Continuazione: la medesimezza del disegno criminoso non va confusa con l’inclinazione a commettere reati (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 13 marzo 2023, n. 10372).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere –

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere –

Dott. MAGRO Maria Beatrice – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) nato a (OMISSIS) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 06/12/2021 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa MARIA BEATRICE MAGRO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott.ssa FRANCESCA COSTANTINI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

(OMISSIS) (OMISSIS) ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 06/12/2021, di conferma di quella del Tribunale di Pavia, con il quale il ricorrente era condannato per il reato di cui all’art. 10 ter del D.lgs. 74/2000 perché, in qualità di rappresentante legale dell’impresa (OMISSIS) soc. coop. in liquidazione, ometteva di versare, nei termini previsti, l’acconto relativo all’imposta sul valore aggiunto risultante dalla dichiarazione annuale per il periodo 2013 per un ammontare di euro 407.980,00.

Con un primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce vizio della motivazione e violazione di norme di legge in tema di competenza territoriale, avendo il giudice di primo grado rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale per connessione tempestivamente sollevata dalla difesa, posto che era pendente altro procedimento penale davanti al Tribunale di Monza, concernente il medesimo imputato, nelle medesima qualità di rappresentante legale della società e la medesima materia tributaria, ovvero il più grave reato di cui all’art 5 del d.lgs 74/2000, relativo a fatti del 2015.

Deduce di aver sollevato l’eccezione all’udienza del 19/03/2021 nei termini previsti per il rito ordinario, prima che fosse disposto il rito abbreviato.

Eccepisce, in ordine all’asserito difetto di allegazione di elementi probatori da cui desumere l’unicità del disegno criminoso, di aver dimostrato la pendenza, nel medesimo stato e grado, dei due procedimenti e il titolo dei reati contestati e dunque, di aver assolto tutti gli oneri di allegazione e probatori necessari ai fini dell’applicazione delle norme sulla competenza per connessione ai sensi degli artt. 81 cod. pen., 12 cod. proc. pen. e 16 cod. proc.pen.

Rileva che erroneamente il giudice di merito non ha ritenuto sussistente il vincolo della continuazione tra i due fatti e ha ritenuto di fare applicazione della regola prevista dall’art. 18 d.gs. 74/2000.

Con secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce vizio della motivazione in ordine alla sussistenza della medesimezza del disegno In particolare, evidenzia che i due reati, quello oggetto del presente procedimento, e quello la cui cognizione è devoluta al Tribunale di Monza, sono stati commessi quando egli rivestiva la medesima carica sociale di rappresentante legale della società (OMISSIS).

Evidenzia che la suddetta società era stata sopraffatta da una grave crisi economica che le impediva nel 2014 di adempiere le obbligazioni fiscali (in relazione all’annuo di imposta 2013) e nel 2015 la costringeva ad omettere di presentare la relativa dichiarazione IVA relativa all’anno di imposta 2014.

Erroneamente e con motivazione illogica il giudice ha ritenuto insussistente il requisito della medesimezza del disegno criminoso.

Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

In ordine al primo motivo di ricorso, si osserva che il comma 6 bis dell’art 438 cod.proc.pen., introdotto con l’art. 1, comma 43, della L. 23 giugno 2017, n. 103, stabilisce che la richiesta di giudizio abbreviato proposta all’udienza preliminare determina la preclusione di ogni questione sulla competenza per territorio del giudice.

Pertanto la censura è preclusa.

Va, per completezza, aggiunto che è onere della parte che solleva eccezione di incompetenza per territorio determinata dalla connessione, provare sia la pendenza attuale dell’altro procedimento nella medesima fase, sia il titolo del reato o dei reati, sia la connessione qualificata ai sensi dell’art. 12 lettere b) e c) del codice di rito (Sez.2, n.19579 del 21/04/2006, Rv. 234194).

Nel caso in disamina, il giudice ha ritenuto insufficiente la produzione della citazione in giudizio relativa al procedimento pendente innanzi al Tribunale di Monza, affermando che il ricorrente non ha fornito alcun elemento da cui poter desumere l’unicità del disegno criminoso, limitandosi a evidenziare di ricoprire la medesima posizione societaria, a evidenziare la prossimità cronologica dei fatti e la natura tributaria dei medesimi e a sollevare la questione della sopravvenuta grave crisi di liquidità della società: ne consegue la genericità della allegazione, peraltro preclusa.

Il secondo motivo di ricorso non può trovare ingresso in questa sede, esaurendo la propria rilevanza sul piano del merito.

Questa Suprema Corte ha già avuto modo di pronunciarsi nel senso che l’indagine che si impone alla riflessione del giudice chiamato a valutare un’istanza di applicazione della disciplina della continuazione deve concentrarsi su tre essenziali problemi: dapprima verificare la credibilità intrinseca, sotto il profilo logico, dell’asserita esistenza di un unico, originario programma criminoso; indi, analizzare i singoli comportamenti incriminati per individuare le particolari, specifiche finalità che appaiono perseguite dall’agente; infine verificare se detti comportamenti criminosi, per le loro particolari modalità, per le circostanze in cui si sono manifestati, per lo spirito che li ha informati, per le finalità alle quali erano preordinati, possano considerarsi, valutata anche la natura dei beni aggrediti, come l’esecuzione, diluita nel tempo, del prospettato, originario, unico disegno criminoso (Cass. 22/04/1992, Curcio, Rv 190807).

La Corte ha quindi pacificamente affermato che l’accertamento appena indicato costituisce giudizio di merito, non sindacabile in sede di legittimità, se immune da vizi di motivazione (Cass 28/05/1990, Paoletti, Rv n. 184908; Cass, Sez. 6, 13/06/2007, n. 25097, Rv n. 237014).

Orbene, nel caso di specie, i suddetti vizi non sono riscontrabili nella sentenza gravata, avendo il giudice ritenuto che non sia stato soddisfatto l’onere probatorio e che, comunque, non vi sia connessione tra diversi reati, difettando, sotto il profilo logico, l’asserita esistenza di un unico, originario programma criminoso, in quanto la commissione di reati diversi in tempi diversi da parte del medesimo autore non è elemento sufficiente a dare prova, sotto il profilo soggettivo, della rappresentazione anticipata di ciascun reato e dell’unicità del disegno

Il giudice di merito ha evidenziato, con motivazione immune da vizi logico-giuridici, non sindacabile in sede di legittimità, che l’unicità del disegno criminoso non si identifica con la generale inclinazione a commettere reati, magari sotto la spinta di fatti e circostanze occasionali, più o meno collegati tra loro, o sulla spinta di bisogni e necessità di ordine contingente.

Tali circostanze non indiziano la sussistenza del medesimo disegno criminoso, quale elemento unificatore, sotto il profilo soggettivo, del concorso materiale di reati, in quanto esso richiede che le singole violazioni siano state deliberate – quanto meno nelle linee essenziali – sin dal momento dell’esecuzione della prima violazione, a cui si aggiunge l’elemento volitivo necessario per l’attuazione del programma medesimo.

Altrettanto correttamente il giudice di merito ha evidenziato che l’unicità del disegno criminoso non può essere confusa con I’ inclinazione a commettere reati.

Questa Corte ha infatti affermato che la semplice tendenza a delinquere del soggetto, ovvero la presenza di un programma generico di attività criminose, espressione di un costume di vita deviante, correlato al bisogno economico, non è di per sè indicativa della esistenza della identità di un disegno criminoso, indispensabile per la riduzione ad unità delle diverse violazioni; è viceversa necessario che, sin dall’inizio, i singoli reati siano previsti e preordinati quali episodi attuativi di un unico programma delinquenziale (Nella fattispecie la Corte ha definito insindacabile la valutazione del giudice di merito che aveva ritenuto che la condotta dell’imputato, cui era addebitata la emissione in ampio arco temporale di numerosissimi assegni “a vuoto”, fosse indice di una continuità nel delitto, espressione di una radicata abitudine di vita e non fosse, in quanto tale, riconducibile ad un’unica, precisa rappresentazione e determinazione criminosa). (Sez. 5, n. 5101 del 30/03/1999, Rv. 213197).

Il medesimo principio è stato espresso in tema di reati commessi in stato di tossicodipendenza, ove la Corte ha ritenuto che la medesimezza del disegno criminoso si differenzi dalla tendenza a porre in essere reati della stessa indole o specie, determinata o accentuata da talune condizioni psico-fisiche (come la tossicodipendenza), dovendo le singole violazioni costituire parte integrante di un unico programma criminoso.

Tale programma criminoso deve essere positivamente e rigorosamente provato, non giovando a tale fine la mera indicazione dell’identità delle norme di legge violate, la loro prossimità temporale, la medesimezza del movente delle varie azioni criminose, tutte circostanze concernenti i singoli reati e non probanti della preventiva deliberazione a delinquere che ne avrebbe unificato l’ideazione anteriormente alla loro singola commissione (Sez. 1, n. 5618 del 21/12/1993, Rv. 196545; Sez.1, n. 1146 del 21/02/1996, Rv. 204608; Sez. 1, n. 8898 del 09/11/2000, Rv. 218371).

Pertanto, il giudice di merito ha rilevato l’assenza di elementi che possono evidenziare come le singole violazioni facessero parte di un unico programma criminoso, deliberato sin dall’inizio nelle linee essenziali e finalizzato a conseguire un determinato fine.

Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso all’udienza del 21 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2023.

SENTENZA – é copia conforme -.