LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
LUCIA TRIA – Presidente –
ROBERTO BELLÉ – Consigliere –
IRENE TRICOMI – Consigliere – Relatore –
FEDERICO ROLFI – Consigliere –
DARIO CAVALLARI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8924/2019 R.G. proposto da:
(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in ROMA VIA (omissis) n. 22, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
ASL ROMA 1 (già ASL RM/E) , in persona del legale rapp. pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA (omissis) 25/B, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
nonché
REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA VIA (omissis) (omissis) 27, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 2215/2018 depositata il 10/09/2018, RG n. 3467 del 2015.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/09/2024 dal Consigliere dott.ssa IRENE TRICOMI.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n.2215 del 2018, ha rigettato l’impugnazione proposta da (omissis) (omissis) nei confronti della Regione Lazio, nonché dell’ASL Roma 1 (già ASL RM/E), avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale.
2. La lavoratrice ha impugnato la revoca dall’incarico di direttore generale della Agenzia di Sanità Pubblica (ASP) della Regione Lazio disposta il 19 giugno 2013, e ha chiesto la condanna al risarcimento del danno.
Atteso che la Regione era subentrata alla ASP ad avviso della ricorrente sussisteva il proprio diritto a transitare presso la Regione, e a mantenere l’incarico.
Il Tribunale ha rigettato la domanda.
2. La Corte d’Appello, dopo aver premesso che la lavoratrice era dirigente medico della ASL RM/1 a tempo pieno con contratto esclusivo, ha rilevato che la stessa ha prestato servizio presso la ASP dal 2 marzo 2000 al 24 luglio 2013, in virtù di un contratto di conferimento di incarico di Direttore Generale, mantenendosi in aspettativa senza assegni fino al luglio 2013.
L’art. 35 della legge della Regione Lazio n. 4/2013 ha previsto che le competenze dell’ASP fossero trasferite dal 1° dicembre 2013 alla Giunta regionale del Dipartimento di epidemiologia della ASL RM/E.
La disposizione regionale ha previsto espressamente la cessazione degli organi della ASP alla data di assunzione delle funzioni da parte del Commissario liquidatore. Pertanto, al la cessazione dell’incarico, venendo meno il ruolo di Direttore generale, conseguiva la risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 cc.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando due motivi di ricorso.
Resiste con controricorso la Regione Lazio, che ha depositato memoria anche di costituzione di nuovo difensore.
Resiste con controricorso l’ASL RM/1, che ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132, cpc, comma 1, n. 4, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cpc.
Si deduce la sussistenza di motivazione apparente circa l’idoneità del factum principisa determinare l’automatica cessazione del rapporto di lavoro, in mancanza della prova di ogni possibile proficuo utilizzo della ricorrente.
Riporta quindi il motivo di appello proposto al giudice di secondo grado (articolato in quasi cinque pagine), rispetto al quale assume il carattere apodittico della sentenza di appello atteso che il fatto impeditivo dovrebbe essere riconducibile al principio di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo di recesso ex lege n. 604 del 1966.
2. Il motivo è inammissibile, in quanto non censura adeguatamente la ratio decidendi della sentenza di appello.
L’incarico di Direttore Generale della ASP conferito alla lavoratrice, già dirigente medico della ASL RM/1 a tempo pieno con contratto esclusivo, si è svolto dal 2 marzo 2000 al 24 luglio 2013 – e in aspettativa senza assegni fino al luglio 2013. L’incarico è cessato in quanto è venuto meno il relativo posto in ragione della legge reg. Lazio n. 4 del 2013.
Dunque, non si verte in fattispecie di licenziamento, ma di cessazione di incarico conferito dirigente medico.
La legge regionale Lazio n. 4 del 2013 all’art. 35, comma 1, ha previsto: “Al fine di assicurare il contenimento della spesa e la piena integrazione delle funzioni di supporto tecnico ed epidemiologico, nonché di perseguire obiettivi di efficienza, economicità, trasparenza ed efficacia nell’utilizzazione delle competenze tecnico-scientifiche disponibili da parte della Regione nelle diverse fasi dell’attività propria di programmazione sanitaria e di ottimizzare le risorse, evitando duplicazioni di attività, le competenze istituzionali attribuite a Lazio sanità – Agenzia di sanità pubblica della Regione Lazio (ASP), ai sensi della legge regionale 1° settembre 1999, n. 16 (Istituzione di Lazio sanità – Agenzia di sanità pubblica della Regione Lazio (ASP)) e successive modifiche, sono trasferite, a partire dal 1° dicembre 2013, alla Giunta regionale ed al dipartimento di epidemiologia della ASL RM/E.” Il comma 12, primo periodo, ha stabilito “12. Il personale a tempo indeterminato in servizio presso l’ASP è trasferito alla Giunta regionale e al dipartimento di epidemiologia della ASL RM/E ed è inquadrato nei rispettivi ruoli sulla base di un’apposita tabella di corrispondenza approvata dalla Giunta regionale.”.
Il comma 14 ha previsto ”Gli organi dell’ASP cessano alla data di assunzione delle funzioni da parte del Commissario liquidatore, ad eccezione del Collegio dei revisori, che permane in carica e continua ad esercitare le sue funzioni per tutta la durata della gestione liquidatoria”.
La legge n. 4 del 2013 ha abrogato a decorrere dal 1° dicembre 2013, la legge reg. n. 19 del 1996 che aveva istituito l’ASP e il cui art. 7 prevedeva “Sono organi dell’ASP:
a) il consiglio di amministrazione;
b) il presidente;
c) il direttore generale;
d) il collegio dei revisori”.
Dal suddetto quadro normativo emerge che il legislatore regionale, nel trasferire le competenze dell’ASP alla Giunta regionale ed al dipartimento di epidemiologia della ASL RM/E, ha previsto una duplice disciplina.
Solo per il personale a tempo indeterminato dell’ASP – tra cui non poteva rientrare la ricorrente già dirigente medico della ASL RM/1 a tempo pieno con contratto esclusivo alla quale veniva conferito l’incarico e che alla cessazione dell’incarico è tornata in servizio presso la ASL come accertato dalla Corte d’Appello e non specificamente contestato – ha previsto il trasferimento alle Istituzioni che acquisivano le competenze dell’ASP, mentre ha stabilito la cessazione degli organi dell’ASP tra cui il Direttore Generale, facendo temporaneamente salva solo il Collegio dei revisori.
Di talchè è venuto meno ex legis, nell’ambito di una complessiva ristrutturazione del servizio anche per ragioni di contenimento della spesa pubblica ed efficienza, il posto in relazione al quale è stato conferito l’incarico alla ricorrente, e la stessa base normativa del medesimo a partire dal 1° dicembre 2013 attesa l’abrogazione dell’intera legge n. 19 del 1996 con tale decorrenza.
La Corte d’Appello ha fatto applicazione dei principi già enunciati da questa Corte e ha ritenuto legittima la cessazione dell’incarico in questione, e che non vi era il diritto della ricorrente al conferimento di altro incarico. L’incarico in questione non è stato oggetto di revoca o di singola soppressione (venendo meno l’ASP stessa), ma è venuto meno nell’ambito di una complessa riorganizzazione ritenuta dal legislatore regionale, in coerenza con l’art. 97 Cost., dopo un lungo periodo di attività dell’ASP, necessaria per rinnovate esigenze di perseguire obiettivi di efficienza, economicità, trasparenza ed efficacia nell’utilizzazione delle competenze tecnico-scientifiche disponibili da parte della Regione nelle diverse fasi dell’attività propria di programmazione sanitaria e di ottimizzare le risorse.
La soppressione della struttura amministrativa a cui era preposta la ricorrente è intervenuta in forza di una disposizione di legge per tali ragioni. Di talchè la censura della ricorrente non impugna adeguatamente la ratio decidendi della sentenza.
Come già chiarito da questa Corte (Cass., n. 3983 del 2023, Cass., n. 24079 del 2021) la risoluzione del rapporto di lavoro si verifica secondo lo schema civilistico della impossibilità sopravvenuta della prestazione, ex articolo 1463 cod. civ.
Si è, in particolare, evidenziato che il conferimento dell’incarico dirigenziale dà luogo a un rapporto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna delle parti trova la sua causa nella prestazione dell’altra e operano i principi generali per cui la sopravvenuta impossibilità assoluta della prestazione importa, con il venir meno della causa del contratto, la risoluzione dello stesso e, di conseguenza, la risoluzione del rapporto.
Peraltro (Cass., n. 5546 del 2020), nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l’art. 2103 7 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico. Né atteso l’effetto devolutivo dell’appello la sentenza d’appello può essere censurata mediante il richiamo del motivo di appello disatteso.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 91, cpc, e dell’art. 332, cpc, in relazione all’art. 360, c.1, n. 3 cpc.
La Corte d’Appello avrebbe illegittimamente condannato l’appellante al pagamento delle spese di giudizio sia nei confronti della Regione Lazio che della ASL. Quest’ultima, tuttavia, era stata solo destinataria della notifica dell’appello non essendo stata svolta alcuna domanda nei suoi confronti, ragione per la quale non poteva ravvisarsi una soccombenza della ricorrente.
3. Il motivo è inammissibile.
Occorre premettere che in tema di spese giudiziali, il sindacato di legittimità è diretto ad evitare che siano addotte ragioni illogiche o erronee a fondamento della decisione di derogare alla regola della soccombenza (Cass., n. 21400 del 2021, n. 26912 del 2020). Nella specie, la sentenza ha applicato il principio della soccombenza.
La ricorrente si limita a dedurre che vi sarebbe stata solo una litis denuntiatio, senza peraltro riprodurre elementi quali l’intestazione e la citazione presenti nell’atto di appello al fine di consentire la verifica di questa Corte della rilevanza stessa della censura prospettata. Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la mancanza di vocatio in ius va verificata alla luce della previsione dell’art. 164, comma 1, cpc., che indica gli elementi della stessa e che è applicabile anche all’atto di appello (Cass., n. 10926 del 2023).
Va inoltre ricordato che l’ingiustificata o comunque non necessaria evocazione in giudizio di un soggetto, anche se non destinatario di alcuna domanda, impone alla parte che l’abbia effettuata, ove sia risultata soccombente, di rimborsare al chiamato le spese processuali sostenute in funzione della costituzione e difesa nel giudizio medesimo, atteso che, ove questi non scelga di restare contumace (assumendo il rischio di provvedimenti pregiudizievoli nei suoi confronti), la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore trova il proprio presupposto nel fatto stesso di essere stato evocato in giudizio, e non già in quello di essersi vista indirizzare una specifica domanda (Cass., n. 36182 del 2022).
4. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
5. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida per ciascun controricorrente in euro 4.400,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro, il giorno 12/09/2024.
Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2024.