Irregolari i prelievi di contanti e le emissioni di assegni circolari: licenziata la dipendente della banca (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 31 maggio 2022, n. 17597).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16872-2019 proposto da:

(OMISSIS) ANTONELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (OMISSIS), 64, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GAETANO (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

BANCA PER LO SVILUPPO DELLA COOPERAZIONE DI CREDITO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (OMISSIS) n. 46, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GABRIELE (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 457/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 27/03/2019 R.G.N. 320/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/02/2022 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROBERTO MUCCI, visto l’art. 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. Con lettera in data 8 agosto 2013 la Banca per lo Sviluppo della Cooperazione di Credito s.p.a. intimò ad Antonella (OMISSIS) il licenziamento avendole preventivamente contestato di aver effettuato una serie di operazioni irregolari per importi di rilevante ammontare consistenti in prelievi in contanti ed emissioni di assegni circolari in assenza delle contabili e della necessaria modulistica ovvero sulla base di contabili prive della sottoscrizione dei clienti.

2. Il Tribunale di Cosenza, prima in sede sommaria e poi all’esito dell’opposizione, pur esclusi gli addebiti del 14.5.2012, accertò la legittimità del recesso.

3. La Corte di appello di Catanzaro investita del reclamo ex art. 1 comma 58 e ss. della legge n. 92 del 2012, lo respinse osservando che i fatti addebitati alla lavoratrice le erano stati specificatamente contestati fornendole gli elementi di fatto necessari per predisporre le sue difese. Accertò poi che delle condotte contestate era stata offerta una prova rassicurante.

Evidenziò infatti che il nome utente, riferibile alla lavoratrice, compariva nelle operazioni attenzionate.

Tanto risultava anche dalla relazione dell’audit depositata in giudizio il cui disconoscimento non era stato reiterato in sede di reclamo. Inoltre, sottolineò che uno dei testi escussi, il responsabile del servizio audit che effettuò i controlli, aveva ribadito la riferibilità alla lavoratrice delle operazioni oggetto di verifica.

A chiarimento e precisazione di quanto affermato in fase sommaria e di opposizione, ritenne poi che alla traccia informatica, pacificamente rilevata, doveva essere attribuita una particolare valenza probatoria quanto alla riferibilità alla lavoratrice delle operazioni non essendo stata offerta una plausibile versione alternativa dei fatti in presenza di un dato così rilevante.

Sottolineò che il sistema informatico utilizzato era provvisto di misure di sicurezza quanto all’identificazione degli utenti e, in conclusione, ritenne raggiunta la prova della riferibilità delle operazioni attenzionate alla lavoratrice poi licenziata le quali, per la loro importanza, ben giustificavano la scelta datoriale di recedere dal rapporto.

Escluse di poter attribuire rilevanza alla denunciata presenza nei locali della banca di lavoratori fittizi.

Evidenziò infatti che, in ogni caso, la lavoratrice aveva sempre negato di aver ceduto ad altri le sue credenziali a terzi.

Infine ritenne del tutto proporzionata la sanzione rispetto ai fatti addebitati.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Antonella (OMISSIS) articolando tre motivi ai quali ha resistito con controricorso la Banca per lo Sviluppo della Cooperazione di Credito s.p.a..

Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il primo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod.proc.civ., è inammissibile.

5.1. Deduce la ricorrente che la Corte di Appello ha ritenuto soddisfatto il requisito di specificità degli addebiti sulla base di una mera descrizione, seppur in dettaglio, di singoli episodi alcuni dei quali, invero, neppure erano riferibili alla condotta della lavoratrice ritenuta irregolare.

Sostiene che in tal modo sarebbe stata violata la regola secondo la quale la contestazione deve essere specifica e va svolta con modalità tali da consentire il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del dipendente.

Ritiene la ricorrente, invece, di aver avuto piena comprensione del contenuto degli addebiti e del reale motivo dell’azione disciplinare solo successivamente all’adozione del provvedimento disciplinare quando acquisì i documenti depositati dalla Banca in altri giudizi (documenti che contenevano l’indicazione della natura e delle finalità illecite delle condotte che peraltro erano state ascritte dal datore di lavoro alla responsabilità anche penale di altri), circostanze che erano state scorrettamente sottaciute e/o dissimulate in sede di contestazione disciplinare.

Allega che la violazione di legge denunciata consisterebbe inoltre nel fatto che questi fatti, sottaciuti, erano stati utilizzati dalla Corte di Appello che aveva finito per conferire al fatto contestato una diversa configurazione.

5.2. Rileva in proposito il Collegio che la censura, pur veicolata come una violazione delle disposizioni che impongono alla datrice di lavoro di contestare specificatamente i fatti oggetto dell’addebito disciplinare per consentire al lavoratore di apprestare una compiuta difesa, si risolve nella sostanza in una inammissibile rivalutazione della verificata corretta confezione dell’addebito disciplinare della quale la Corte di appello si è fatta carico, con motivazione esaustiva, nel replicare alla censura formulata con il reclamo di genericità della contestazione.

5.3. In tema di sanzioni disciplinari riferibili al rapporto di lavoro privato, premesso che la contestazione dell’addebito ha lo scopo di fornire al lavoratore la possibilità di difendersi, la specificità della contestazione sussiste quando sono fornite le indicazioni necessarie ad individuare nella sua materialità il fatto nel quale il datore di lavoro abbia ravvisato la sussistenza di infrazioni disciplinari (cfr. Cass. 23/08/2006 n. 18377).

L’apprezzamento del requisito della specificità della contestazione dell’addebito deve essere condotto dal giudice di merito, al quale tale apprezzamento è riservato, secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali.

Si tratta di valutazione che è sindacabile in cassazione solo mediante censura che evidenzi la difformità dell’interpretazione data dalla sentenza rispetto ai canoni di interpretazione ricordati e non può limitarsi a prospettare, come invece è avvenuto nel caso in esame, una lettura alternativa dell’atto rispetto a quella svolta nella decisione impugnata (cfr. Cass.30/05/2018 n. 13667).

Peraltro, nell’apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati tenuto conto del loro contesto e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa (cfr. Cass. 20/03/2018 n. 6889).

5.4. Tanto premesso nel caso in esame la Corte territoriale nel procedere alla verifica della specificità della contestazione si è attenuta ai principi su indicati evidenziando che dalla nota di contestazione erano chiaramente evincibili i fatti addebitati alla lavoratrice nei loro precisi contorni.

La ricorrente oggi ripropone la diversa lettura di quegli stessi fatti, già sottoposta all’attenzione della Corte del reclamo, insistendo nel ritenere che solo con l’acquisizione di ulteriori documenti si erano chiariti i termini esatti della condotta addebitatale.

Sul punto, tuttavia, la Corte di appello ha, condivisibilmente, chiarito che tale aspetto rileva non tanto ai fini della specificità della contestazione dei fatti, sufficientemente esplicitati, quanto piuttosto sotto il profilo della prova degli addebiti.

Si tratta di piani diversi di valutazione.

Un conto è la verifica della specificità dell’addebito su cui si innesta una piena e compiuta difesa del lavoratore. Un altro è la prova dell’addebito contestato che grava sul datore di lavoro e che può essere variamente offerta.

6. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ..

Deduce la ricorrente che la Corte di Appello, nel riconoscere la sussistenza dei fatti sotto il profilo della imputabilità alla lavoratrice delle condotte e della loro rilevanza disciplinare, sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge in quanto – pur dovendo porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e i fatti non contestati, valutandone le risultanze secondo il principio del libero apprezzamento (che non può tradursi in valutazione arbitraria, svincolata da ogni criterio di ragionevolezza, coerenza e correttezza) – avrebbe invece deciso in assenza di una prova rassicurante dei fatti.

Avrebbe recepito come facenti piena prova elementi suscettibili di essere valutati, disatteso le risultanze della prova testimoniale e ritenuto prove quelle che invece erano solo mere ipotesi e/o congetture rimaste indimostrate.

6.1. Anche tale motivo di ricorso non può essere accolto.

6.2. E’ noto (cfr. Cass. 27/12/2016 n. 27000) che non può porsi una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. laddove nella sostanza, come avviene nella specie, si denunci una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito.

Tale violazione è correttamente veicolata nel giudizio solo allorché si alleghi che il giudice abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione.

Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice di merito integra un errore di fatto che va censurato nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ. (cfr. Cass. 12/10/2021 n. 27847) e non, come nella specie, come violazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 primo comma cod. proc.civ..

Peraltro, ove si voglia prescindere dalla rubrica del motiva analizzandone il contenuto nella prospettiva di una censura posta come vizio di motivazione essa sarebbe inammissibile poiché nella sostanza la doglianza si risolve nel proporre una diversa lettura delle risultanze istruttorie ma non denuncia un omesso esame di fatto decisivo che solo ne avrebbe potuto inficiare la tenuta.

7. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 2106 e dell’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970 poiché ha ritenuto proporzionata la massima sanzione espulsiva trascurando di tenere conto della effettiva gravità della condotta tenuta, dell’intensità dell’elemento soggettivo, della disparità di trattamento rispetto a quello riservato ad altri dipendenti.

Con riguardo a quest’ultima ha evidenziato poi che il regolamento disciplinare, adottato dal datore di lavoro ed acquisito agli atti di causa, sanziona con il licenziamento condotte diverse da quelle contestate all’odierna ricorrente.

7.1. Anche tale motivo di ricorso, per quanto ammissibile, è infondato.

7.2. E’ noto che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 cod.civ. che prevede il licenziamento senza preavviso per il caso in cui si verifichi una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, norma c.d. elastica, è demandata al giudice di merito il quale è tenuto a verificare la riconducibilità della condotta contestata ed in concreto accertata nella nozione di giusta causa di licenziamento sulla base di un procedimento sussuntivo che richiede al giudice di procedere in sede interpretativa alla selezione delle condotte valorizzando sia fattori esterni relativi alla coscienza generale che principi dalla stessa disposizione implicitamente richiamati (cfr. tra le altre Cass. 26/10/2018 n. 27238 ed ivi le richiamate Cass. 05/10/2009 n. 21214 e 29/04/2004 n. 2254. Si veda anche Cass.22/08/ 2002 n. 12414).

Quella di “giusta causa” è una nozione articolata e mutevole nel tempo, ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali e astratte, un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa.

Si tratta di specificazioni del parametro normativo che hanno natura giuridica la cui contestazione ed eventuale disapplicazione è perciò deducibile in sede di legittimità come violazione di legge.

Al contrario l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici.

7.3. L’operazione di valutazione compiuta dal giudice di merito per applicare la norma elastica, come l’art. 2119 cod.civ., non si sottrae ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione e nell’applicazione dei parametri integrativi.

L’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (cfr. Cass. n. 27238 del 2018 cit. ed ivi le richiamate Cass. n. 9266 del 2005 e n. 5299 del 2000).

7.4. La scala valoriale espressa poi dalle disposizioni disciplinari della contrattazione collettiva costituisce uno dei parametri per mezzo dei quali riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 cod.civ..

Tuttavia la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie.

La valutazione operata dal giudice di merito, poi, può essere sottoposta all’esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola elastica costituito dalle previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare.

Al contrario l’applicazione in concreto dello specifico canone integrativo ricostruito rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione e nei limiti in cui tale censura è oggi ancora ammissibile (cfr. tra le tante Cass. 28/05/2019 n. 14504 ma anche Cass. 23/09/2016 n. 18715 e più recentemente Cass. 19/08/2020 n. 17321).

7.5. A tali principi si è attenuta la Corte territoriale che all’esito dell’esame delle condotte risultate provate nel corso del giudizio ne ha evidenziato l’estrema gravità tenendo conto, oltre che del dato oggettivo dell’entità delle somme oggetto degli illeciti prelievi, del contesto in cui si sono verificate, anche del rilievo da attribuire all’operato del direttore della filiale e dell’accertata riferibilità alla lavoratrice, sulla base di una serie di elementi tra loro convergenti in maniera univoca, della materiale esecuzione degli stessi.

Si tratta di un apprezzamento dei fatti acquisiti al processo che si vuole ribaltare proponendone una diversa valutazione in questa sede inammissibile.

Per contro, accertata la condotta, non è revocabile in dubbio la sua sussumibilità nella nozione di giusta causa, sotto il profilo della idoneità della stessa a ledere il vincolo fiduciario che il datore di lavoro deve poter riporre nel suo dipendente nella correttezza della sua prestazione tenendo conto dell’attività svolta, delle mansioni e delle responsabilità in concreto affidate alla lavoratrice, dei possibili pregiudizi per la clientela e per la banca stessa derivanti da condotte non conformi alle regole impartite.

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13 comma i. quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 2 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.