“Premio nascita” a tutte le mamme, anche straniere (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 14 maggio 2025, n. 12971).

LA  CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta  dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCIA ESPOSITO       – Presidente –

Dott. FABRIZIA GARRI        – Consigliere –

Dott. LUIGI CAVALLARO    – Consigliere –

Dott. FRANCESCO BUFFA  – Consigliere –

Dott. ANGELO CERULO     – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 33951-2018 proposto da:

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, per procura conferita in calce al ricorso, dagli avvocati (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), con domicilio eletto presso l’Avvocatura centrale dell’Istituto, in ROMA, VIA CESARE BECCARIA, 29

– ricorrente –

contro

A.P.N. AVVOCATI PER NIENTE ONLUS, FONDAZIONE (OMISSIS) (OMISSIS) PER I DIRITTI DELL’UOMO ONLUS, A.S.G.I. ASSOCIAZIONE STUDI GIURIDICI SULL’IMMIGRAZIONE, rappresentate e difese, in forza di procura conferita a margine del controricorso, dall’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), con domicilio eletto presso il suo indirizzo PEC

– controricorrenti –

per la cassazione della sentenza n. 617 del 20 18 della CORTE D’APPELLO DI MILANO, depositata il 15 maggio 2018 (R.G.N. 1593/2017).

Udita la relazione della causa, svolta all’udienza dal Consigliere dott. Angelo Cerulo.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del la Sostituto Procuratore Generale dr.ssa PAOLA FILIPPI, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Udito, per il ricorrente, l’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS), in sostituzione, per delega verbale, dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Udito, per il controricorrente, l’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), che ha ribadito le conclusioni del controricorso.

FATTI DI CAUSA

1.– Con sentenza n. 617 del 2018, depositata il 15 maggio 2018, la Corte d’appello di Milano ha respinto il gravame dell’INPS e ha confermato l’ordinanza emessa dal Tribunale della medesima sede, che aveva dichiarato il carattere discriminatorio della condotta dell’INPS e, in particolare, dell’introduzione di requisiti non previsti dalla legge, legati alla nazionalità,per l’erogazione del premio previsto dall’ art. 1, comma 353, della legge 11 dicembre 2016, n. 232.

1.1.– In via preliminare, riguardo alla discriminazione per nazionalità, la Corte territoriale ha riconosciuto la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti, sulla base di quanto già affermato da Cass., sez. lav., 8 maggio 2017, n. 11165 e n. 11166.

1.2.– A fondamento della decisione, la Corte di merito ha quindi evidenziato che le Circolari dell’INPS (n. 39, n. 61 e n. 78 del 2017), nel circoscrivere la platea dei beneficiari del premio ai titolari di specifici permessi di soggiorno, hanno introdotto criteri legati alla nazionalità, che, pur nella loro apparente neutralità, assumono un carattere discriminatorio nei confronti dei migranti presenti in Italia.

L’interpretazione restrittiva adottata dall’Istituto, nel condizionare il riconoscimento del premioal possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, requisito stabilito dalla legge per la diversa prestazione dell’assegno di natalità, deroga arbitrariamente alla normativa primaria e ingenera una differenza di trattamento non giustificata da alcuna ragionevole e oggettiva finalità.

2.– L’INPS ricorre per cassazione contro la sentenza d’appello, articolando due motivi d’impugnazione.

3.– Resistono con il medesimo controricorso A.P.N., Avvocati per niente Onlus, Fondazione (OMISSIS) (OMISSIS) per i diritti dell’uomo Onlus, A.S.G.I., Associazione Studi giuridici sull’immigrazione.

4.– Il ricorso è stato fissato all’udienza pubblica del 14 gennaio 2025.

5.– Il Pubblico Ministero, prima dell’udienza, ha depositato una memoria e ha chiesto di rigettare il ricorso.

6.– In prossimità dell’udienza, entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

7.– All’udienza, il Pubblico Ministero ha esposto le conclusioni motivate, già rassegnate nella memoria, e i difensori delle parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulatenei rispettivi atti.

RAGIONIDELLA DECISIONE

1.– Con il primo motivo (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), l’Istituto denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 43 e 44, comma 10, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, degli artt. 2, 3, 4 e 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, anche in relazione all’art. 81 cod. proc. civ.

Avrebbe errato la Corte territoriale nel ritenere l’associazione A.P.N. Avvocati per niente ONLUS, la Fondazione (OMISSIS) (OMISSIS) per i diritti dell’uomo ONLUS, A.S.G.I., Associazione studi giuridici sull’immigrazione, legittimate a promuovere un’azione di discriminazione collettiva in relazione ai requisiti soggettivi per l’erogazione del premio riconosciuto alla nascita o all’adozione di minore, fattispecie del tutto svincolata dalla materia del lavoro.

La nozione di discriminazione per nazionalità, definita dall’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, non potrebbe «assurgere a fondamento dell’esistenza generalizzata, sul piano processuale, del diritto ad esperire l’azione collettiva» (pagina 18 del ricorso per cassazione).

Quanto alle discriminazioni per ragioni di nazionalità, l’art. 44, comma 10, del d.lgs. n. 286 del 1998 consentirebbe l’azione collettiva con esclusivo riguardo allediscriminazioni concernenti il rapporto di lavoro e a diverse conclusioni non indurrebbe l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 215 del 2003: difatti, tale previsione, pur ampliando l’azione discriminatoria collettiva anche a contesti estranei al rapporto di lavoro, riguarderebbe le sole discriminazioni fondate su motivi razziali o etnici.

Né il sistema così delineato dal legislatore pregiudicherebbe la tutela che l’ordinamento appresta, con appositi rimedi, contro le discriminazioni per il fattore della nazionalità, comunque non comparabili a quelle per fattori etnici o razziali. Lo stesso diritto dell’Unione europea confermerebbe l’eccezionalità e la tipicità della legittimazione ad agire con l’azione collettiva.

1.1.– Si deve escludere, in linea preliminare, la sopravvenuta carenza d’interesse del ricorrente, nei termini che la memoria illustrativa della parte controricorrente adombra.

È ininfluente la circostanza che la discriminazione sia stata nel frattempo rimossa e che la disciplina sul premio sia stata abrogata per effetto dell’art. 10, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230.

Il ricorrente serba intatto l’interesse a ottenere un accertamento in ordine all’insussistenza della legittimazione degli enti esponenziali e all’infondatezza delle doglianze sulla connotazione discriminatoria della condottamedio tempore attuata.

1.2.– La censura, pertanto, dev’essere scrutinata nel merito e si rivela infondata.

Questa Corte ha già affermato, sulla scorta dell’interpretazione testuale e sistematica della disciplina vigente, che, nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità, gli artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 215 del 2003 el’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, attribuiscono la legittimazione ad agire alle associazioni e agli enti previsti dall’art. 5 d.lgs. n. 215 del 2003, enti fra i quali si annoverano anche le odierne parti controricorrenti (Cass., sez. lav., 8 maggio 2017, n. 11165).

L’esigenza costituzionalmente rilevante di garantire la tutela giurisdizionale contro le discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità avvalora la legittimazione ad agire dei soggetti collettivi individuati dalla legge.

Sarebbe irragionevole il mancato riconoscimento della legittimazione ad agire degli enti esponenziali nell’ipotesi di discriminazione collettiva legata alla nazionalità , laddove, per altri fattori di discriminazione, tale legittimazione è sancita dall’art. 5 del d.lgs. n. 215 del 2003.

1.3.– A tali princìpi, che anche il Pubblico Ministero richiama nelle conclusioni scritte, occorre dare continuità, in quanto superanoil vaglio critico che il ricorrentesollecita.

Questa Corte ha già puntualizzato, in replica alle notazioni formulate dall’Istituto, che la tesi propugnata nel ricorso:

a) da un punto di vista sistematico di settore, porterebbe a negare l’esistenza stessa e la rilevanza nell’ordinamento di discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità; ovvero l’esistenza di condotte offensive (o plurioffensive) nei confronti di una pluralità di soggetti accumunati dal fattore nazionalità e negherebbe l’esigenza di garantire, se non con azioni individuali, una protezione giudiziale di interessi condivisi da una pluralità di soggetti accomunati sotto il medesimo fattore della nazionalità;

b) esiste un preciso nesso interpretativo tra il d.lgs. n. 215 -6 – del 2003, artt. 2 e 4, e l’art. 43 T.U. immigrazione, che prevede la nozione di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

L’art. 43, commi 1 e 2 t.u. sull’immigrazione considera la nazionalità tra i fattori di discriminazione vietati in ogni campo della vita sociale, con una previsione che comprende atti di qualsiasi tipo, inclusivi anche di offese ad interessi di tipo collettivo ed anche le discriminazioni definite collettive (“ogni comportamento” di pubbliche amministrazioni o diprivati che abbia “lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”).

A queste discriminazioni collettive viene apprestata la tutela processuale dell’art. 44, comma 10, TU nell’ipotesi in cui vengano commesse dal datore di lavoro, prevedendosi allo scopo la legittimazione ad agire in capo alle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Non è pertanto l’art. 44, comma 10, che individua la nozione sostanziale di discriminazione collettiva (contenuta nell’art. 43, commi 1 e 2), limitandosi a fornire tutela per l’ipotesi ivi prevista;c) il d . l gs. n. 215 del 2003 (all’art. 2, comma 2) prevede che sia “fatto salvo il disposto dell’art. 43, commi 1 e 2” riferendosi a questa nozione generale di discriminazione di natura diretta o indiretta, individuale o collettiva, regolata come oggettiva; inoltre, il medesimo d.lgs. n. 215 del 2003, art. 4, comma 1, stabilisce che “la tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’art. 2 si svolge nelle forme previste dall’art. 44, commi da 1 a 6, 8 e 11 testo unico”per cui il rinvio è fatto alle stesse discriminazioni (individuali e collettive, dirette ed indirette) ivi previste con una previsione che riconnette logicamente lo strumento processuale alla nozione sostanziale;

d) nella materia della tutela contro le discriminazioni collettive, la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo non rappresenta un’eccezione ma una regola funzionale all’esigenza di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva (vd. l’azione prevista dal d.lgs. n. 215 del 2003, art. 5, per la repressione di comportamenti discriminatori per ragioni di razza o di origine etnica; quella di cui al d.lgs. n. 9 luglio 2003, n. 216, art. 4, recante l’attuazione della dir. 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; l’azione di cui all’art. 4 per la repressione di comportamenti discriminatori in danno di persone con disabilità, di cui alla legge1° marzo 2006, n. 6, recante misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni; l’azione per contrastare le discriminazioni per ragioni di sesso nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura, di cui al d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 55-quinquies, recante il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma della legge 28 novembre 2005, n. 246, art. 6);

e) costituirebbe perciò una vistosa eccezione il mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore nazionalità, non giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta, come si è visto, fattore discriminatorio parimenti vietato in ogni campo della vita sociale (lavorativa ed extralavorativa) ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione.

10. Anche la giurisprudenza della CGUE ha già sostenuto (Corte di Giustizia CE, Sez. 2, 10 luglio 2008 – C-54/07) la rilevanza della discriminazione collettiva, sia pure alla luce della Direttiva 2000/43 CE (che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica); riconoscendo, da una parte, che l’esistenza di una discriminazione diretta “non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione”(e pertanto riconoscendo che essa potesse essere fatta valere in giudizio alla luce del diritto nazionale da una associazione collettiva) ed affermando, dall’altra, che allo scopo sia sufficiente considerare la potenzialità lesiva della condotta denunciata.

10.1. L’ INPS oppone come argomento ostativo la previsione del d.lgs. n. 215 del 2003, art. 3, comma 2, laddove si prevede che “il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, néqualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti”.

Si tratta di una disposizione di carattere generale diretta a delimitare, sulla base della previsione della direttiva da cui deriva (art. 3, comma 2 Direttiva 2000/43/CE), il campo di applicazione dell’intervento normativo allo scopo di riservare allo Stato la regolazione sostanziale del trattamento dello straniero. Essa però, ad avviso del collegio, non interferisce in alcun modo con le regole processuali in materia di discriminazioni di cui qui si discorre, anche a fronte delle specifiche disposizioni presenti nel medesimo testo di legge.

Le “differenze di trattamento basate sulla nazionalità”, di cui si discute alla luce della disposizione in oggetto, presente nel d.lgs. n. 215 del 2003, non potrebbero comunque giustificare trattamenti illeciti ed oscurare le esigenze di protezione nascenti da discriminazioni collettive per nazionalità (già disciplinate dall’ordinamento), che lo stesso testo normativo riconosce anzi esplicitamente, ed alle quali intende volgere la tutela processuale ivi regolata.

11. In base all’art. 5 stesso d.lgs., le associazioni in discorso –alle quali si vorrebbe negare la legittimazione ad agire per discriminazioni collettive contrassegnate dal fattore della nazionalità sono quelle iscritte nell’elenco approvato con decreto ministeriale (previsto appunto dal d.lgs. n. 215 del 2003, art. 25) per le finalità programmatiche che le contraddistingue; le quali associazioni, in base al d.P.R. n. 349 del 1999, art. 52, devono essere qualificate dallo svolgimento di “attività a favore degli stranieri immigrati”e dallo “ svolgimento di attività per favorire l ’ integrazione sociale degli stranieri”(non quindi testualmente in relazione alla razza o etnia).

Sarebbe illogico e non coerente con il complessivo quadro sopra delineato ritenere che le indicate associazioni possano agire in giudizio solo per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità che serve a qualificarle […]; ciò porterebbe ad ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita ad enti che si occupano di un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall’ordinamento del tutto differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità straniera).

12. Dovendosi, ancora, preferire l’interpretazione che risulti conforme alla Costituzione ed al diritto comunitario, va rilevato che la tesi negativa suscita immediati dubbi di costituzionalità (ai sensi dell’art. 3 Cost., commi 1 e 2,e art.24 Cost.) sia ove si considerino le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte (senza ragionevole giustificazione) tra fattori di discriminazione che godono di eguale protezione nell’ordinamento (ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione, d.lgs. n. 215 del 2003, d.lgs. n. 216 del 2003 e d.lgs. n. 198 del 2006); sia in relazione al fatto che il medesimo fattore della nazionalità rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione collettiva fosse commessa o meno in ambito lavorativo.

Un ulteriore profilo di contrarietà alla Costituzione (art. 117 Cost.) emergerebbe in relazione alla CEDU, in quanto il diritto al giusto processo (previsto dall’art. 6) verrebbe diversamente garantito a seconda dei differenti fattori di discriminazione che risultano vietati nell’art. 14 (e nei quali vi è incluso quello relativo all’origine nazionale).

13. L ’ esclusione della legittimazione ad agire nella discriminazione collettiva fondata sulla nazionalità non appare conforme ai principi di equivalenza (che postula una tutela giuridica che tenga natura dell’interesse leso e degli scopi -10 – della tutela)ed effettività della tutela valevoli in ambito comunitario.

Sotto il medesimo profilo dell’effettività, viene pure in rilievo la Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013 (GU 26.7.2013) relativa a principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione, nella quale si afferma (6. considerando) che “prevenire e sanzionare le violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione è uno scopo essenziale nell’applicazione delle norme da parte dell’autorità pubbliche”.

Ad essa si accompagna la Comunicazione della Commissione dell’11.6.2013 nella quale si sostiene che “Il ricorso collettivo è infatti uno strumento processuale che può essere pertinente per le politiche dell’UE anche in settori diversi dalla concorrenza o dalla tutela dei consumatori.

Ne sono altrettanti esempi i servizi finanziari, la tutela dell’ambiente, la protezione dei dati o la lotta alla discriminazione”.

15. In relazione al principio comunitario di equivalenza occorre considerare che l’ordinamento giuridico interno di ciascuno stato membro, pur fissando le modalità procedurali della tutela dei diritti a fondamento comunitario, non può approntare sanzioni e rimedi (ivi compresi quelli processuali) dl livello ed efficacia inferiore rispetto a quelli approntati per la violazione di analoghi diritti garantiti dall’ordinamento nazionale.

La tesi sostenuta dall’INPS comporterebbe invece che il diritto dei lungo soggiornanti alla parità di trattamento nell’accesso a prestazioni sociali essenziali previsto dall’art. 11 della direttiva 2011/109 avrebbe una tutela processuale meno effettiva rispetto ad un diritto analogo previsto dal diritto interno (ad es. il diritto del disabile in ambito extralavorativo ex L. n. 67 del 2006).

16. I fattori di discriminazione in discorso anche quanto al trattamento processuale sono stati ritenuti equivalenti dal legislatore che ha apprestato appunto col d.lgs. n. 150 del 2011 un unico procedimento (art. 28) per le stesse discriminazioni (anche collettive) in cui si prevede la legittimazione dell’ente collettivo (art. 34)» (Cass., sez. lav., 7 novembre 2019, n. 28745).

1.4.– Anche da ultimo, questa Corte ha ribadito che «Il ragionamento svolto secondo il quale l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 215/2003 prevede che “il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità”non è risolutivo. Si tratta di una disposizione di carattere generale diretta a delimitare, sulla base della previsione della direttiva da cui deriva (art. 3, comma 2, Direttiva 2000/43/CE), il campo di applicazione dell’intervento normativo allo scopo di riservare allo Stato la regolazione sostanziale del trattamento dello straniero.

Essa però, ad avviso del collegio, non interferisce in alcun modo con le regole processuali in materia di discriminazioni di cui qui si discorre, anche a fronte delle specifiche disposizioni presenti nel medesimo testo di legge» (Cass., sez. lav., 1° aprile 2025, n. 8674).

1.5.– Il dato letterale, che il ricorso e la memoria illustrativa del ricorrente enfatizzano, non incrina gli argomenti sistematici che questa Corte, anche di recente, ha valorizzato a supporto della legittimazione a promuovere l’azione collettiva per le discriminazioni legate alla nazionalità.

2.– Con il secondo mezzo (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), il ricorrente prospetta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1, comma 353, della legge n. 232 del 2016, degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, dell’art. 2043 cod. civ., anche in relazione all’art. 12 delle preleggi, all’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, recepita con decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 40, e all’art. 3 del Regolamento (CE) n. 883 del 2004.

La sentenza impugnata meriterebbe censura anche per aver qualificato come discriminatoria la condotta dell’Istituto, senza considerare che le circolari n. 39 e n. 61 del 2017 si sarebbero limitate a dare attuazione alla normativa primaria, in coerenza con lo scopo d’incentivare la natalitàe di proteggere chi possa vantare un più saldo radicamento nel territorio della nazione, a prescindere da ogni requisito reddituale.

L’indistinto riconoscimento del premio a tutte le donne, gestanti o madri, che anche solo temporaneamente si trovino nel territorio nazionale vanificherebbe, per contro, l’obiettivo perseguito dal legislatore.

Né la prestazione in esame, finanziata con la fiscalità generale ed estranea al perimetro del regolamento (CE) n. 883 del 2004, si prefiggerebb e di soddisfare bisogni primari.

Ben potrebbe, dunque, il legislatore nazionale differenziare il trattamento dei cittadini dei Paesi terzi che non siano soggiornanti di lungo periodo, senza intaccare «il nucleo fondamentale dei diritti sociali» (pagina 42 del ricorso per cassazione).

Nessun comportamento colposo si potrebbe addebitare all’Istituto, che, a tutto voler concedere, sarebbe incorso in un errore scusabile, per «la novità della disciplina, l’oggettiva complessità ed opinabilità delle questioni» (pagina 43 del ricorso per cassazione).

2.1.– Anche questa doglianza non può essere accolta.

2.2.– L’art. 1, comma 353, della legge n. 232 del 2016 ha istituito, a decorrere dal primo gennaio 2017, un premio alla nascita o all’adozione del minoree ha disposto che tale provvidenza sia erogata dall’INPS in unica soluzione, su domanda della futura madre, al compimento del settimo mese di gravidanza o all’atto dell’adozione.

L’importo, pari ad Euro 800,00, non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’art. 8 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.

2.3.– Con la Circolare n. 39 del 27 febbraio 2017, l’INPS ha specificato che il premio è riconosciuto alle donne gestanti o alle madri che siano in possesso dei requisiti previsti per l’assegno di natalità (art. 1, comma 125, della legge23 dicembre 2014, n. 190): «residenza in Italia; cittadinanza italiana o comunitaria; le cittadine non comunitarie in possesso dello status di rifugiato politico e protezione sussidiaria sono equiparate alle cittadine italiane per effetto dell’art. 27 del Decreto Legislativo n. 251/2007; per le cittadine non comunitarie, possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’articolo 9 del Decreto Legislativo n. 286/1998 oppure di una delle carte di soggiorno per familiari di cittadini UE previste dagli artt. 10 e 17 del Decreto Legislativo n. 30/2007, come da indicazioni ministeriali relative all’estensione della disciplina prevista in materia di assegno di natalità alla misura in argomento (cfr. circolare INPS 214 del 2016)» (punto 1). Tali istruzioni sono state ribaditee integrate dalla Circolare n. 61 del 16 marzo 2017 (punto 1) e dalla Circolare n. 78 del 28 aprile 2017.

2.4.– Questa Corte ha disatteso l’interpretazione restrittiva avallata nella prassi e ha chiarito, a tale riguardo, che « Nessun requisito soggettivo ha dunque previsto il legislatoreche non sia quello di essere gestante, genitrice o adottante; e un’elementare applicazione del principio di gerarchia delle fonti del diritto, che non consente ad una fonte normativasecondaria di dettare norme che possano modificare o derogare il contenuto di una fonte normativa primaria, induce a ritenere che non poteva l’INPS legittimamente circoscrivernela portata con proprie circolari, nemmeno adducendo lasupposta analogia della provvidenza con l’assegno di natalitàprevisto dall’art. 1, comma 125, l. n. 190/2014: indipendentemente dalla circostanza che la disposizione ult. cit., nel testo richiamato dall’INPS e vigente prima dellemodifiche introdotte dall’art. 3, comma 4, l. n. 238/2021, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui escludeva dalla concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terziammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è comunque consentitolavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002 (cf. Corte cost. n. 54 del 2022), decisivo nella specie è rilevare che le circolari amministrative dell’INPS sono atti normativi interni, chepossono bensì tendere ad indirizzare ed a guidare in modo uniforme l’attività degli organi periferici dell’ente, ma nonpossono modificare le condizioni cui la legge ha imperativamente sottoposto il riconoscimento del diritto alla corresponsione di una provvidenza (così già Cass. n. 2568 del1963 e, più recentemente, Cass. n. 11094 del 2005)» (Cass., sez. lav., 22 aprile 2024, n. 10728).

2.5.– Coglie, dunque, nel segno la pronuncia d’appello, nel rimarcare che l’Istituto ha imposto «in sede amministrativa condizioni o requisiti che la legge non ha né previsto né disciplinato» e ha introdotto «modifiche a una norma di fonte primaria», così da restringere «la platea delle destinatarie del beneficio» (pagina 7).

2.5.1.– Non si può invocare la distinta disciplina dell’assegno di natalità, che ex professo contempla più rigorosi criteri selettivi e peraltro è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 54 del 2022 proprio con riferimento al requisito della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

2.5.2.– Neppure si può utilmente richiamare, come giustificazione del trattamento differenziato, la disciplina della direttiva 2011/98/UE, che garantisce, in determinati settori, la parità di trattamento dei «cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale,ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» e dei «cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale».

Come ha chiarito la Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 2 settembre 2021, causa C-350/20), il principio di parità di trattamento, enunciato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva con riferimento al settore della sicurezza sociale e alle prestazioni familiari, ha portata generale e le deroghe devono essere intese in senso restrittivo. Irrilevante è che la prestazione persegua anche la finalità d’incentivare le nascite.

Tali enunciazioni, concernenti quell’assegno di natalità che la stessa parte ricorrente addita come termine di raffronto, valgono a fortioriper il premio in esame, che il legislatore nazionale non assoggetta alle limitazioni censurate dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.

2.6.– Da tali premesse discende che il riconoscimento della provvidenza soltanto in favore di chi possieda il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo esclude «per ragioni di nazionalità e senza alcuna ragionevole motivazione una parte delle donne residenti inItalia per le quali ricorrono le condizioni previste dall’art. 1, comma 353, L. 232/2016» (pagina 8 della pronuncia impugnata).

2.7.– In virtù dei rilievi appena illustrati, n on possono essere condivisi gli argomenti che l’Istituto ha addotto per confutare il carattere discriminatorio delle limitazioni imposte in sede amministrativa (cfr., da ultimo, pagine 3, 4 e 5 della memoria illustrativa). Il diniego del premio agli stranieri extracomunitari sprovvisti del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo non promanada un’attività vincolata della Pubblica Amministrazione e non rinvienenella legge il suo fondamento.

L’interpretazione accreditata dalle Circolari dell’INPS si discosta dall’univoca previsione della fonte primaria e, nel conferire rilievo al permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, riserva, in ultima analisi, un trattamento deteriore agli stranieri. Il criterio distintivo della nazionalità, sotteso alle previsioni delle Circolari dell’Istituto,determina così, contra legem, un’ingiustificata disparità di trattamento.

Al caso di specie, dunque, non si attagliano le considerazioni espresse dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 15 del 2024 e richiamate dal ricorrente nella memoria illustrativa, con riferimento alle discriminazioni che traggono origine da una previsione normativa. In quest’ipotesi, che esula dal caso di specie, è la legge «a imporre, senza alternative, quella specifica condotta»ed è la legge stessa «alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere discriminatorie» (punto 7.3.2. del Considerato in diritto).

2.8.– Non soltanto il dato testuale inequivocabile della disciplina sul premiosmentisce la controvertibilità della questione ermeneutica, su cui il ricorso fa leva per suffragare la scusabilità dell’errore, ma si rivela comunque ininfluente, anche a voler assecondare la prospettazione coltivata dall’Istituto.

Questa Corte è costante nell’affermare che «deve […] prescindersi dalla rilevanza degli stati soggettivi dell’autore della condotta e ciò, come è evidente, anche per consentire una efficace azione giudiziaria controogni discriminazione, a prescindere dall’esistenza di una lesione attuale di un dirittoumano o di una libertà fondamentale, e per rendere possibile al giudice l’accertamento del comportamento produttivo di un fatto discriminatorio ancheprescindendo dall’ indagine sulla ricorrenza o meno dell’elemento soggettivo dellacondotta.

18. Occorre accertare la sussistenza del nesso causale fra l’atto e l’evento lesivo, senza necessariamente ricercare una dolosa volontà discriminatoria nella determinazione della condotta e nella conseguente disparità di trattamento» (Cass., sez. lav., 23 maggio 2019, n. 14073).

2.9.– Quel che rileva, dunque, in chiave oggettiva, è l’introduzione di un trattamento differenziato, che si riconnette in via esclusiva al fattore della nazionalità, non è sorretto da giustificazioni ragionevolie si pone in antitesi con il chiaro e insuperabile precetto della legge nazionale, prima ancora che con le indicazioni vincolanti del diritto dell’Unione europea.

3.– Le considerazioni esposte inducono a rigettare il ricorso.

4.– Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, alla stregua del valore della controversia e dell’attività processuale svolta, con distrazione a favore dell’avvocato Alberto Guariso, che ha reso la dichiarazione di cui all’art. 93 cod. proc. civ.

5.– L’integrale rigetto del ricorso, proposto dopo i l 30 gennaio 2013, impone di dare atto dei presupposti per il sorgere dell’obbligo del ricorrente di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la stessa impugnazione, ove sia dovuto (Cass., S.U., 20 febbraio 2020, n. 4315).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente a rifondere alle parti controricorrenti le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, in Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge, con distrazione a favore dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), procuratore antistatario.

Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, a noram del comma 1-bis dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quarta Sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, il giorno 14 gennaio 2025.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2025.

SENTENZA – copia non ufficiale -. 

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