Le e-mail della madre sul figlio malato inviate al medico che le divulga costano la diffamazione (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 23 gennaio 2020, n. 2705).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CATENA Rossella – Presidente

Dott. BELMONTE Maria Teresa – rel. Consigliere

Dott. MICHELI Paolo – Consigliere

Dott. MINCHELLA Antonio – Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

COMUZZI MARIO nato a TRIESTE il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 11/07/2018 della CORTE APPELLO di TRIESTE;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MARIA TERESA BELMONTE;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. LUIGI ORSI che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;

udito il difensore.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Trieste ha confermato la decisione del Tribunale di Udine, che aveva riconosciuto Mario Comuzzi colpevole di diffamazione, in concorso, commessa ai danni di Daniela Righini, medico della As1 di San Daniele del Friuli, attraverso la pubblicazione, su siti internet, di scritti diffamatori a lui inviati da Braida Silvia, perchè ne desse ampia diffusione.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione Comuzzi, con il ministero del difensore abilitato, il quale svolge tre motivi.

2.1. Violazione di legge e correlato vizio della motivazione, con riferimento alla affermazione di responsabilità in ordine a una e-mail del 24 febbraio 2013 – della quale non v’è cenno nel capo di imputazione – trasmessa al ricorrente dalla madre di un giovane ricoverato presso il centro di igiene mentale, e da lui inoltrata sul proprio sito internet e su altri, per darne diffusione.

Si duole il difensore della non ravvisabilità dell’animus diffamandi essendosi limitato, il ricorrente, a diffondere la e-mail scritta da una madre disperata e includente una comunicazione proveniente da un medico psichiatra che elaborava censure di metodo in ordine alla terapia somministrata al giovane dal personale medico della Asl.

2.2. Violazione dell’art. 124 cod.proc.pen., in quanto la persona offesa non querelò mai il Comuzzi, limitandosi a chiedere la punizione della autrice dello scritto, Flava Braida, neppure venendo citata, nella querela, la e-mail di cui si discute, inoltrata, come detto, dal ricorrente il 24 febbraio 2013.

2.3. Violazione dell’art. 131 – bis cod.pen., per avere la Corte di merito escluso la causa di speciale tenuità del fatto in ragione della gravità delle affermazioni contenute nella comunicazione inoltrata dal ricorrente, senza considerare, tuttavia, le modalità della condotta specifica, nonché la circostanza che l’evento diffamatorio non dipese dalla spedizione di quella e-mail da parte dell’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. E’ manifestamente infondato il motivo di ricorso con il quale si pone la questione della indeterminatezza del capo di imputazione, non prospettata tempestivamente dinanzi al giudice del dibattimento nel termine di legge.

La genericità della imputazione – che dà luogo alla nullità del decreto di citazione a giudizio prevista dall’art. 552 c.p.p., comma 2, per insufficiente determinazione del fatto ex art. 555 commi 1, lett. c), – per costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, non integra, infatti, una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178 c.p.p., perché non costituisce una ipotesi di omessa citazione dell’imputato (Sez. 5, n. 29933 del 16/06/2006, Rv. 235150), ma rientra tra quelle relative, di cui all’art. 181 c.p.p., con la conseguenza che essa resta sanata qualora non venga eccepita prima dell’apertura del dibattimento (Sez. 5, n. 28512 del 14/05/2014 , Rv. 262508), e non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall’art. 491 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 1175 del 09/03/2000, Rv. 217123; Sez. 5, n. 712 del 20/11/2009 Rv. 245734; Sez. 5, n. 20739 del 25/03/2010, Rv. 247590; Sez. 6, n. 50098 del 24/10/2013, Rv. 257910; Sez. 3, n. 19649 del 27/02/2019, Rv. 275749).

Nel caso di specie, della ritenuta genericità dell’ imputazione v’è traccia solo nell’atto di appello, donde la inammissibilità del motivo di ricorso, peraltro, ripropositivo di questioni già risolte dai giudici di merito, i quali hanno ricondotto la e-mail del 24 febbraio 2013 al ricorrente per averla egli firmata e riconosciuta nel corso dell’esame.

Nella sentenza gravata, inoltre, si è valorizzato anche il profilo causale evidenziandosi come il ricorrente, non solo avesse fatto proprio il contenuto diffamatorio dello scritto di cui era stata autrice la Brida (per la quale si è proceduto separatamente), ma vi aveva anche aggiunto espressioni significative della personale adesione alle affermazioni ivi contenute, circostanza correttamente ritenuta rilevante anche sotto il profilo soggettivo, tenuto conto che, in tema di delitti contro l’onore, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista “l’animus iniurandi vel diffamandi”, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012 , Rv. 254390).

Nella specie, il ricorso reitera le difese già disattese con puntuale motivazione dai giudici di merito, non contestando il fondamento obiettivo delle conclusioni raggiunte dalla sentenza impugnata.

3. Manifestamente infondato è anche il motivo che si incentra sul difetto della condizione di procedibilità, tenuto conto del contenuto della querela che così recita: “sussistono tutti gli estremi essenziali per configurare a carico di tutti coloro che hanno posto in essere le condotte suindicate il delitto di diffamazione aggravata ex art. 595 comma 3 cod. pen. ovvero altra e diversa ipotesi delittuosa che il P.M. riterrà di ravvisare nei fatti descritti”.

Si tratta di una richiesta di punizione chiaramente aperta a tutti coloro che fossero stati ritenuti responsabili della diffamazione e di ogni altro reato ravvisabile nella condotta denunciata.

D’altro canto, l’art. 123 cod. pen. enuncia il principio dell'”indivisibilità” della querela, secondo cui essa è condizione di procedibilità nei riguardi di chiunque risulti responsabile del reato e, pertanto, produce i suoi effetti ope legis anche nel caso di erronea indicazione del colpevole da parte della persona offesa ( Sez. 5, n. 7473 del 21/01/2014 , Rv. 258882; Sez. 4, n. 42479 del 17/07/2009 , Rv. 245457) e anche, eventualmente, contro la volontà del denunciante (Sez. 5, n. 5403 del 10/02/1989 Rv. 181026).

Nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che, nel caso in cui il querelante manifesti contestualmente la volontà di perseguire alcuni colpevoli e non altri, la rinuncia risulta inoperante poiché l’intento punitivo ha prevalenza, in quanto esso, in base all’ad 123 cod.pen., permane e si espande, mentre la rinuncia risulta priva di efficacia, perché implicitamente sottoposta alla condizione che vengano perseguiti gli altri responsabili, secondo quanto disposto dall’ad. 339 comma 2 cod.proc.pen. (Sez. 5, n. 10398 del 18/06/1999 ,Rv. 215032).

4. L’ultimo motivo di ricorso – con cui si lamenta il mancato riconoscimento della causa di non punibilità del fatto, ai sensi dell’ad. 131bis cod. pen – è interamente ripetitivo di quello prospettato già in appello, in ordine al quale la Corte territoriale ha giustificato la decisione facendo riferimento alla gravità delle accuse all’onore e alla professionalità della persona offesa, e considerando non occasionale la condotta per le ripetute e-mail inoltrate dal ricorrente.

La valutazione è corretta e tiene conto dell’orientamento di legittimità secondo cui il giudizio finale di particolare tenuità dell’offesa postula necessariamente la positiva valutazione di tutte le componente richieste per l’integrazione della fattispecie, sicchè i criteri indicati nel primo comma dell’ad. 131bis cod.pen. sono cumulativi quanto al giudizio finale circa la particolare tenuità dell’offesa, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità, e alternativi quanto al diniego, nel senso che l’applicazione della causa di non punibilità in questione è preclusa dalla valutazione negativa anche di uno solo di essi (Sez. 3 n. 893 del 28/06/2017, Rv. 272249; Sez. 6 n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647; Sez. 3 n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678; Sez. 6 – , n. 55107 del 08/11/2018 Rv. 274647).

5. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge (art. 616 cod.proc.pen) la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo fissare in euro 3000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, 23 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.