Blogger: scatta la responsabilità civile per commenti diffamatori pubblicati da terzi (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 27 giugno 2025, n. 17360).

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

composta dai signori magistrati:

dott. Antonietta SCRIMA                               Presidente

dott. Enzo VINCENTI                                      Consigliere

dott. Marco DELL’UTRI                                  Consigliere

dott. Augusto TATANGELO                           Consigliere relatore

dott. Paolo SPAZIANI                                     Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 5764 del ruolo generale dell’anno 2024, proposto

(OMISSIS) (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS) ) rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS);

-ricorrente-

nei confronti di

(OMISSIS) (OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS))

-intimato-

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 2520/2023, pubblicata in data 14 dicembre 2023;

udita la relazione sulla causa svolta alla camera di consiglio del 24 aprile 2025 dal consigliere dott. Augusto Tatangelo.

Fatti di causa

(OMISSIS) (OMISSIS) ha agito in giudizio nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS) per ottenere il risarcimento dei danni che assume avere subito in conseguenza di commenti ingiuriosi pubblicati da alcuni utenti sul “blog” telematico tenuto dal convenuto e non tempestivamente rimossi.

La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Siena.

La Corte d’appello di Firenze, dichiarata cessata la materia del contendere in ordine alla richiesta dell’attore di rimozione dei commenti diffamatori pubblicati, ha confermato per il resto la decisione di primo grado.

Ricorre il (OMISSIS), sulla base di tre motivi.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimato.

È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis .1 c.p.c. .

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza decisoria nei sessanta giorni dalla data della camera di consiglio.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia «Della responsabilità per la pubblicazione dei contenuti.

Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 co. 1 n. 3.

Violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 C.C.».

Con il secondo motivo si denunzia «Della responsabilità per la pubblicazione.

Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 co. 1 n. 3.

Violazione o falsa applicazione degli artt. 16 e 17 D.Lgs. n. 70/2003 che ha recepito la direttiva 2000/31/CE.

Violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 C.C.».

I primi due motivi del ricorso, che hanno ad oggetto la pretesa responsabilità dell’(OMISSIS) per l’avvenuta pubblicazione di alcuni commenti diffamatorinei confronti del (OMISSIS), da parte di terzi, in calce ad un articolo del suo blog, sono logicamente e giuridicamente connessi e, pertanto, possono essere esaminati congiuntamente. Essi sono infondati.

1.1 Il ricorrente deduce che la Corte d’appello sarebbe incorsa in una «violazione dell’art. 2697 C.C. laddove pone a carico dell’attore/appellante l’onere di dimostrare che il Blog era dotato di “filtri” o, ancora più, di dimostrare che la pubblicazione dei commenti fosse stata frutto di una scelta fatta consapevolmente, dopo averli esaminati nel dettaglio, ed averne colto e/o finanche condiviso i toni».

A suo avviso, « tale onere probatorio sarebbe stato impossibile da soddisfare…» e « … sarebbe spettato al convenuto dimostrare che la pubblicazione dei post avvenisse “in automatico” e che la struttura organizzativa del blog – contrariamente a quanto era emerso documentalmente – non prevedesse alcun controllo, o filtro».

Sostiene, inoltre, che «la Corte di Appello stabilisce un onere probatorio impossibile secondo il quale sarebbe stato onere dimostrare che il blogger era effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione era illecita, sebbene risultasse documentalmente che il blog “L’(OMISSIS) di (OMISSIS)”, non era aperto ai commenti dei lettori, in quanto la pubblicazione dei commenti avveniva solo ed esclusivamente su scelta, ad opera e per volontà del blogger (OMISSIS) (OMISSIS)».

A suo avviso, infatti, era stato adeguatamente allegato e provato che l’(OMISSIS) svolgeva una «attività di c.d. “moderazione”» … …«prodromica alla materiale pubblicazione degli interventi» e, di conseguenza, «i commenti offensivi in danno del (OMISSIS) non fossero stati “moderati” per una chiara scelta dell’(OMISSIS)».

1.2  Va , in primo luogo, esclusa la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c..

La Corte d’appello ha accertato, in fatto, sulla base della valutazione delle prove, che il ruolo dell’(OMISSIS), quale blogger, non era quello di un “hosting provider attivo” nella selezione e nel controllo dei messaggi di commento dei terzi agli articoli da lui pubblicati sul suo blog.

È da ritenere corretta l’attribuzione dell’onere di provare il ruolo di “hosting provider attivo” del prestatore di servizi nell’ambito della società dell’informazione all’attore che si assumadanneggiato dalla condottadi questi, con riguardo all’attività di “filtro” e selezione nella memorizzazione delle informazioni fornite dai terzi destinatari del servizio e, quindi, nella specie, per la pubblicazione dei commenti dei terzi in calce all’articolo del blog.

In tale ambito, la regola generale è, infatti, quella dettata dall’art. 17 del decreto legislativo n. 70 del 2003, per cui il soggetto prestatore di servizi (nella specie: host ing provider) che ospita commenti di terzi nell’ambito dello spazio che gestisce (che, cioè, trasmette e memorizza informazioni dei destinatari del servizio da lui prestato nell’ambito della società dell’informazione) non è tenuto a selezionarli e a controllarne il contenuto e, quindi, di regola non risponde della loro pubblicazione (questa la formulazione letterale della disposizione:

«1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite») e, almeno finché non abbia sicura conoscenza del manifesto contenuto illecito di essi, neanche è responsabile della loro omessa rimozione (cfr., in proposito, l’art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003, sul quale, peraltro, più diffusamente si tornerà, in riferimento al terzo motivo del ricorso).

Né sussiste alcun obbligo, per l’hosting provider, di effettuare una siffatta attività di controllo e di filtro, ben potendo egli limitarsi alla semplice automatica memorizzazione delle informazioni fornite dai terzi, senza verificarnee selezionarne sistematicamente il contenuto.

Esclusivamente laddove l’attività svolta dall’hosting provider, per spontanea iniziativa di quest’ultimo in ordine all’assetto attribuito alla natura ed all’organizzazione del servizio prestato, assuma tale carattere, allora egli, proprio perché in tal caso svolge un ruolo attivo nella selezione e nella memorizzazione delle informazioni diffuse, si assume la responsabilità del relativo contenuto e non potrà godere delle limitazioni di responsabilità di cui agli artt. 14, 15, 16 e 17 del decreto legislativo n. 70 del 2003, riservate al providerche si limiti ad un ruolo meramente passivo (cfr., in tal senso, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7708 del 19/03/2019, Rv. 653569 –02: «l’”hosting provider” attivo è il prestatore dei servizi della società dell’informazione il quale svolge un’attività che esula da un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e pone in essere una condotta attiva, concorrendo con altri nella commissione dell’illecito, onde resta sottratto al regime generale di esenzione di cui all’art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003, dovendo la sua responsabilità civile atteggiarsi secondo le regole comuni»).

Tanto premesso, nella specie spetta va senz’altro, quindi, ai sensi dell’art. 2697 c.c., all’attore danneggiato dimostrare che il blogger (OMISSIS) fornisse un servizio che prevedeva l’effettuazione di una attività di filtro, valutazione e selezione attiva, in relazione ai commenti dei terzi, trattandosi, evidentemente, di un fatto costitutivo della dedotta responsabilità dello stesso.

1.3 Non vi è dubbio, d’altra parte, che anche l’eventuale effettiva conoscenza del carattere illecito dei commenti pubblicati dai terzi destinatari del servizio del blogger, da parte di quest’ultimo, trattandosi, anche in tal caso, di un fatto costitutivo della sua dedotta responsabilità per la loro pubblicazione, avrebbe dovuto essere provata dall’attore danneggiato, atteso che, come già chiarito, di regola tale responsabilità non sussiste, ai sensi degli artt. 16 e 17 del decreto legislativo n. 70 del 2003, fatto salvo il caso in cui il prestatore sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione.

In particolare, l’art. 16 del decreto richiamato, nel prevedere la responsabilità dell’hosting provider nell’attività di memorizzazione di informazionidispone che lo stesso «non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio», a condizione che «non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita»: come è stato evidenziato (anche in dottrina), nell’analisi della fattispecie, la disposizione, per quanto letteralmente formulata in base ad una doppia negazione, è certamente attributiva di una responsabilità al ricorrere delle circostanze individuate dal precetto normativo, onde il fatto costitutivo della responsabilità del prestatore è certamente la sua conoscenza del carattere (manifestamente) illecito dell’informazione memorizzata, conoscenza che, di conseguenza, è onere dell’attore che si assume danneggiato allegare e dimostrare in giudizio, ai sensi dell’art. 2697 c.c..

1.4 Infine, avendo la Corte d’appello accertato, in fatto, che non vi era un ruolo attivo di filtro dei commenti da parte del blogger e che questi non aveva avuto (e non avrebbe potuto avere), al momento della loro pubblicazione, una effettiva conoscenza del carattere illecito degli specifici commenti di cui l’attore si duole, le censure – con le quali si afferma il contrario – si risolvono nella contestazione di accertamenti di fatto sostenuti da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non sindacabile nella presente sede.

2. Con il terzo motivo si denunzia «Della omessa rimozione dei contenuti.

Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 co. 1 n. 3.

Violazione o falsa applicazione degli artt. 16 e 17 D. Lgs. n. 70/2003 che ha recepito la direttiva 2000/31/CE».

Secondo il ricorrente «in palese contraddizione con la disposizione normativa ex art. 16 D.Lgs. 70/2003 la Corte di Appello afferma che l’obbligo di rimozione non derivi tanto dalla conoscenza dell’illiceità dei commenti, ma derivi esclusivamente dalla comunicazione delle autorità competenti».

Il motivo di ricorso in esame ha ad oggetto la questione dell’omessa rimozione dei commenti diffamatori, anche dopo l’assunta conoscenza del loro carattere illecito da parte del blogger (OMISSIS).

Esso è fondato.

2.1 La Corte d’appello ha affermato che l’obbligo di rimozione dei commenti illeciti (nella specie, diffamatori), per il prestatore di servizi (nella specie: hosting provider ), ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003, sussisterebbe solo a seguito di una comunicazione da parte delle autorità competenti in ordine al carattere illecito dei medesimi, cioè in base ad una “conoscenza qualificata” di tale illiceità, e non potrebbe farsi derivare da una mera conoscenza di fatto di essa, acquisi ta in altro modo (in particolare, l’obbligo di rimozione non potrebbe mai conseguire alla conoscenza del carattere illecito del com- mentoacquisita in base alla segnalazione della parte lesa, specie se, come nella specie, la segnalazione stessa non contenga una espressa richiesta di rimozione).

Tale affermazione viene effettuata dalla Corte d’appello in consapevole contrasto con quanto, invece, affermato dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale in casi analoghi (cfr. Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 12546 dell’8/11/2018 Ud. – dep. 20/03/2019, Rv. 275995 – 01, secondo cui «in tema di diffamazione, il “blogger” risponde del delitto nella forma aggravata, ai sensi del comma 3 dell’art. 595 c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, per gli scritti di carattere denigratorio pubblicati sul proprio sito da terzi quando, venutone a conoscenza, non provveda tempestivamente alla loro rimozione, atteso che tale condotta equivale alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione e consente l’ulteriore diffusione dei commenti diffamatori – fattispecie in cui l’imputato aveva consapevolmente mantenuto nel suo “blog” contenuti offensivi, propri e di terzi, a commento di una lettera della persona offesa dal medesimo pubblicata, fino all’oscuramento intimato dall’autorità giudiziaria ed eseguito dal “provider”)».

Secondo la Corte d’appello, nonostante la direttiva europea di cui il decreto legislativo n. 70 del 2003 costituisce recepimento («Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno -«Direttiva sul commercio elettronico») prevedesse effettivamente una responsabilità del prestatore di servizi per l’omessa rimozione delle informazioni memorizzate di carattere illecito, in base alla mera conoscenza, comunque acquisita, del carattere illecito di esse, la norma interna di recepimento (art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003) avrebbe un contenuto più limitato, richiedendo che tale conoscenza derivi da una “comunicazione delle autorità competenti” (cd. “conoscenza qualificata”).

Il principio di diritto espresso nella decisione della Corte di Cassazione, in sede penale, nel 2019 non sarebbe, pertanto, condivisibile, ad avviso della Corte territoriale.

2.2 Va precisato che le affermazioni di diritto contenute nella decisione impugnata risultano in contrasto non solo con la giurisprudenza penale, maanche con quanto affermato nella giurisprudenza civile di questa Corte (cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7708 del 19/03/2019, Rv. 653569 –02, in una fattispecie in tema di violazione del diritto d’autore: «nell’ambito dei servizi della società dell’informazione, la responsabilità dello “hosting provider”, prevista dall’art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003, sussiste in capo al prestatore dei servizi che non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

a) sia a conoscenza legale dell’illecito per- petrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure “aliunde”;

b) sia ragionevolmente constatabile l’illiceità dell’altrui condotta, onde lo ”hosting provider” sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico;

c) abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere»; nella motivazione di tale decisione si afferma espressamente che «non può condividersi la tesi secondo cui l’obbligo di atti- vazione non sussisterebbe, pur in presenza dell’inequivoco disvelamento dell’illecito altrui, sino a quando non sia stata una pubblica autorità, amministrativa o giurisdizionale, ad ordinare con un proprio provvedimento tale comportamento o almeno a notiziare di esso il prestatore intermediario») e, in particolare, nella giurisprudenza di questa stessa Sezione (cfr. Cass.,Sez. 3, Ordinanza n. 24818 del 18/08/2023, Rv. 668654 – 01, la quale, in dichiarata adesione ai principi enunciati da Cass. pen. n. 12546 del 2019, afferma che «in tema di scritti diffamatori pubblicati su un “blog”, il “blogger” è responsabile per gli scritti di carattere denigratorio pubblicati sul proprio sito da terzi quando, venutone a conoscenza, non provveda tempestivamente alla loro rimozione, atteso che tale condotta equivale alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione e consente l’ulteriore diffusione dei commenti diffamatori – la S.C. ha applicato detti principi con riferimento a frasi diffamatorie pubblicate, da un soggetto terzo, sul “blog” del ricorrente nel dicembre del 2006, conosciute dal danneggiato nel 2011 e rimosse dal titolare del detto “blog” solo nel novembre del 2012)»).

A tali principi va dato seguito, a giudizio del Collegio.

2.3 L’art. 16 del decreto legislativo 9 aprile 2003 n. 70 prevede quanto segue:

«1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;

b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso».

Secondo l’interpretazione fatta propria dalla Corte d’appello, la lettera a) della disposizione avrebbe ad oggetto l’attività di originaria “pubblicazione” dell’informazione illecita e la lettera b) quella di successiva “rimozione” di essa.

Tale interpretazione troverebbe conferma nel rilievo che il decreto legislativo n. 70 del 2003 riproduce quasi integralmente il testo della Direttiva 2000/31/CE (di cui costituisce recepimento nel diritto interno), ma, nella fattispecie di cui alla lettera b), vi aggiunge l’inciso «su comunicazione delle autorità competenti», inciso che nella Direttiva non compare (il testo dell’art. 14 della direttiva è il seguente: « Articolo 14 “Hosting” -1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuoverele informazioni o per disa- bilitarne l’accesso. … … 3. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, per un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa, in conformità agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, di esigere che il prestatore ponga fine ad una violazione o la impedisca nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime»).

La Corte d’appello, inoltre, fonda le sue conclusioni sulla considerazione della natura istantanea dell’illecito penale, che non consentirebbe di affermare la sussistenza di una responsabilità di un soggetto diverso da quello che lo commette, in virtù di fatti successivi al perfezionamento della relativa fattispecie.

2.4 Orbene, va osservato, in primo luogo, che le considerazioni della Corte territoriale fondate sulla natura istantanea dell’illecito penale non tengono adeguatamente conto del fatto che l’art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003, alla lettera a), prevede un particolare regime della responsabilità (risarcitoria, quindi meramente civile) del prestatore di servizi per le informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, della cui illiceità abbia consapevolezza, con riguardo alle “azioni risarcitorie”: si tratta, quindi, di una fattispecie di imputazione della responsabilità civile che parrebbe prescindere dal concorso nella responsabilità penale del terzo.

2.5 Va, in ogni caso, considerato (come del resto correttamente viene chiarito nella motivazione della pronuncia di questa Corte n. 7709 del 2019, già richiamata) che la stessa lettera a) della disposizione di diritto interno (art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003) esclude la responsabilità risarcitoria per le «informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio», ma solo laddove il prestatore del servizio «non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione».

Tenuto conto che la regola generale è quella per cui l’internet provider (il prestatore di servizi) non è tenuto ad effettuare un controllo preventivo sulla liceità delle informazioni e sulle attivitàsvolte dai terzi destinatari del servizioe che la sua responsabilità (risarcitoria) è correlata genericamente alla memorizzazione delle informazioni rese daisuddetti terzi (non al concorso nel reato istantaneo di diffamazione commesso dagli stessi), risulta più che ragionevole la conclusione per cuitale previsione sia destinata ad operare anche nell’ipotesi in cui i fatti o le circostanze«che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione» divengano noti al prestatore del servizio solo dopo l’avvenuta memorizzazione dell’informazione resa dal terzo.

E, in tal caso, non potendo essere più impedita la pubblicazione, non resta al prestatore che operarne la rimozione, anche a prescindere dalla comunicazione delle autorità, per evitare la propria responsabilità (quanto meno sul piano risarcitorio).

Dunque, l’obbligo di rimozione delle informazioni illecite memorizzate sorge per l’hosting provider nel momento stesso in cui egli, in qualunque modo, acquisisca la conoscenza di fatti o circostanze che rendano tale illiceità manifesta; in quest’ottica, la «comunicazione delle autorità competenti» rappresenta solo una fonte qualificatadi acquisizione della predetta conoscenza (che, verosimilmente, semplifica anche la valutazione per il prestatore del carattere manifesto dell’illiceità dell’informazione e l’eventuale giudizio sulla sua effettiva consapevolezza della stessa).

2.6 L’indicata interpretazione, oltre ad essere fondata sul tenore letterale dell’art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003, d’altra parte, è la più coerente con la sua stessa ratio, di recepimento della previsione della Direttiva 2000/31/CEnel diritto interno, dal momento che la diversa interpretazione accolta dalla Corte d’appello le attribuisce un significato difforme rispetto alla suddetta direttiva.

Inoltre, l’interpretazione dell’art. 16 del decreto legislativo n. 70 del 2003 fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, sia penale che civile, appare certamente la più ragionevole, anche nel risultato finale, che garantisce un equilibrato con temperamento tra la tutela della posizione del prestatore di servizi (non attivo) nella società dell’informazione, la cui responsabilità si è ritenuto opportuno limitare sul piano normativo, per favorire lo sviluppo e la trasmissione dei servizi e delle idee in tale ambito, e la tutela dei soggetti che possono esserne potenzialmente lesi.

Il punto di equilibrio che emerge dalla normativa euro-unitaria ed interna è, in definitiva, dato da i seguenti principi di diritto: «il prestatore di servizi informatici che assuma il ruolo di hosting provider non attivo va, di regola, esente dalla responsabilità per la pubblicazione delle eventuali informazioni illecite che provengano dai terzi – e, più specificamente, in relazione alla problematica oggetto della presente controversia – per tutti gli eventuali commenti diffamatori inviati dai terzi, ma, un a volta che egli acquisisca la consapevolezza della manifesta illiceità degli stessi (in qualunque modo, anche non necessariamente a seguito di una comunicazione delle autorità competenti, sebbene, in tale ultimo caso, possa essere più agevole percepire il carattere “manifesto” dell’illiceità), è tenuto ad attivarsi per rimuoverli tempestivamente, per continuare a godere dell’esenzione dalla indicata responsabilità».

2.7 La decisione impugnata certamente non è conforme a tale principio di diritto. Essa va, di conseguenza, cassata, affinché l’eventuale responsabilità del convenuto per l’omessa tempestiva rimozione dei commenti diffamatori pubblicati sul suo blog sia rivalutata, in sede di rinvio, alla luce dei principi di diritto sopra esposti.

3. È accolto il terzo motivo del ricorso, che è rigettato per il resto.

La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Per questi motivi

La Corte:

accoglie il terzo motivo di ricorso, che é rigettato per il resto, e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile il giorno 24 aprile 2025

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2025.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

Rispondi