Cassazione: quando le condotte vessatorie del datore di lavoro sono reiterate e producono uno stato di prostrazione psicofisica il mobbing è punibile come stalking (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 9 novembre 2020, n. 31273).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PEZZULLO Rosa – Presidente –

Dott. ROMANO Michele – Consigliere –

Dott. TUDINO Alessandrina – Rel. Consigliere –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere –

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

suI ricorso proposto da:

(omissis) nato a (omissis)

avverso l’ordinanza del 20/12/2019 del TRIB . LIBERTA’ di TORINO;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa ALESSANDRINA TUDINO;

lette/sentite le conclusioni del PG Dott.ssa ELISABETTA CENICCOLA

Il Proc. Gen. conclude per il rigetto;

udito il difensore L’avv. (omissis) insiste nell’accoglimento del ricorso.

RITENUTO  IN  FATTO

1. Con l’ordinanza impugnata del 20 dicembre 2019, depositata il 14 gennaio 2020, il Tribunale di Torino ha, in riforma dell’ordinanza del Gip in sede, impugnata dal Pubblico ministero, applicato a (omissis) la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. in riferimento a plurime condotte persecutorie, poste in essere, nella qualità di amministratore delegato di (omissis) s.r.l., in danno di (omissis), dipendente della predetta società e responsabile dell’ufficio risorse umane.

2. Avverso l’indicata ordinanza del Tribunale del riesame di Torino ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, con atto a firma del difensore di fiducia, Avv. (omissis), affidando le proprie censure a quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo, deduce violazione della legge processuale in riferimento alla produzione del pubblico ministero, all’udienza di appello, di un’annotazione di PG del 13 dicembre 2019, trattandosi di materiale innovativo non attinente ai fatti oggetto di provvisoria incolpazione in quanto relativo ad ulteriori presunte condotte poste in essere nel novembre 2019 in danno di soggetti terzi e, pertanto, esorbitante il thema decidendum devoluto con l’appello.

2.2. Con il secondo, articolato, motivo, censura il ricorrente violazione della legge penale e correlato vizio della motivazione in riferimento ai gravi indizi di colpevolezza del reato oggetto di provvisoria incolpazione.

2.2.1. Con un primo argomento, evidenzia il ricorrente come il Tribunale del riesame abbia ribaltato la decisione del Gip seguendo il medesimo criterio metodologico, ma approdando a soluzione difforme in violazione degli artt. 612-bis pen. e 2087 cod. civ., sovrapponendo il mobbing  allo sta!king  occupazionale,  pur non esplicandosi la contestata condotta nella vita  privata  della persona  offesa, ma esaurendosi esclusivamente nell’ambito del rapporto di lavoro.

2.2.2. Con un secondo punto, censura la ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di atti persecutori, enucleando – per ciascun segmento dell’imputazione – elementi di criticità della motivazione, illogica, presuntiva apparente e non attestata sulla integrale disamina degli stessi atti allegati alla querela e delle produzioni difensive e sulla valutazione del contesto di conflittualità tra gli amministratori (reperibilità in giorno festivo; files audio di colloqui tra le parti; contestazioni via mail mosse alla (omissis) inviate per conoscenza a terzi; esercizio del potere disciplinare; licenziamento; pedinamento), operando una indebita delibazione dei profili giuslavoristici della vicenda e risolvendo la prova del dolo nella soggettiva percezione della persona offesa.

2.3. Con il terzo motivo, deduce analoghe censure in riferimento al reato di violenza privata, oggetto di provvisoria incolpazione in riferimento ai fatti occorsi il 7 ottobre 2019, avendo reso al riguardo il tribunale una  motivazione  del  tutto  carente, attestata sulla mera visione dei filmati, asseritamente esplicativi di un “livello di prevaricazione che il (omissis) ha quel giorno esercitato sulla persona offesa”, in assenza della disamina degli  elementi  costitutivi  della  fattispecie,  in  punto di costrizione, e della produzione difensiva, inerente  la  querela  per diffamazione proposta – per il medesimo episodio – dall’indagato contro la persona offesa, contenente l’indicazione di persona ( OMISSIS ) presente ai fatti, di cui si ignora l’assunzione a teste.

2.4. Con il quarto, articolato, motivo, censura il ricorrente violazione di legge penale e correlato vizio della motivazione in riferimento alle esigenze cautelari.

2.4.1. Con il primo punto, contesta la ritenuta sussistenza del pericolo di recidiva, impropriamente risolto nella valutazione dei gravi indizi e fondato su una visione meramente retrospettiva, delineata dai documenti allegati all’annotazione  di PG del 4 dicembre 2019 e riferibili alle dimissioni, nel 2018, di  quindici  dipendenti della società, e senza tener conto della sopravvenuta divisione aziendale e della conseguente delocalizzazione delle due società derivate, con conseguente carenza dei requisiti di attualità e concretezza del giudizio prognostico di reiterazione del reato, travisando l’occasionale incontro tra le parti del 29 novembre 2019 e (omissis) l’intrusione dell’indagato negli uffici di (OMISSIS) s.r.l., antecedenti alla notifica di fissazione dell’udienza di appello del procedimento incidentale e senza che l’indagato fosse a conoscenza della pendenza di richieste di misure cautelari a suo carico.

2.4.2. Con il secondo punto, deduce analoghe censure in riferimento al pericolo di inquinamento probatorio, apoditticamente ritenuto pur a fronte della completezza del quadro indiziario e della richiesta dell’indagato di rendere interrogatorio.

2.4.3. Il terzo punto censura la valutazione di proporzionalità ed adeguatezza della misura applicata, anche rispetto alla meno afflittiva prescrizione del divieto di avvicinamento, in presenza di una motivazione meramente astratta ed assertiva in punto di prognosi di inosservanza e di una valutazione di proporzionalità, pur a fronte degli opposti esiti decisori della fase cautelare.

3. Con motivi nuovi trasmessi alla Cancelleria, anticipati a mezzo pec il 3 marzo 2020, il ricorrente ha ulteriormente presidiato il ricorso.

3.1. Con il primo motivo, deduce nullità dell’ordinanza ex 309, commi 5 e 10 in relazione all’art. 291 comma 1 cod. proc. pen. in riferimento all’omessa trasmissione ai giudici della cautela del verbale di sommarie informazioni testimoniali di (omissis) contenenti elementi favorevoli all’indagato riguardo il reato di violenza privata.

3.2. Con il secondo, articola analoga censura riguardo il verbale di sommarie informazioni testimoniali di (omissis), contenente elementi favorevoli all’indagato riguardo il reato di atti persecutori.

3.3. Il terzo motivo lamenta travisamento della prova in ordine al file audio prodotto dalla parte offesa (identificato come (omissis)), per esserne stato interpretato il contenuto in modo enfatizzante, non rivelando, invece, la registrazione – analiticamente commentata – alcun atto prevaricatorio.

3.4. Il quarto motivo reitera la stessa censura in relazione al ritenuto pedinamento, tanto in relazione al documento già richiamato che alle registrazioni dell’impianto di videosorveglianza aziendale, prodotti dalla persona offesa.

CONSIDERATO  IN DIRITTO

Il ricorso è complessivamente infondato.

1. La notevole mole di atti e documenti, allegati al ricorso ed ai motivi nuovi, prodotti in più tempi dall’indagato, rende, a parere del collegio, non inopportuno richiamare una serie di principi inerenti al corretto svolgimento del giudizio di legittimità.

1.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 1, n. 46711 del 14/07/2011, Rv. 251412; Sez. 2, n. 15693 del 08/01/2016, Rv. 266441), costituisce principio generale in tema di impugnazioni la necessità che tra i motivi originariamente proposti ed i motivi di ricorso nuovi od aggiunti sussista un rapporto di connessione, non essendo consentito, con motivi definiti dalla parte proponente “nuovi” od “aggiunti”, dedurre vizi non introdotti con l’impugnazione originaria.

Invero, la facoltà conferita al ricorrente dall’art. 585, comma 4, cod. proc. pen., deve trovare necessario riferimento nei motivi principali e rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore e più dettagliata esposizione dei primi, anche per ragioni eventualmente non evidenziate in precedenza, ma sempre collegabili ai capi e punti della decisione impugnata oggetto delle censure già dedotte: ne consegue che “motivi nuovi” ammissibili sono soltanto quelli con i quali, a fondamento del petitum già proposto nei motivi principali d’impugnazione, si alleghino argomentazioni (e non anche richieste) ulteriori rispetto a quelle originarie, non potendo essere ammessa l’introduzione di censure nuove in deroga ai termini tassativi entro i quali il ricorso va presentato. I motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono, pertanto, avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i medesimi capi o punti della decisione impugnata che siano stati oggetto di doglianza nell’originario atto d’impugnazione (Sez. 6, n. 73 del 21 settembre 2011, dep. 2012, Rv. 251780).

In altri termini, in materia di termini per l’impugnazione, la facoltà del ricorrente di presentare “motivi nuovi” o “aggiunti” incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, dei quali i motivi ulteriori  devono  rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma risultando sempre ricollegabili ai capi ed ai punti già censurati; ne consegue che sono ammissibili soltanto i “motivi nuovi” o “aggiunti” con i quali, a fondamento del petitum formulato nei motivi principali, si alleghino argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già svolte, non anche quelli con i quali si intenda ampliare l’ambito del predetto petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione» (Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954, in motivazione).

1.2. L’art. 585, comma 4, cod. proc. pen. consente alla parte ricorrente unicamente la produzione di “motivi nuovi” – intesi nell’accezione ut supra delineata – non anche di “atti” o “documenti nuovi”; dato testuale già ex se significativo.

Sul punto, questa Corte (Sez. 4, n. 3396 del 06/12/2005, dep. 2006, Rv. 233241; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Rv. 254302; Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Rv. 266390; Sez. 1, n. 42817 del 06/05/2016, Rv. 267801) ha chiarito che non è ammissibile la produzione per la prima volta in sede di legittimità  di “documenti nuovi”, ovvero già non facenti parte del fascicolo, diversi da quelli di natura tale da non costituire “nuova prova” e da non esigere alcuna attività di apprezzamento sulla loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte, perché tale attività è estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione.

I documenti di natura diversa esibiti per la prima volta in sede di legittimità non sono, al contrario, ricevibili, perché il nuovo codice di rito non ha previsto (diversamente dall’art. 533 del codice di rito  abrogato), tale facoltà: si è, in tal modo, inteso esaltare il ruolo di pura legittimità della Suprema Corte, che procede non ad un esame degli atti, ma soltanto alla valutazione dell’esistenza e della logicità della motivazione.

Ciò in quanto – come, ancora una volta, già evidenziato da questa Corte (Sez. 3, n. 43307 del 19/10/2001, Rv. 220601), – non può ritenersi ammissibile nel giudizio di legittimità, anche dopo l’entrata in vigore della L. 7 dicembre 2000, n. 397, la produzione di nuovi documenti attinenti al merito della contestazione ed all’applicazione degli istituti sostanziali, non potendo interpretarsi come una deroga ai principi generali  del procedimento  e del giudizio  dinanzi  alla Corte di cassazione la lettera dell’art. 327-bis, comma 2, cod. proc. pen., nella  parte in cui attribuisce al difensore la facoltà di svolgere “in ogni stato e grado del processo” le investigazioni in favore del proprio assistito previste dal comma 1, “nelle forme e per le finalità stabilite nel titolo VI-bis” del libro V del codice di rito.

Con la conseguenza per cui nel giudizio di legittimità possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che essi non costituiscano “prova nuova” e non comportino un’attività di apprezzamento circa la loro validità  formale  e  la  loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici del merito, ma richiedano una mera presa d’atto del loro contenuto.

1.3. Nel quadro così delineato, i motivi formalmente definiti come “nuovi”, trasmessi dall’avv. Pinciaroli nell’interesse dell’indagato, sono ad un tempo – i primi due – inammissibili in quanto esorbitanti dai temi devoluti con il ricorso e – il  terzo ed il quarto – esplicitamente diretti alla rivalutazione della piattaforma indiziaria che, attraverso l’allegazione di fonti documentali ed orali, dovrebbero variamente produrre efficacia in riferimento al contesto delle prove già raccolte  e valutate  nei gradi di merito, e che la Corte di cassazione dovrebbe conseguentemente essere chiamata a (ri)valutare.

Ed invero, le deduzioni rassegnate nei primi due motivi  nuovi  (§  3  punti 1 e  2) sono state,  per  la prima  volta, introdotte  con la  memoria  del 3 settembre  2020  e, ponendosi in termini di assoluta eccentricità rispetto al ricorso principale, sono proposti fuori dei casi previsti dalla legge. Il terzo ed il quarto motivo, invece, si risolvono nell’analitica rilettura di fonti probatorie, fisicamente allegate anche  in formato digitale, invocando – mediante il richiamo al travisamento della prova – un inammissibile sindacato di questa Corte.

La deduzione del vizio di travisamento  della  prova  in  sede  cautelare, peraltro, è compatibile con il ricorso per cassazione ex art. 311 cod. proc. pen. solo quando il suddetto vizio emerga in maniera evidente dalla mera lettura del provvedimento impugnato o dal suo confronto con specifiche deduzioni scritte presentate precedentemente alla sua adozione, non essendo invece sufficiente, in assenza dell’illustrata condizione, l’allegazione al ricorso degli atti o dei documenti probatori di cui si lamenta la mancata considerazione (Sez. 6, n. 31390  del 08/07/2011, D’Amato, Rv. 250686), sempre che l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento  probatorio,  rendendo  illogica  la  motivazione  per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermo restando il limite dell’intangibilità della  valutazione  nel  merito  del  risultato  probatorio  (Sez.  5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758).

Ne viene la complessiva inammissibilità dei motivi nuovi.

2. E’, invece, infondato il primo motivo del ricorso principale.

2.1 Questa Corte ha già affermato – e con specifico riferimento all’appello cautelare, e finanche nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento – come il pubblico ministero e l’indagato possano introdurre elementi probatori, sia in ordine alla gravità indiziaria, sia con riguardo all’esistenza delle esigenze cautelari, a condizione che le produzioni siano relative agli stessi fatti già oggetto di valutazione da parte del primo giudice della cautela (Sez. 2, n. 53645 del 08/09/2016, Lucà, Rv. 268978 in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto ammissibile la produzione di documentazione attestante la pendenza di procedimenti relativi ad altri fatti di reato, in quanto elementi in astratto rilevanti ai fini del giudizio devoluto).

Il Collegio condivide la autorevole giurisprudenza secondo cui, nel procedimento conseguente all’appello proposto dal pubblico ministero contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, è legittima la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, sempre che, nell’ambito dei confini segnati dal “devolutum”, quelli prodotti dal pubblico ministero riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta cautelare ed in ordine ad essi sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti, anche mediante la concessione di un congruo termine a difesa, e quelli prodotti dall’indagato, acquisiti anche all’esito di investigazioni difensive, siano idonei a contrastare i motivi di gravame del P.M. ovvero a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti di applicabilità della misura cautelare richiesta (Sez. un., n. 18339 del 31/03/2004, Donelli  Rv.  227357).

Si tratta di un’opzione ermeneutica finalizzata a chiarire la struttura dell’impugnazione cautelare che, pur non essendo del tutto sovrapponibile a quella del processo di cognizione, ne ripete sia la natura devolutiva, sia la “apertura” a nuovi apporti probatori: questi ultimi, come chiarito dalle Sezioni Unite, possono fare ingresso nel compendio indiziario sottoposto alla valutazione del giudice dell’appello, a condizione:

a) che sia garantito il contraddittorio, che deve  svilupparsi comunque, seppur con modalità compatibili con la struttura  contratta del rito camerale;

b) che riguardino i fatti già oggetto della valutazione del primo giudice della cautela.

Naturalmente al pubblico ministero è impedito, dalla stessa struttura della cognizione cautelare (che prevede diversi “gradi” di giudizio), la facoltà di proporre elementi indiziari relativi a fatti diversi da quelli in relazione ai quali ha avanzato la richiesta originaria, poiché in caso contrario sarebbe irrimediabilmente compromessa la natura impugnatoria del giudizio d’appello, che prevede che il “primo” vaglio del compendio indiziario sia sempre effettuato da altro giudice (con il controllo  eventuale  del  giudice  del  riesame,  cui  è  devoluta  l’intera valutazione cautelare).

Al giudice dell’appello cautelare spetta, invece, solo il “controllo” della legittimità del provvedimento cautelare nei limiti del devoluto, ma  non  la valutazione cautelare “originaria”, ovvero quella relativa a fatti diversi da quelli già vagliati dal primo giudice della cautela.

2.2. Nel caso di specie, gli elementi prodotti dal  pubblico  ministero  sono  riferiti a fatti di reato sicuramente “diversi” da quelli per cui era stata applicata  la misura  cautelare;  la produzione,  peraltro, è avvenuta  in udienza  con attivazione del contraddittorio, che  si è sviluppato  in  modo  compatibile  con la struttura contratta del rito camerale.

Nondimeno, rileva il Collegio come, sebbene riferita a fatti di reato “diversi” da quelli per cui si procede, la produzione del pubblico ministero sia comunque pertinente al fatto contestato: gli elementi introdotti sono stati, infatti, prodotti all’esclusivo fine di accrescere il compendio indiziario disponibile per la valutazione dell’intensità del pericolo di reiterazione e tale specifica finalità dimostrativa rende irrilevante il fatto che i documenti riguardino fatti diversi da quelli per cui  si  procede, con conseguente infondatezza della censura proposta al riguardo.

3. Non colgono nel segno le dogli ze proposte, con differenti accentuazioni, nel secondo motivo di ricorso in riferimento alla qualificazione giuridica dei fatt.

3.1. L’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro ha delineato i tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo, che si configura ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo (Ex multis L, n. 12437 del 21/05/2018, S. contro N., Rv. 648956) che unifica la condotta, unitariamente considerata.

Ed  è  proprio  siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma  è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio  unificante, preordinato alla prevaricazione (Sez. L, n. 10992 del 09/06/2020, V. contro A., Rv. 657926,  N. 4222  del  2016 Rv.  639204, N. 12437  del  2018 Rv.  648956,  N.   26684 del 2017 Rv. 646150).

In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di «mirata reiterazione di plurimi atteggiamEt!1ti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro».

3.2. In riferimento alla rilevanza penale delle condotte di mobbing, questa Corte ha affermato come le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da  relazioni  intense  ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei  confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto  più  debole  del  rapporto  in  quello che ricopre la posizione di supremazia  (Sez.  6,  n.  14754  del  13/02/2018, P.C. in proc. M., Rv. 272804, N. 28603 del 2013 Rv. 255976, N. 13088 del 2014 Rv. 259591, N. 24057 del 2014 Rv. 260066, N. 24642 del 2014 Rv. 260063).

Sempre valorizzando il piano della relazione – verticale – tra le parti, si è precisato come, in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto  dall’art.  571 cod.  pen.  la  condotta  del  datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella  specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di  epiteti  ingiuriosi  o  con  frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod.  pen.  la  condotta  del datore di lavoro che ponga  in  essere  nei  confronti  del dipendente  comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere  sulla  libertà  personale del dipendente, determinando nello stesso una  situazione  di disagio  psichico  (Sez. 6, n. 51591 del 28/09/2016, V., Rv. 268819, N. 10090 del 2001Rv. 218201).

Si è, in tal senso, rimarcato il profilo di abuso di quegli obblighi di protezione che caratterizzano tanto il rapporto  di  lavoro subordinato,  dalla  parte datoriale, che i vincoli latu sensu (para) familiari, in un’ottica indirizzata alla verifica della lesione all’integrità fisica, che ha sciolto l’alternativa tra la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 582 o degli artt. 571 e 572 cod.  pen.  e  limitando  l’indagine  al  bene­ interesse della salute (V. Sez. 5, n.  33624  del  09/07/2007,  P.C.  in  proc.  De Nubblio, Rv. 237439).

3.3. Siffatta visione, tutta incentrata sulla  tutela  dell’integrità  psico-fisica  della vittima, insiste, nondimeno, sulla connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti  convergenti  nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare  il  dipendente nell’ambiente di lavoro; e non esclude –  ma,  anzi, conferma  –  la  riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice  di  cui  all’art.  612-bis    pen.,  ove ricorrano gli elementi costituivi  di siffatta  fattispecie  e,  in  particolare,  la causazione di uno degli eventi ivi declinati.

Ed invero il delitto di atti persecutori – che ha natura di reato abituale e di danno – è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta

persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è la identificabilità  di questi  quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente  orientata  alla  produzione  di uno degli eventi,  alternativamente  previsti  dalla  norma  incriminatrice  (ex  multis Sez. 5, n. 7899 del 14/01/2019, P., Rv. 275381), che  condividono  il  medesimo  nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (Sez. 5, n. 11931 del 28/01/2020, R., Rv. 278984).

Ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purchè sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della necessaria verifica causale.

In altri termini, il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis cod. pen.. Ed assume mero contenuto descrittivo, che peraltro registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche “ambientazioni” (cd. stalking condominiale, giudiziario…).

Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612-bis cod. pen. laddove quella «mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro», elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno (V. supra §, 3.1), sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice.

4. Alla luce di quanto premesso, s’appalesano inconducenti le censure rassegnate dal ricorrente.

4.1. Del tutto infondato il rilievo volto a ritagliare una sorta di zona franca dalla ravvisabilità dello stalking in ambito lavorativo, che ignora in toto la verifica causale e la natura di danno della fattispecie e che, peraltro, prospetta una visione atomistica della libertà morale, oggetto di tutela, limitandola nei diversi settori della vita in cui si esplica la personalità individuale.

4.2. Le censure mirate, invece (punto 2.2 del secondo motivo), alla qualificazione giuridica del fatto devoluto al giudice del merito si risolvono in una analitica rivisitazione della piattaforma indiziaria, di cui si contesta non già la motivazione, bensì il fondamento decisionale, come tale sottratto al  controllo  di questa Corte.

Il ricorso indugia, difatti, nella diretta valutazione delle fonti di prova, proponendone una valenza alternativa e, sostanzialmente, atomistica e frammentaria dei molteplici episodi invece unitariamente ricondotti nell’ordinanza impugnata.

Ed in tal senso, si richiamano le osservazioni già rassegnate supra ai §§ 1.2 e 1.3 ..

L’ordinanza impugnata ha, per contro, ampiamente rassegnato i plurimi atti vessatori a cui è rimasta esposta la persona offesa, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, enucleandone – con argomentazione corretta in diritto e del tutto  razionalmente  giustificata i tratti  essenziali  del  reato  sub  a)  in considerazione delle comprovate conseguenze (stato d’ansia e di  paura;  modifica delle abitudini di vita), in piena conformità allo standard per cui, in tema di appello cautelare, il tribunale della libertà, che accoglie l’appello del pubblico  ministero  avverso decisione di rigetto della misura cautelare del giudice per le indagini preliminari, seppure non è tenuto ad una motivazione rafforzata, necessaria solo in sede di giudizio quando viene riformata una sentenza assolutoria, deve comunque procedere ad una verifica, sia pure implicita, degli argomenti a sostegno della  decisione impugnata, se interferenti con i presupposti della divergente valutazione adottata in sede di appello, configurandosi  altrimenti  un  vizio  della  motivazione (Sez. 5, n. 10995 del 12/12/2019, Di Matteo, Rv. 278797).

Il secondo motivo di ricorso è, pertanto, infondato.

5. E’, del pari, inconducente il terzo motivo

5.1. Anche in riferimento all’incolpazione provvisoria del reato di cui all’art. 610 cod. pen., il ricorrente riproduce le medesime censure in fatto, lamentando la preterizione di elementi a discarico di cui non è dedotta la decisività nella prospettiva di un diverso epilogo decisorio ma, ancora una volta, la diversa lettura elaborata dalla difesa.

L’ordinanza impugnata ha, per contro, dato atto di una condotta di costrizione della persona offesa, alla quale veniva impedito di lasciare l’ufficio e che si risolveva con l’intervento persino degli operatori del 118, rispetto alla quale il contributo conoscitivo delle fonti indicate a discarico non s’appalesa risolutivo in senso diverso da quello ritenuto – e rappresentato senza evidenti disarticolazioni – in sede cautelare.

5.2. Né il ricorso si confronta con il principio per cui è  configurabile  il concorso tra il delitto di violenza  privata e quello di atti persecutori,  non sussistendo tra di essi un rapporto strutturale di specialità unilaterale  ai sensi dell’art.  15 cod., dal momento che il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen., diversamente dal primo, non richiede necessariamente l’esercizio della  violenza  e  contempla  un evento – l’alterazione delle abitudini di vita della vittima  –  di  ampiezza  molto  maggiore rispetto alla costrizione  della  vittima  ad  uno  specifico  comportamento,  che basta ad integrare il delitto  previsto  dall’art.  610 cod.  pen.  (Sez.  5,  n.  22475 del 18/04/2019, P., Rv. 276631, N. 4011 del 2016: in motivazione, la Corte ha  precisato che neppure impiegando il criterio della “specialità reciproca per specificazione” potrebbe pervenirsi all’assorbimento del delitto di violenza privata in quello di atti persecutori, sussistendo al  più  tra  le  due  fattispecie  astratte,  in ragione di quanto detto, un rapporto di “specialità reciproca per  aggiunta”;  Rv. 265639, N. 2283 del 2015 Rv. 262727), avendo anche al riguardo il Tribunale correttamente isolato la condotta sub b), connotata di un autonomo disvalore per l’intensità della lesione, rispetto al più ampio contesto persecutorio.

6. Sono infondate le censure rivolte alle esigenze cautelari.

6.1. In punto di (in)adeguatezza della diversa misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa, l’ordinanza impugnata ha ampiamente argomentato riguardo gli indicatori di inaffidabilità dell’indagato, esplicitamente richiamando non solo la perdurante condotta illecita, ex se espressiva di incontinenza comportamentale, anche nel quadro di vessazioni rivolte ad altre dipendenti, ma anche i pretestuosi ritorni presso l’ufficio di (omissis) e i reiterati tentativi di avvicinamento alla persona offesa, successivi alla querela, giustificati ancora una volta da una prospettazione del tutto soggettiva e che resta comunque indenne dal vizio denunciato, anche in riferimento alla circostanza che l’indagato fosse o meno consapevole dell’esistenza di una richiesta di misura cautelare a suo carico.

Di guisa che la circostanza della intervenuta separazione societaria e della diversa collocazione delle parti è stata ritenuta, con motivazione ineccepibile, non sufficiente a scongiurare il pericolo di reiterazione.

Ne viene che anche le critiche rivolte alla valutazione di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione del reato non si confrontano con il giudizio prognostico puntualmente svolto dal tribunale, mirato sulla personalità dell’indagato come ricostruita alla stregua dei fatti accertati e prospetticamente ritenuta inaffidabile, in piena aderenza ai canoni che governano l’applicazione delle misure restrittive in termini di extrema ratio.

6.2. Le doglianze svolte in relazione al pericolo di inquinamento probatorio sono meramente assertive ed astrattizzanti, avendo anche sul punto il Tribunale evidenziato concreti indici di compromissione delle prove in fieri nella pervicace ed insistente ricerca di contatto dell’indagato con la persona offesa ed il complessivo contesto ambientale, non disgiunta da una componente di tipo intimidatorio.

Non sussiste, pertanto, la violazione di legge denunciata.

7. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente, ex 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

8. Va disposto l’oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03, in caso di diffusione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020.

SENTENZA – è copia conforme all’originale -.