REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente
Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere
Dott. AMIRANTE Vittoria – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 18956-2023 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) 269, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) 4, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2332/2023 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/06/2023 R.G.N. 786/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2025 dal Consigliere Dott.ssaVITTORIA AMIRANTE.
RILEVATO CHE
1. Con sentenza n. 255/2022, del 15 marzo 2022, il Tribunaledi Frosinone accoglieva parzialmente il ricorsoproposto da (OMISSIS) (OMISSIS) – con il quale questi, premesso di essere stato assunto dalla (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. il 31 gennaio 2019 a tempo determinato come dirigente, con la qualifica di “Direttore Operations”, con retribuzione annuale fissa di € 120.000,00 ed una retribuzione variabile compresa tra un minimo di € 10.000,00 ed un massimo di € 30.000,00 oltre a diversi benefit (tra cui varie coperture assicurative, personal computer, cellulare ed autovettura ad uso promiscuo) e una durata del rapporto di almeno 36 mesi, con la previsione di un indennizzo certo di € 150.000,00 in caso di mancata proroga del contratto per un ulteriore anno alla fine del triennio, impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli il 25 luglio 2019, a seguito di lettera di contestazione disciplinare del 19 luglio 2019 – e dichiarava illegittimo il licenziamento, condannando la (OMISSIS) (OMISSIS) al pagamento in suo favore dell’importo di € 366.405,00 pari alla retribuzione spettante fino alla naturale scadenza del contratto, con aggiunta del valore dei benefit correlati; respingevale ulteriori domande nonché l’eccezione di aliunde perceptum, sollevata da controparte.
2. Con sentenza n. 2332/2023 del 12 giugno 2023 la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello principale proposto dalla (OMISSIS) (OMISSIS), non avendo la società dimostrato la sussistenza di una giusta causa nel recesso, e in parziale accoglimento dell’appello incidentale del (OMISSIS) condannava la (OMISSIS) (OMISSIS) S.r.l. al pagamento in suo favore della ulteriore somma di € 150.000,00 oltre accessori di legge.
In particolare, la Corte d’appello, rilevato che non era stato fatto oggetto di specifica censura il capo della sentenza di primo grado in cui il Tribunale aveva ritenuto applicabile al rapporto di lavoro in oggetto, a tempo determinato “solo la disciplina riguardante il recesso per giusta causa a mente dell’art. 2119 c.c., così escludendo che ci si muovesse nell’ambito della mera giustificatezza”, confermava la sentenza di primo grado sia in punto di genericità degli addebiti che di inidoneità degli stessi a fondare una giusta causa di recesso, rigettando anche le censure svolte dalla Società relative agli importi oggetto di condanna.
Per quanto attiene l’appello incidentale proposto dal (OMISSIS), la Corte accoglieva la sola doglianza riguardante il rigetto della domanda volta ad ottenere l’indennizzo pari alla somma lorda di € 150.000,00 nel caso di mancata proroga del contratto.
3. Avverso la decisione di secondo grado propone ricorso per cassazione la (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. affidato a quattro motivi.
4. Replica con controricorso il (OMISSIS).
5. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo di ricorso la (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. deduce la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per omesso esame del IV motivo di appello,e censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto non oggetto di impugnazione il capo della sentenza di primo grado che limita il licenziamento del dirigente ai soli casi di giusta causa evidenziando che, al contrario, tale questione era stata oggetto del quarto motivo di appello sul quale la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi e del quale vengono riprodotti i seguenti stralci: pag. 33: “In sostanza, mentre per i quadri, gli impiegati e gli operai il licenziamento è legittimo in quanto sussista una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo o oggettivo, per i dirigenti è previsto, in linea teorica, un regime di libera recedibilità dal rapporto di lavoro.
Le ragioni che hanno indotto il legislatore a una tale scelta risiedono proprio nel fatto che il dirigente è un “alter ego” dell’imprenditore e nella specialità del relativo rapporto di lavoro, caratterizzato da un grado di fiducia intenso.
Di talché, in seno a questo spirito, la giurisprudenza ha elaborato il principio della giustificatezza del licenziamento del dirigente, cioè quel confine ideale diretto a contenere l’esercizio del potere di recesso datoriale ed evitare l’arbitrarietà delle scelte imprenditoriali”; pag. 34 “In buona sostanza, con la figura della “giustificatezza” la giurisprudenza ha inteso allargare le maglie del licenziamento a quei fatti o condotte che di per sé non integrerebbero una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato, ma che divengono rilevanti per la figura del dirigente in considerazione della peculiare posizione che lo stesso riveste in azienda, quale “alter ego” del datore di lavoro, nonché dei maggiori poteri che gli vengono riconosciuti, tale per cui la maggiore intensità della fiducia, si traduce, secondo la giurisprudenza, nell’estensione dei fatti idonei a scuoterla”.
2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e, ex art. 360 n. 5, c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per aver fondato la decisione sulla base di un concetto di giusta causa profondamente diverso da quello adottato dall’art. 2119 cod. civ., che non consente di ritenere che sia esclusa l’ipotesi – descritta dalla sentenza impugnata – del dirigente che, pur «assolvendo ai suoi obblighi contrattuali [di “lavoro quotidiano”], renda una “prestazione lavorativa inutile”»; né tanto meno consente al giudice di merito di sottrarsi all’esame della rilevanza, in quello specifico rapporto, della asserita “inutilità della prestazione lavorativa” e per aver del tutto omesso di esaminare, nello svolgere tale necessario esame, la comunicazione del 27 giugno, nonostante risultasse, dalla lettera di contestazione trascritta nell’impugnata sentenza, che la ragione del venir meno della fiducia fosse proprio da rinvenire nel “non aver dato alcun seguito alla comunicazione del 27 giugno”.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, ex art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 1366 e 1371 c.c. in relazione al principio sinallagmatico del contratto.
Censura l’impugnata sentenza nella parte in cui – in riforma di quella di primo grado – ha riconosciuto al (OMISSIS), oltre l’importo corrispondente a tutte le residue retribuzioni mensili fino al triennio di durata del contratto, anche la somma di € 150.000,00 prevista dal contratto “in caso di mancata proroga agli stessi patti e condizioni al termine del triennio” trascurando completamente di considerare che la mancata proroga allo scadere del triennio riguardava un contratto che intercorreva tra due soggetti – la società e il (OMISSIS) – il secondo dei quali non aveva reso la prestazione richiestagli e che tuttavia –secondo la tesi della Corte romana –non doveva essere licenziato solo perché il suo inadempimento rendeva munito di “mera giustificatezza” (e non di giusta causa) il suo licenziamento.
4. Con il quarto motivo la (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. deduce, ex art. 360 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di aliunde perceptum impedendo alla società di fornire la prova della verità delle circostanze allegate a fondamento dell’eccezione, non ammettendo la prova testi né utilizzando i poteri istruttori officiosi di cui dispone il giudice del lavoro ex art. 421 c.p.c. ovvero con ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c.
Lamenta che a fronte delle dettagliate circostanze, documentate dall’allegata relazione investigativa – dalla quale emergeva la quotidiana presenza, per quattro settimane consecutive, dalle 8 alle 19, del (OMISSIS) presso la (OMISSIS) (OMISSIS) – il rigetto della richiesta prova per testi in persona del “legale rappresentante p.t. della (OMISSIS) (OMISSIS) s.p.a.” si era risolto in un vero e proprio diniego del diritto di fornire la prova della verità delle circostanze allegate a fondamento dell’eccezione.
5. Il primo motivo di ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
5.1. Pur prescindendo da profili di inammissibilità per difetto di specificità – essendosi la ricorrente limitata a riprodurre stralci del motivo di appello senza alcuna indicazione della motivazione addotta dal Tribunale a fondamento della propria decisione – deve rilevarsi che il quarto motivo d’appello, esaminabile direttamente da questa Corte per il tipo di vizio dedotto, era volto ad evidenziare che, contrariamente a quanto affermato in primo grado, sussistevano mancanze ed inadempimenti del (OMISSIS) tali da dimostrare la proporzionalità, da un punto di vista oggettivo e soggettivo, del recesso intimato rispetto ai fatti contestati.
La parte dell’atto di appello testualmente trascritta a pag. 13-14 del ricorso non esibisce invero un contenuto oggettivo sostanzialmente diverso da quello sul quale la Corte d’appello ha condotto la propria disamina e si è ampiamente pronunciata concludendo nel senso che gli addebiti mossi al (OMISSIS), inficiati da “profonda genericità”, non fossero in alcun modo idonei a fondare una giusta causa di recesso, pur tenendo conto delle peculiarità del rapporto dirigenziale (vedi pag. 11 in fine) “caratterizzato da una maggiore enfasi riferita all’elemento fiduciario rispetto ad un ordinario rapporto di lavoro”.
La (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. al motivo n. 4 dell’atto di appello non ha, inoltre, specificamente contestato l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, secondo la quale, trattandosi di contratto di lavoro a tempo determinato, “con inizio dell’attività lavorativa in data 11.3.2019 e durata di n. 36 mesi (…) il recesso anticipato, prima della scadenza del termine, è ammesso in due ipotesi: al verificarsi di una giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. ovvero in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463 e 1256 c.c.)”, essendosi limitata ad affermare, in linea generale e non, dunque, in relazione all’ipotesi di contratto a tempo determinato, la sussistenza per il dirigente di un regime di libera recedibilità dal rapporto di lavoro caratterizzato dal “principio della giustificatezza del licenziamento del dirigente”.
In altri termini l’odierna ricorrente, nell’atto di appello, non si è in alcun modo confrontata con la ratio decidendi del giudice di primo grado secondo il quale, essendo il rapporto di lavoro dirigenziale, in concreto instaurato, a tempo determinato, la giusta causa era la sola ragione giustificativa, legittima, della risoluzione anticipata del contratto a termine e che, dunque, non era sufficiente la “giustificatezza” del recesso essendo, invece, necessaria la ricorrenza di un quid pluris di lesione del rapporto fiduciario.
Come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, infatti, la ricorrente si è “limitata per un verso a sostenere la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, qualificando come “gravissime” le mancanze ascritte al (OMISSIS) nella lettera di contestazione del 19 luglio 2019; per un altro verso, si è incongruamente diffusa in estese argomentazioni riguardanti l’elaborazione giurisprudenziale in tema di giustificatezza del recesso”.
6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per molteplici ragioni.
In primo luogo, ci si trova di fronte ad un motivo c.d. “misto” -deducendosi sia l’omesso esame di fatto decisivo sia la violazione o falsa applicazione di legge – con conseguente applicazione del principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, e ciò in quanto una simile formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874/2018; Cass. n. 7009/2017; Cass. n. 21611/2013; Cass. n. 19443/2011).
6.1. In secondo luogo, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 985/2017; Cass.n. 5095/2011; Cass. n. 9266/2005).
Nella specie la Corte territoriale ha evidenziato che dall’istruttoria svolta era emerso che il (OMISSIS) “ha lavorato quotidianamente indicendo riunioni, impartendo direttive al personale, formulando progetti e proposte di sviluppo, che però non hanno trovato la condivisione della proprietà” ed ha ritenuto che “la soggettiva valutazione in termini di inutilità della prestazione lavorativa o di scarso rendimento non integra una giusta causa di recesso” e ciò anche alla luce del rilievo che la circostanza allegata dalla società che il dirigente “era stato assunto per una finalità specifica da svolgersi in un arco temporale definito di tre anni” risultava“ in insanabile contrasto con la immediata risoluzione del rapporto disposta, atteso che nel breve arco di quattro mesi – dei quali solo tre realmente lavorati, stante la fruizione del congedo matrimoniale – non è configurabile, in assenza di fatti eclatanti di reale inoperosità, di insubordinazione o altre circostanze mai allegate, l’integrazione dei presupposti per l’impossibilità di prosecuzione del rapporto”.
La Corte, inoltre, valuta tali circostanze anche sotto il profilo delle peculiarità del rapporto di lavoro dirigenziale “caratterizzato da una maggiore enfasi riferita all’elemento fiduciario rispetto ad un ordinario rapporto di lavoro, cionondimeno la ricorrenza di una giusta causa richiede comunque il compimento di una condotta che costituisca una grave negazione degli obblighi contrattuali, e non già come nel caso di specie una sorta di inadeguatezza dell’azione del dirigente che avrebbe potuto al più consentire il ricorso ad un licenziamento per mera “giustificatezza”.
6.2. Si tratta di un percorso argomentativo corretto nel metodo, il cui esito, non sconfinando in un risultato irragionevole, per i principi innanzi richiamati, si sottrae al sindacato di legittimità, soprattutto tenendo conto che la ricorrente si limita ad affermare in maniera assolutamente generica che la sentenza impugnata si fonderebbe “su un concetto di “giusta causa” profondamente diverso da quello adottato dall’art. 2119 cod. civ.” senza identificare quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito.
6.3. Quanto alla doglianza ex art. 360, n. 5) c.p.c. essa è ulteriormente inammissibile per il limite di deducibilità del vizio in presenza di c.d. doppia conforme (art. 360, quarto comma, c.p.c., per essere la presente impugnazione notificata successivamente al 1° gennaio 2023; in precedenza la disciplina era dettata dall’art. 348 ter, comma quinto, c.p.c.).) in relazione alla quale parte ricorrente avrebbe dovuto, confrontando le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione di primo grado con quelle poste a base della sentenza di rigetto del gravame, dimostrarne la diversità(tra le altre: Cass. n. 5947/2023; Cass. n. 26934/2023), il che nel caso di specie non risulta avvenuto.
In ogni caso, quand’anche il vizio fosse stato deducibile, se ne sarebbe dovuta egualmente dichiarare l’inammissibilità posto che l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deve intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. n. 22397/2019; Cass. n. 26305/2018; Cass. n. 14802/2017), mentre ciò di cui la ricorrente lamenta l’omesso esame è un documento e non un fatto, da ciò emergendo che il motivo nel concreto mira a sindacare il merito della motivazione della Corte d’appello.
7. Il terzo motivo di ricorso è, del pari, inammissibile.
Occorre, infatti ribadire il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, e dal quale non vi è ragione di discostarsi, quello secondo cui:
a) l’interpretazione del contratto e, in genere, degli atti di autonomia privata, costituisce attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione;
b) il motivo di ricorso con il quale si sostenga il malgoverno delle regole interpretative deve contenere non solo l’astratto riferimento agli articoli del codice che le sanciscono, ma altresì la specificazione dei canoni in concreto violati;
c) va altresì in ogni caso precisato il modo in cui il giudice se ne è discostato e, quindi, le distorsioni che in concreto ha prodotto la denunciata violazione (cfr. Cass. n. 13603/2019; Cass. n. 20964/2017; Cass. n. 1406/2007; Cass. n. 18375/2006; Cass. n. 24461/2005).
7.1. Nel caso di specie, la ricorrente si limita ad evocare la violazione degli artt. 1366 e 1371 c.c. “in relazione al principio sinallagmatico del contratto” senza fornire alcuna critica specifica alla interpretazione della clausola contrattuale – che prevedeva testualmente che “ in caso di mancata proroga agli stessi patti e condizioni al termine del triennio, la Società si obbliga a corrispondere al Dirigente, a titolo di indennizzo, la somma lorda di Euro 150.000 (centocinquantamila/00 euro) in unica soluzione entro 30 gg. dalla risoluzione del rapporto. Nulla sarà dovuto al Dirigente qualora lo stesso non accetti la proroga così come offerta dalla Società” – fornita dalla Corte d’appello secondo la quale “l’obbligo per la società di corrispondere la somma di € 150.000,00 a titolo di indennizzo sarebbe conseguita al semplice caso di mancata proroga allo scadere del termine triennale del contratto, non potuto raggiungere per via dell’illegittima risoluzione disposta dalla stessa società ”.
La ricorrente non individua, infatti, l’errore commesso dal Giudice, così incorrendo nella inammissibilità del motivo per difetto di specificità ex art. 366 co. 1 n. 4 c.p.c.
8. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è censurabile con ricorso per cassazione per violazione del diritto alla prova, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. allorquando il giudice di meritorilevi preclusioni o decadenze insussistenti ovvero affermi l’inammissibilità del mezzo di prova per motivi che prescindano da una valutazione della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite, nonché per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso che non illustri la decisività del mezzo di prova di cui si lamenta la mancata ammissione (cfr. Cass. n. 30810/2023, Rv. 669452-01).
Nel caso di specie la società si è limitata a contestare la correttezza della statuizione della Corte d’appello, peraltro svolta ad abundantiam, di inammissibilità della prova testi per “genericità dell’indicazione (del teste) del legale rappresentante della (OMISSIS) (OMISSIS)”, senza né censurare l’affermazione di inidoneità della prova stessa in relazione alla dimostrazione dell’aliunde perceptum svolta dalla Corte, né riportare in sede di ricorso quali fossero i capitoli di prova sui quali il legale rappresentante della (OMISSIS) (OMISSIS) avrebbe dovuto rendere testimonianza.
9. Il ricorso, in conclusione, va rigettato.
10. La ricorrente va condannata alla rifusione delle spese processuali in favore del controricorrente liquidate come da dispositivo.
11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. al pagamento, in favore del controricorrente (OMISSIS) (OMISSIS) delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 8.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012 n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Quarta civile della Corte di Cassazione, voltasi il 27 febbraio 2025.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2025.