Per la Cassazione va condannata per omicidio colposo la conducente che nei pressi della fermata di un autobus non rallenta e investe un pedone provocandone la morte (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 27 maggio 2021, n. 20912).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere

Dott. NARDIN Maura – Rel. Consigliere

Dott. DAWAN Daniela – Consigliere

Dott. ESPOSITO Aldo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) MARISA nata a (OMISSIS) il 09/01/19xx;

avverso la sentenza del 25/06/2019 della CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MAURA NARDIN;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa OLGA MIGNOLO che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

E’ presente l’avvocato (OMISSIS) VALERIO del foro di ROMA in difesa di (OMISSIS) MARISA.

Il difensore illustra i motivi di ricorso concludendo per l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 25 giugno 2019, la Corte d’Appello di Roma, revocando le statuizioni civili, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma con cui Marisa (OMISSIS) è stata ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 589 comma 2″ cod. pen., perché con colpa consistita in negligenza imprudenza ed imperizia, nonché nella violazione dell’art. 140 cod. pen., alla guida di un’autovettura, nell’effettuare una svolta a sinistra, investiva il pedone Giuseppe (OMISSIS), il quale stava attraversando la carreggiata al di fuori delle strisce pedonali, in senso perpendicolare rispetto alla direzione di marcia del veicolo, provenendo dalla fermata dell’autobus, cagionandogli lesioni che lo conducevano alla morte.

2. Avverso la sentenza della Corte territoriale propone ricorso l’imputato, a mezzo del suo difensore, affidandolo a tre distinti motivi.

3. Con il primo lamenta la violazione della legge penale in relazione al disposto degli artt. 157 e 161 cod. pen., rilevando che il reato alla data della pronuncia della sentenza di secondo grado era già estinto per prescrizione, essendo il fatto risalente al giorno 8 aprile 2008.

Rileva che al tempo del commesso reato vigeva l’art. 589 cod. pen. come novellato dalla I. 21 febbraio 2006 n. 102, che prevedeva per l’omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme del Codice della strada la pena edittale da due a cinque anni di reclusione e che la disciplina sulla prescrizione derivante dalla riforma di cui alla legge 251/2005 (c.d. ex Cirielli), applicabile alla fattispecie, con cui si è previsto che il tempo della prescrizione del reato sia corrispondente al massimo della pena edittale -e comunque non inferiore ad anni sei per i delitti- ha raddoppiato il termine prescrizionale per alcuni reati, fra i quali l’omicidio colposo aggravato dalla violazione della disciplina sulla circolazione stradale.

Ricorda che l’argomento è stato affrontato con la sentenza della Quarta sezione penale della Suprema Corte n. 3291/2018, con cui si è chiarito che la regola del raddoppio va applicata sul termine ordinario, e non quello derivante dall’applicazione dell’art. 161, comma 2^ cod. pen., che consente l’aumento di un quarto del termine in forza delle interruzioni e sospensioni.

Da ciò deriva che, in forza del raddoppio del termine, il delitto contestato si è prescritto in anni dieci dal fatto e non in anni quindici, come ritenuto dalla Corte territoriale, che ha indicato lo spirare del termine prescrizionale, nella fattispecie concreta, alla data del 11 aprile 2023.

4. Con il secondo motivo si duole della violazione della legge processuale in relazione agli artt. 495 e 603 cod. proc. pen., nonché del vizio di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione del dibattimento.

Sottolinea che la richiesta di disporre perizia tecnica sulla ricostruzione della dinamica del sinistro era stata motivata dalla diversità delle conclusioni cui erano giunte le consulenze del pubblico ministero, della difesa e della parte civile.

Nonostante l’espresso riconoscimento della parziale difformità degli esiti, invero, la Corte territoriale non ha ritenuto di conferire l’incarico peritale, sostenendo che ciò non ha impedito al primo giudice di giungere all’affermazione di responsabilità e che dagli atti non emergono dati utili ad escluderla.

Cionondimeno, la lettura delle relazioni e delle dichiarazioni rese dai consulenti in sede di esame dibattimentale consente di apprezzare la differenza delle ricostruzioni, che solo illogicamente possono essere ridotte ad uniformità.

Il Consulente del pubblico ministero, infatti, ha dato atto che il punto d’urto è da individuarsi a ridosso della fermata degli autobus, che il pedone era in movimento e che sia lui che l’automobilista potevano avvistarsi reciprocamente, che l’auto procedeva a velocità moderata„ senza tuttavia poter affermare che l’avvistamento avrebbe impedito l’urto, mentre nulla poteva rimproverarsi alla conducente in relazione alla posizione o all’andatura di marcia.

Il Consulente della parte civile ha ritenuto che la velocità dell’auto fosse pari a km/h 40,00, come tale non commisurata allo stato dei luoghi, che il pedone fosse fermo o camminasse lentamente all’interno della corsia di emergenza degli autobus, con la conseguenza che l’auto avrebbe invaso quella corsia, che lo spazio di frenata fosse di mt. 22, che il veicolo avesse la possibilità di avvistare il pedone, per cui se l’avesse visto in tempo, sarebbe comunque arrivato addosso al pedone, ma solo nella fase terminale.

Il Consulente dell’imputato ha affermato:

– che la velocità dell’auto era moderata (km/h 40,32), la velocità del pedone era pari a mt. 1,5 al secondo (passo svelto);

– che fra il punto d’urto iniziale e quello sul parabrezza vi era uno spazio di cm. 15 cm;

– che se il pedone fosse stato fermo sarebbe stato sbalzato in avanti, circostanza smentita dai rilievi, secondo i quali il pedone rotolò sul cofano e cadde sulla destra;

– che il punto d’urto fra l’auto ed il pedone è interno alla corsia di marcia della vettura;

– che il pedone non poteva essere avvistato dall’investitrice, in quanto il medesimo è passato dalla linea gialla che delimita la corsia dei bus, alla carreggiata in circa un secondo (0,93 secondi), lasso temporale incompatibile con la reazione psicotenica;

– che il pedone non poteva essere nella corsia del bus perché la posizione finale dell’auto è incompatibile con detta ipotesi.

Osserva che, dunque, la consulenza della parte civile è del tutto incompatibile con quelle del Pubblico ministero e della difesa e con gli accertamenti della Polizia municipale, essendo rivolta a dimostrare la responsabilità esclusiva dell’automobilista.

Dalle consulenze del Pubblico ministero e della difesa emerge, infatti, che il pedone compì una manovra gravemente azzardata ed altamente imprudente, attraversando lontano dalle strisce pedonali, poste a trenta metri e dagli impianti semaforici, in un punto di intenso traffico veicolare, dati questi ignorati dalla sentenza impugnata.

5. Con il terzo si duole, ex art. 606, comma 1^, lett. b) dell’erronea applicazione della legge penale in ordine all’art. 43 cod. pen., alla nozione di colpa e di concorso di colpa, nonché del vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omessa verifica delle evidenze processuali.

Rammenta che originariamente il Pubblico ministero aveva richiesto al G.I.P. l’archiviazione del procedimento evidenziando che alla luce del rapporto della Polizia municipale e della Consulenza tecnica non erano emersi comportamenti concreti idonei ad attribuire all’indagata la responsabilità del sinistro, determinato dall’attraversamento irregolare ed incauto del pedone.

Tanto che, a seguito del provvedimento del G.I.P., all’esito dell’udienza di opposizione all’archiviazione, il Pubblico ministero aveva formulato l’incolpazione, ai sensi dell’art. 409, comma 5 cod. proc. pen., sottolineando il parere contrario del pubblico ministero e il marcato profilo di colpa del pedone Giuseppe (OMISSIS), che aveva intrapreso l’attraversamento in violazione delle disposizioni dettate dall’art. 190, commi 2, 3 e 5 C.d.S..

Assume che le evidenze processuali hanno inequivocabilmente dimostrato che il pedone attraversò in una zona non consentita, a passo svelto, o quantomeno con una velocità normale, che il punto d’urto è interno alla carreggiata impegnata dall’automobile, che la velocità dell’auto era di km/h 40,00.

Rileva che la sentenza affermando l’avvistabilità del pedone (unico punto di antitesi fra la consulenza del Pubblico ministero e quella della difesa) omette di tenere in considerazione il tempo psicotecnico di reazione, posto che, come messo in evidenza dalla difesa, siffatto tempo era troppo ridotto rispetto alla velocità tenuta dal pedone.

Né la decisione tiene in considerazione che al momento del sinistro pioveva, ciò diminuendo la visibilità, né che in quel punto gli automobilisti sono portati a volgere lo sguardo a destra, per porre attenzione ai veicoli che svoltano a sinistra, mentre il pedone ha attraversato in un punto vietato proprio da sinistra.

Né, infine, la sentenza si fa carico di chiarire se, qualora avesse potuto avvistarlo, l’automobilista avrebbe potuto con una brusca frenata evitare l’impatto con il pedone.

Richiama la giurisprudenza di legittimità sulla prevedibilità ed evitabilità del pericolo.

Conclude per l’annullamento della sentenza impugnata, con assoluzione dell’imputata perché il fatto non costituisce reato, o, in subordine con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Roma.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve essere rigettato.

2. Il primo motivo, con cui si fa valere l’intervenuta prescrizione del reato prima della pronuncia della sentenza di seconda cura, è infondato.

3. La pronuncia di questa Sezione (Sez. 4, n. 3291/2017 del 5 ottobre 2016) richiamata dal ricorrente, lungi dall’avvalorare l’assunto secondo il quale il reato di cui all’art. 589, comma 2^ cod. pem, si prescrive in dieci anni, chiarisce che il termine prescrizionale è stabilito in anni dodici, aumentati, ai sensi dell’art. 161, comma 2^ cod. pen., ad anni quindici.

Ripercorrendo la modifiche legislative che hanno interessato il disposto dell’art. 589 cod. pen. -per quanto qui di interesse, essendo il reato stato commesso in data 11 aprile 2008 , cioè prima della disciplina di cui all’art. 1 d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni nella legge n. 125/2008, che ha ulteriormente aumentato la pena massima prevista dall’art. 589 cod. pen., nell’ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme in materia di circolazione stradale- deve rilevarsi che l’art. 2 della legge 21 febbraio 2006, n. 102, ha aumentato la pena minima prevista dal secondo comma dell’art. 589, mantenendo fermo il massimo edittale in anni cinque di reclusione In tema di prescrizione, invece, la legge 251/2005 (c.d. ex Cirielli) ha riscritto l’art. 157 cod. pen., introducendo la regola per la quale la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.

La normativa ha, inoltre, inserito per la prima volta la regola del raddoppio dei termini per alcuni reati fra i quali quello di cui all’art. 589, commi 2 e 3 cod. pen.

Secondo la disciplina della prescrizione vigente alla data di commissione del fatto (11 aprile 2008), dunque, il termine di estinzione per i reati che prevedono la pena massima di cinque anni di reclusione non è quello corrispondente al massimo della pena prevista bensì quello fissato in via sussidiaria dal legislatore con valenza generale, pari ad anni sei di reclusione.

Nondimeno, secondo la previsione dell’art. 157, comma 6^ cod. pen., tale termine è raddoppiato per il reato di cui all’art. 589, comma 2″.

Ciò posto, nondimeno, deve rilevarsi che la regola del raddoppio introdotta con il richiamato art. 157, comma 6^ cod. pen. non incide sulla pena edittale, bensì sul termine di prescrizione.

E “poiché i commi che precedono il sesto nell’art. 157 c.p. attengono unicamente al termine “ordinario”, ovvero quello che non tiene conto di eventuali sospensioni o interruzioni del medesimo, la regola del raddoppio si applica su tale termine e non su quello massimo (che infatti risulta dalla regola posta dall’art. 161, comma 2, c.p.).

Per esemplificare, ove il termine ordinario sia quello di sei anni e quindi quello massimo di sette anni e sei mesi, il raddoppio del termine concerne la misura di sei anni, non quella di sette anni e sei mesi.

Ove si determini una causa interruttiva o di sospensione del termine, la previsione dell’art. 161, comma 2. c.p., secondo la quale in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, condurrà a calcolare l’aumento sui termine raddoppiato, ovvero su dodici anni (e non sul termine di sette anni e sei mesi)” (Sez. 4, n. 3291/2017 del 5 ottobre 2016).

Dunque, per il caso di reato commesso dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 157 (legge ex Cirielli) e prima dell’entrata in vigore del testo dell’art. 589, come risultante dall’art. 1 d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni nella legge n. 125/2008, il termine di prescrizione ordinario, è pari ad anni dodici, ai sensi del sesto comma della norma, che ne prevede il raddoppio, aumentato, in forza del disposto dell’art. 161, comma 2^ cod. pen., ad anni quindici (dodici anni più un quarto).

Sicché essendo il reato stato commesso in data 11 aprile 2008, il termine di prescrizione decorre in data 11 aprile 2023, come correttamente indicato dalla Corte territoriale.

4. Il secondo motivo ed il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, non sono fondati.

5. La doglianza, con la quale si lamenta, in primo luogo, il rigetto dell’istanza di conferimento di incarico peritale, nonostante la difformità delle conclusioni cui sono giunti i consulenti del Pubblico ministero, della difesa e della parte civile, non si confronta con l’assenza dell’obbligo per il giudice di disporre una perizia, che resta uno strumento di prova essenzialmente discrezionale, cui il giudice può fare ricorso laddove ritenga di non avere adeguati elementi tecnici necessari per la valutazione di un determinato fatto, desumibili dal materiale probatorio in atti, fra cui rientrano le consulenze di parte.

Come di recente ricordato dalle Sezioni Unite “La mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, Sentenza n. 39746 del 23/03/2017, Rv. 270936, in un caso di perizia richiesta sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale; in precedenza: Sez. 2, Sentenza n. 52517 del 03/11/2016, Rv. 268815; Sez. 4, Sentenza n. 7444 del 17/01/2013, Rv. 255152; Sez. 6, Sentenza n. 43526 del 03/10/2012, Rv. 253707; Sez. 6, Sentenza n. 456 del 21/09/2012 dep. 08/01/2013, Rv. 254226; Sez. 4, Sentenza n. 46359 del 24/10/2007, Rv. 239021).

E ciò, perché il principio del libero convincimento consente al giudice di merito pur in assenza di una perizia d’ufficio di “scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti e, ove tale valutazione sia effettuata in modo congruo, è inibito al giudice di legittimità procedere ad una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità. (Sez. 4, Sentenza n. 8527 del 13/02/2015, Rv. 263435; Sez. 3, Sentenza n. 4672 del 22/10/2014, Rv. 262469; Sez. 4, Sentenza n. 34747 del 17/05/2012, Rv. 253512; Sez. 2, Sentenza n. 3383 del 28/02/1997, Rv. 207411).

6. Fatta questa premessa, non può sostenersi, come fa il ricorrente, che la Corte territoriale nel rigettare la richiesta di disporre una perizia non abbia offerto adeguato sostegno alla decisione assunta, posto che, pur dando atto della parziale difformità delle conclusioni raggiunte dalle consulenze delle parti, ha affermato che esse offrono – così come già ritenuto dal primo giudice- elementi sufficienti alla ricostruzione della dinamica del sinistro, non emergendo, per contro, la sussistenza di ulteriori fatti utili, da ricercare, al fine di escludere la responsabilità dell’imputata.

7. Invero, il ricorrente, ponendo a confronto di esiti degli accertamenti tecnici, sottolinea che, salvo quanto rilevato dalla consulenza della parte civile – il cui contenuto, peraltro, non è stato preso in considerazione dai giudici di merito – le modalità del sinistro sono state ricostruite in modo conforme, eccezion fatta per la possibilità di avvistamento della vittima, affermata dal consulente del pubblico ministero ed esclusa dal consulente della difesa, circostanza che si riverbera sulla possibilità di evitare l’investimento da parte della conducente.

Entrambi, infatti, individuano il punto d’urto all’interno della carreggiata, a sei metri dallo spartitraffico che delimitava l’accesso dei bus alla corsia di pertinenza per la fermata, stabiliscono, attraverso calcoli sovrapponibili, la velocità dell’autovettura in km/h 40,00, chiariscono che il passaggio in quel punto era vietato e che l’azione del pedone fu gravemente incauta, egli apprestandosi ad effettuare l’attraversamento di tutto il piazzale e delle strade che vi confluiscono, in senso perpendicolare, esponendosi al rischio di interferire con le traiettorie di veicoli procedenti su direzioni diverse.

Nondimeno, le conclusioni dei consulenti differiscono in ordine al tempo necessario per giungere dalla corsia dei bus al punto d’urto, in relazione alla velocità del passo tenuto dal pedone, calcolato dal consulente del pubblico ministero in mt. 0,70 al secondo, e dal consulente dell’imputata in mt. 1,5 al secondo, con la conseguenza, per il primo, della piena avvistabilità del pedone e, per il secondo, della sua impossibilità.

8. Ebbene, la doglianza che si concentra su siffatte difformità evocando il difetto di motivazione della sentenza impugnata, che non avrebbe dato adeguata risposta alle censure tecniche proposte con l’atto di gravame, non coglie nel segno.

La Corte territoriale, seppure con motivazione stringata, chiarisce che la condotta colposa addebitabile alla ricorrente, da cui è derivato il mancato tempestivo avvistamento, è dipesa dall’inadeguatezza del comportamento di guida tenuta in prossimità di una fermata degli autobus, la cui presenza rendeva prevedibile anche un attraversamento sconsiderato da parte dei pedoni ed imponeva un’andatura particolarmente moderata ed un’adeguata attenzione per evitare ogni possibile sinistro.

Un simile ragionamento, d’altro canto, si pone in linea con le risultanze della consulenza del Pubblico ministero, come riportate dal ricorso in esame, secondo le quali pedone e la conducente del veicolo potevano reciprocamente avvistarsi, posto che l’investimento è intervenuto a sei metri di distanza dallo spartitraffico.

Siffatto ultimo dato, che peraltro non viene posto in dubbio dalla ricorrente, posto che il punto d’urto è confermato anche dalla consulenza della difesa, con la differenza che l’elaborato di quest’ultima, anch’esso ampiamente ripreso con il gravame, considera unicamente il tratto compiuto dal pedone sulla carreggiata (mt. 1,4) e non la possibilità di avvistamento nel tratto precedente, fra lo spartitraffico e la corsia impegnata dall’imputata.

9. La sentenza, dunque, affronta, in modo coerente, la prevedibilità dell’evento, recependo, senza citarlo, il c.d. principio di affidamento come maturato in ambito di circolazione stradale, ove, l’esclusione o la limitazione di responsabilità in ordine alle conseguenze alle altrui condotte prevedibili o, in altri termini, il poter contare sulla correttezza del comportamento di altri, riduce i suoi margini in ragione della diffusività del pericolo, che impone un corrispondente ampliamento della responsabilità in relazione alla prevedibilità del comportamento scorretto od irresponsabile di altri agenti.

Ed invero, “In tema di circolazione stradale, il principio dell’affidamento trova un temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità (Sez. 4, n. 5691 del 02/02/2016 – dep. 11/02/2016, Tettamanti, Rv. 26598101; Sez. 4, n. 27513 del 10/05/2017 – dep. 01/06/2017, Mulas, Rv. 26999701) tanto che “l’obbligo di moderare adeguatamente la velocità, in relazione alle caratteristiche del veicolo ed alle condizioni ambientali, va inteso nel senso che il conducente deve essere in grado di padroneggiare il veicolo in ogni situazione (Sez. 4, n. 25552 del 27/04/2017 – dep. 23/05/2017, Luciano, Rv. 27017601).

10. Ciò che va valutato, nella specifica situazione di fatto, è la ragionevole prevedibilità della condotta della vittima, ma anche la possibilità di porre in essere la manovra di emergenza necessaria ad evitare l’evento, per il caso del concretizzarsi del pericolo temuto, dovuto al comportamento imprudente o negligente altrui, così come alla violazione delle norme di circolazione da parte della vittima o di terzi.

D’altro canto, il comportamento richiesto al conducente, in questa ipotesi, era proprio quello descritto sia dal secondo comma dell’art. 141 C.d.S. secondo cui “Il conducente deve sempre conservare il controllo del proprio veicolo ed essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l’arresto tempestivo del veicolo entro i limiti del suo campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile” che dall’art. 145 C.d.S. che stabilisce l’obbligo dei conducenti, che si approssimino ad un’intersezione di “usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti”.

Entrambe le disposizioni, infatti, riproducono comportamenti, la cui violazione rileva sempre, anche in termini di colpa generica, inerendo alla diligenza ed alla prudenza nella guida di veicoli.

Ebbene, non può dubitarsi che fra gli ostacoli prevedibili vi sia un pedone che attraversa la strada in un punto privo di strisce pedonali , esponendosi ad una situazione di grave pericolo.

In una simile situazione, infatti, l’ostacolo non può dirsi improvviso, proprio per la vicinanza della stazione degli autobus e del traffico pedonale adesso connesso.

E’ chiaro, inoltre, ,che in una simile situazione, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, la velocità deve essere costantemente proporzionata allo spazio corrispondente al campo di visibilità al fine di consentire al conducente l’esecuzione utile della manovra di arresto, considerato il tempo psicotecnico di reazione, che deve essere tenuto in conto dal conducente, per l’ipotesi in cui si profili un ostacolo improvviso.

11. La sentenza, confermativa della decisione del giudice di primo grado, appare del tutto scevra da vizi logici e pienamente coerente con il quadro probatorio illustrato, il che implica il rigetto del ricorso e la conseguente condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 19/05/2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.