ricerca della prova quando sia raccolto casualmente, riprendendo e approfondendo quanto già affermato nel 2010 in un precedente conflitto di attribuzioni.

La Corte, dunque, in prima battuta sottolinea come la legge subordina l’uso processuale delle intercettazioni casuali a due fondamentali requisiti: esse devono contenere specifiche emergenze processuali, vale a dire devono essere pertinenti, in analogia a quanto prescrive l’art.189 c.p.p.; devono essere necessarie, vale a dire devono essere rilevanti e non superflue in analogia a quanto prescrive l’art. 190 c.p.p.

Non si tratta dunque di misurare la decisività della prova raccolta, né di anticipare giudizi di merito sul risultato probatorio: bisogna invece appurare che le conversazioni captate abbiano a oggetto direttamente o indirettamente i temi probatori, non siano sovrabbondanti e siano dotate di attitudine dimostrativa.

Tali valutazioni sono del resto strumentali all’accertamento di un eventuale intento persecutorio nei confronti del parlamentare: infatti, il bilanciamento fra i due opposti valori costituzionali, parità di trattamento di fronte alla giurisdizione e tutela dell’attività parlamentare, viene effettuato attraverso delle presunzioni.

Se l’intercettazione è rilevante e necessaria, si presume la legittimità dell’agire dell’autorità giudiziaria; se invece i due presupposti mancano, vale la presunzione contraria dell’illegittimità del comportamento.

La valutazione di tali elementi è riservata alla sola autorità giudiziaria e tale monopolio tuttavia trova compensazione nella indefettibilità della motivazione: infatti, il giudice deve dare adeguato conto delle relative ragioni, con motivazione non implausibile.

Al contrario, la Camera investita della richiesta di autorizzazione, non può svolgere un riesame, né adottare criteri extralegali discrezionali o politici: essa deve solo verificare che la richiesta sia motivata, sia congrua e sia non implausibile rispetto ai due parametri legali codificati.

In altre parole, all’autorità giudiziaria spetta in esclusiva la libera valutazione dei presupposti legali, ma essa trova un limite nella necessità della motivazione; mentre alla Camera competente spetta il controllo non sul merito della valutazione, ma sulla sua legittimità, che si esplica attraverso il classico controllo sulla presenza, completezza e logicità della motivazione (in analogia agli artt. 125 e 606 c.p.p.).

12. Pertanto, competente ad effettuare tale verifica è il giudice delle indagini preliminari ed a tal proposito è opportuno – ai fini che qui rilevano tenuto conto del tenore dell’impugnazione di legittimità proposta dal Maietta – un breve excursus sui tipi di competenza, nozione che rientra nel concetto di legittimazione del giudice intesa come individuazione dei requisiti necessari perché il giudice possa porre in essere provvedimenti giurisdizionali validi.

Essa segna la relazione di legittimazione corrente tra l’ufficio giudiziario, preso nel suo complesso, e gli atti giurisdizionali, per cui non riguarda l’individuazione del giudice singolo, persona fisica chiamato a decidere una controversia, ma l’ufficio giudiziario competente, all’interno del quale sarà poi possibile individuare, sulla base delle disposizioni relative alla costituzione del giudice, il singolo giudice o collegio che adotterà il provvedimento. Il nostro codice prevede, infatti, tre criteri di determinazione del giudice competente: si distingue rispettivamente tra competenza per materia, competenza per territorio e competenza per connessione.

A questi va aggiunta, altresì, la competenza per funzione, che, correlata ai tre predetti criteri di cui occorre il previo accertamento, individua il giudice competente in base alla funzione da questi svolta nell’ambito di un medesimo procedimento; inoltre, con la soppressione dell’ufficio del Pretore, è stato introdotto un ulteriore criterio di assegnazione delle res giudicande.

12.1. Per quanto riguarda la competenza “per fasi” essa consiste nella competenza a svolgere determinati procedimenti o particolari fasi o gradi del procedimento o a compiere determinati atti, viene quindi in rilievo la fase anteriore al giudizio, per cui è competente il Gip e successivamente il Gup; la fase del giudizio, per cui sono competenti i giudici sopra menzionati a seconda che si verta in primo o secondo grado o in Cassazione; e la fase dell’esecuzione, nell’ambito della quale occorre distinguere le competenze attribuite al giudice dell’esecuzione, da quelle attribuite alla magistratura di sorveglianza (a sua volta articolata nelle funzioni del Magistrato di Sorveglianza e in quelle del Tribunale di sorveglianza).

Nel codice non mancano altresì specifiche attribuzioni di un determinato giudice: si pensi ad esempio alle funzioni espletate dal Tribunale in composizione collegiale in materia di riesame o di appello di misure cautelari.

13. Tanto premesso, si giustifica la decisione di accoglimento del ricorso.

13.1. In primo luogo, infatti, deve ritenersi condivisibile la tesi della difesa secondo la quale il giudice per le indagini preliminari ha esaurito il suo potere, risultando così la richiesta tardiva.

A tal proposito, di assoluta rilevanza risulta l’ordinanza n. 255/2015 con cui la Corte costituzionale ha ritenuto di non dover introdurre una competenza funzionale specifica del giudice per le indagini preliminari in materia di acquisizioni probatorie, destinata ad operare anche dopo che la fase delle indagini preliminari si è conclusa, la quale concorrerebbe, intersecandola, con quella “generale” del giudice del dibattimento e darebbe luogo ad un regime privo di riscontro nella sistematica del codice di rito.

L’atto compiuto dal giudice delle indagini preliminari risulta quindi abnorme per tale intendendosi un atto che provoca un vizio radicale da denunciare in ogni tempo, sia per mezzo delle impugnazioni, sia con autonoma azione (Cass. 19 luglio 2016, n. 14790; Cass. 14 gennaio 2015, n. 488).

13.2. Del resto, l’abnormità viene tradizionalmente classificata in due categorie: da un lato, quella strutturale, cagionata dall’esercizio, da parte del giudice, di un potere non attribuitogli dall’ordinamento, oppure, previsto, ma esercitato in una situazione radicalmente diversa da quella configurata dalla legge; dall’altro, l’abnormità funzionale, che si verifica in caso di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo.

Pertanto, per comprendere se un atto è abnorme, è necessario svolgere un duplice accertamento. In primo luogo, bisogna confrontare il provvedimento del giudice con il modello normativo di riferimento e controllare se l’atto è stato emesso al di fuori dei casi consentiti, o, comunque, al di là di ogni ragionevole limite, dal mo- mento che la conformità alla fattispecie legale può infatti essere anche meramente apparente. In secondo luogo, è necessario analizzare le conseguenze dell’atto e verificare se esso imponga il compimento di successive e ulteriori attività viziate.

Al contrario, non comporta abnormità l’errore nel compimento dell’atto, conseguente all’erronea interpretazione dei suoi presupposti; in tal caso, infatti, l’atto è comunque espressivo di un potere conferito al giudice dalla legge, seppur erroneamente applicato.

Nel caso di specie, l’atto emesso al di fuori dei casi consentiti deve essere considerato abnorme, anche tenuto conto del fatto che in altre ipotesi assimilabili a questa, seppur in considerazioni di atti di diversa specie, la Corte di cassazione ha ritenuto integrata tale causa di invalidità.

13.3. A tal proposito occorre considerare Cass. Sez. 1, sentenza n. 16028 del 27/04/2006 secondo la quale è abnorme, perché esula dal sistema processuale e determina una indebita stasi del procedimento, il provvedimento con il quale il Tribunale, investito di decreto di rinvio a giudizio ritualmente notificato all’imputato, disponga la restituzione degli atti al Gip sul rilievo dell’omessa traduzione del provvedimento che dispone il giudizio nella lingua conosciuta dall’imputato, poiché, in presenza di un decreto di rinvio a giudizio ritualmente notificato, spetta al giudice del dibattimento provvedere alla rinnovazione della citazione previa traduzione del decreto nella lingua conosciuta dall’interessato.

Infatti, l’abnormità è un vizio più grave della semplice anomalia, in quanto è il risultato di un procedimento illegittimo, ma l’atto è viziato non solo per la sua forma esteriore, ma per il suo contenuto, esorbitante dai poteri attribuiti nella fattispecie all’organo giudiziario, e perciò, nella sua essenza risulta contrario al diritto fondamentale di difesa oppure si pone in contrasto insanabile con i principi generali dell’ordinamento. (così Cass., sez. un. 2317/1995).

13.4. In secondo luogo, occorre analizzare il tema introdotto dal Procuratore ge- nerale che attiene alla preclusione derivante dal giudicato cautelare.

Infatti la Corte di cassazione, Sez. 6, Sentenza n. 34552 del 05/04/2017, nel dichiarare inammissibile il ricorso del Pm avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma che aveva accolto la doglianza difensiva circa l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate, dopo aver ricordato le condizioni per le quali le conversazioni possono effettivamente definirsi casuali, ha ritenuto immune da vizi il provvedimento con cui il Tribunale del riesame ha dichiarato l’inutilizzabilità delle intercettazioni sul presupposto che il parlamentare era stato iscritto nel registro degli indagati sin dall’inizio delle indagini preliminari che avevano ad oggetto proprio i rapporti tra questi e gli interlocutori intercettati.

La Corte ha infatti sottolineato che il Tribunale del riesame di Roma ha rilevato, con motivazione logica e coerente, che il Maietta era stato iscritto nel registro degli indagati sin dall’inizio delle indagini riguardanti l’intera vicenda, in data 16 agosto 2014.

Nelle informative della polizia giudiziaria poste a fondamento dei provvedimenti autorizzatori e dalle proroghe delle intercettazioni adottate dal Giudice per le indagini preliminari in data 14 luglio 2014 ed in data 29 luglio 2014 era, inoltre, indicato che l’oggetto di indagine originario fossero proprio i rapporti tra il Maietta e l’amministrazione comunale.

Per tali ragioni la Sesta sezione penale non ha ritenuto illogica la valutazione del Tribunale del riesame secondo la quale, nella concorrenza dei predetti elementi fattuali, le intercettazioni delle conversazioni del Maietta debbano essere ritenute non già casuali, bensì originariamente mirate, e, pertanto, siano inutilizzabili per violazione dell’art. 68, comma secondo, Cost. nonché dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003.

13.5. Del resto, in tema di giudicato cautelare, la preclusione derivante da una precedente pronuncia del Tribunale del riesame opera allo stato degli atti, essendo preordinata ad evitare ulteriori interventi giudiziari in assenza di una modifica della situazione di riferimento, con la conseguenza che è superata dal successivo rinvio a giudizio con il quale sia stata precisata l’imputazione (così Cass. Sez. 3, sentenza n. 10976 del 19/01/2016). In altre parole, la preclusione derivante da una precedente pronuncia del Tribunale del riesame concerne solo le questioni esplicitamente o implicitamente trattate e non anche quelle deducibili e non dedotte.

Pertanto, detta preclusione opera allo stato degli atti, ed è preordinata ad evitare ulteriori interventi giudiziari in assenza di una modifica della situazione di riferimento, con la conseguenza che essa può essere superata laddove intervengano elementi nuovi che alterino il quadro precedentemente definito (così Cass. Sez. 5, sentenza n. 1241 del 02/10/2014).

In tale pronuncia, si afferma, da un lato, che le ordinanze in materia cautelare, quando siano esaurite le impugnazioni previste dalla legge, hanno efficacia preclusiva “endo-processuale” riguardo alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte, con la conseguenza che una stessa questione, di fatto o di diritto, una volta decisa, non può essere riproposta, neppure adducendo argomenti diversi da quelli già presi in esame; dall’altro, che la preclusione del c.d. giudicato cautelare non opera rispetto alle acquisizioni di nuovi elementi probatori che, ponendosi in contraddizione con quelli già valutati, impongono necessariamente una nuova rivalutazione del quadro indiziario.

13.6. Nel caso di specie l’istanza del pubblico ministero appare una mera reiterazione di quella già presentata e non accolta, dal momento che non risultano acquisiti nuovi elementi difformi da quelli precedentemente acquisiti e quindi, indubbiamente, opera anche la preclusione in esame.

14. L’impugnata ordinanza dev’essere, conclusivamente, annullata senza rinvio.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di cassazione, il 29 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.