REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da
Dott. Vito Di Nicola – Presidente –
Dott. Cinzia Vergine – Consigliere –
Dott. Antonella Di Stasi – Consigliere –
Dott. Giuseppe Noviello – Consigliere –
Dott. Alessandro Maria Andronio – Relatore –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nato a (omissis) (omissis) il xx (omissis) 19xx;
avverso la sentenza del 6 giugno 2024 della Corte di appello di Torino;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Alessandro Maria Andronio;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Marilia Di Nardo, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 6 giugno 2024, la Corte di appello di Torino – rideterminando la pena in anni 2 e mesi 6 di reclusione – ha confermato, quanto alla responsabilità penale, la sentenza del 10 febbraio 2022 del Tribunale di Vercelli, con la quale, riconosciuta la continuazione, (omissis) (omissis) era stato condannato per i seguenti reati:
– Capo A) art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, quale legale rappresentante della società “(omissis) Srls”, esercente il commercio all’ingrosso di minerali metalliferi e metalli ferrosi, al fine di evadere le imposte sui redditi ed in presenza del superamento della prevista soglia di punibilità, ometteva di presentare la relativa dichiarazione, in riferimento all’anno di imposta 2016, conseguendo un’evasione d’imposta ai fini Ires pari ad euro 464.076,53;
– Capo B) art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché quale legale rappresentante della società “(omissis) (omissis) Srls”, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, occultava ovvero distruggeva, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi ovvero del volume di affari, le scritture contabili di pertinenza della ditta, anche in relazione alle fatture, sia attive che passive, reperite in sede di perquisizione presso le ditte di clienti e fornitori;
– Capo C) art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, quale legale rappresentante di fatto della “(omissis) Srls”, esercente il commercio all’ingrosso di rottami, al fine di evadere le imposte sui redditi ed in presenza del superamento della prevista soglia di punibilità, ometteva di presentare la relativa dichiarazione, in riferimento all’anno di imposta 2016, conseguendo un’evasione ai fini Ires pari ad euro 337.985,18;
– Capo D) art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, quale legale rappresentante di fatto della “(omissis) Srls”, esercente il commercio all’ingrosso di rottami, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, occultava ovvero distruggeva, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi ovvero del volume di affari, le scritture contabili di pertinenza della ditta, anche in .relazione alle fatture attive reperite in sede di perquisizione presso le ditte di clienti.
2. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si denunciano vizi della motivazione circa il giudizio di colpevolezza dell’imputato.
Secondo la prospettazione difensiva, la Corte di appello avrebbe ritenuto raggiunta la prova della responsabilità di (omissis) per tutti i reati ascrittigli sulla base dei soli atti acquisiti dalla Guardia di Finanza, omettendo di valorizzare una pluralità di elementi di prova decisivi da cui emergerebbe l’inconsistenza dell’impianto accusatorio.
Inoltre, la ricostruzione dell’imposta evasa dalle due società sarebbe stata effettuata in base ai ricavi presumibilmente conseguiti dalle società nel 2016, omettendo di computare gli eventuali costi sostenuti nel medesimo periodo e considerando, erroneamente, i bonifici e i giroconti effettuati dalla “(omissis) Srls” nei confronti dell’imputato come ricavi e non come costi.
Inoltre, la Corte avrebbe omesso di indicare gli elementi fattuali da cui avrebbe desunto la sussistenza del dolo specifico di evasione in capo all’imputato, errando altresì nel ricondurre i fatti di cui ai capi B) e C) alla fattispecie prevista dall’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 e non a quella di omessa tenuta delle scritture contabili di cui all’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997.
2.2 Con un secondo motivo di ricorso si eccepiscono vizi della motivazione, circa la determinazione della pena e l’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, e violazione di legge, circa la concedibilità del beneficio della sospensione condizionale della pena.
A parere della difesa, la Corte avrebbe omesso di fornire adeguata motivazione circa il discostamento della pena dal minimo edittale e l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite. Quanto al beneficio della sospensione condizionale della pena, la Corte avrebbe basato il proprio giudizio sull’erroneo assunto che l’imputato ne avesse già goduto per due volte.
2.3. La difesa ha depositato conclusioni scritte, con le quali insiste in quanto già dedotto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1 Il primo motivo di censura – relativo al giudizio di colpevolezza dell’imputato.- è inammissibile.
Diversamente da quanto prospettato dalla difesa – la quale erroneamente pone sullo stesso piano la presunzione tributaria, di matrice civilistica, con l’indizio di matrice penalistica di cui all’art. 192 cod. proc. pen – in tema di reati tributari, il giudice penale, pur non essendo vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, può, con adeguata motivazione, apprezzare gli elementi induttivi ivi valorizzati, per trarne elementi probatori, idonei a sorreggere il suo convincimento (ex plurimis, Sez. 3, n. 24225 del 14/03/2023, Rv. 284693; Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017, Rv. 270476).
Nel caso di specie, la Corte offre ampia motivazione in merito alla solidità dell’impianto accusatorio, allegando le fatture rinvenute in sede di perquisizione domiciliare presso l’abitazione dell’imputato e la copiosa documentazione afferente alle due società – tra cui le fatture emesse – rinvenuta presso le ditte clienti.
Inoltre, la verifica della Guardia di Finanza ha consentito di riscontrare i pagamenti effettivamente intercorsi rispetto alle fatture, oltre a movimentazioni in uscita non giustificate, specie per prelievi in contante da parte dell’imputato (pag. 14 del provvedimento).
Emerge chiaramente la manifesta infondatezza di quanto dedotto dalla difesa sul punto, dal momento che le motivazioni addotte dalla Corte in merito si fondano, non su mere presunzioni, ma sulla provata verifica dei fatti di cui sopra.
Quanto alla doglianza circa l’erronea riconduzione del fatto alla fattispecie di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, la Corte territoriale si è adeguatamente pronunciata nel merito, rilevando come il rinvenimento delle fatture renda del tutto ininfluenti le deduzioni difensive sul punto, dal momento che, in tema di reati tributari, poiché la fattura deve essere emessa in duplice esemplare, il rinvenimento di una di essi presso il terzo destinatario dell’atto può far desumere che il mancato rinvenimento dell’altra copia presso l’emittente sia conseguenza della sua distruzione o occultamento (ex plurimis, Sez. 3, n. 3729 del 22/10/2024, dep. 29/01/2025, Rv. 287392; Sez. 3, n. 41683 del 02/03/2018, Rv. 274862).
Pertanto, la circostanza che le fatture siano state consegnate in copia ai clienti fa logicamente ritenere che, nel caso di specie, non ci si trovi dinanzi ad una mera omissione dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili, ma ad un occultamento dei documenti detenuti dalle due società emittenti.
Quanto alla mancata contabilizzazione dei costi, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio secondo cui il giudice, per determinare l’ammontare della imposta evasa, è tenuto ad operare una verifica che, pur non potendo prescindere dai criteri di accertamento dell’imponibile stabiliti dalla legislazione fiscale, soffre delle limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale e dalle regole che lo governano, sicché, nel caso in cui i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorìe siano individuati sulla base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, quali le entrate registrate nella contabilità o nei conti correnti bancari, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza (ex plurimis, Sez. 3, n. 17214 del 14/03/2023, Rv. 284554; Sez. 5, n. 40412 del 13/06/2019, Rv. 277120).
Nel caso di specie, la difesa si è limitata a generiche asserzioni e non ha presentato alcun documento volto a comprovare la circostanza per cui i bonifici e i giroconti effettuati dalla “(omissis) Srls” in favore dell’imputato, nonché i prelievi in contanti di costui, fossero finalizzati al pagamento della merce che la società vendeva ai clienti.
Al contrario, si sono considerati per (omissis) (omissis) anche dei costi, non dichiarati, documentati da fatture sempre rinvenute nel corso dell’attività di indagine per euro 66.700,00 emesse dalla ditta (omissis) (omissis), mentre nessun costo di esercizio è emerso per la (omissis).
Pertanto, come delineato dalla Corte di appello, gli elementi emersi consentono di ritenere raggiunta la prova di superamento della soglia di cui all’art. 5 richiamato, anche in considerazione del fatto che le due società non sono risultate avere alcuna struttura e gestite in una situazione di generalizzata illegalità.
Quanto alla sussistenza del dolo specifico per il reato di evasione – a fronte di mere affermazioni difensive di segno contrario – è sufficiente richiamare la motivazione della sentenza impugnata, la quale correttamente evidenzia come sussistano elementi gravi, precisi e concordanti a carico dell’imputato, considerando non solo le caratteristiche dell’attività delle due società, prive di struttura, operanti per breve tempo e dedite all’evasione totale, ma anche il fatto che la prova della produzione di reddito e del volume di affari risulti dagli accertamenti della Guardia di Finanza.
1.2. Il secondo motivo di ricorso, relativo al trattamento sanzionatorio, è inammissibile.
Quanto all’ammontare della pena, va ricordato che la quantificazione di quest’ultima nell’ambito della cornice edittale rientra nella discrezionalità del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove compiutamente motivata e che, ove la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice ottempera all’obbligo motivazionale di cui all’art. 125, comma terzo, cod. pen., anche ove adoperi solo espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento” (ex plurimis, Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Rv. 276288; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243; Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Rv. 237402).
Nel caso di specie, la Corte di appello ha ridotto in favore dell’imputato la pena base prevista dal Tribunale ad anni due di reclusione, prevedendo un aumento di due mesi per ciascuno dei reati satellite, motivando il discostamente dal minimo edittale a fronte dell’ingente misura delVevasione, pari ad euro 337.985,18 per la (omissis) ed euro 464.076,53 per la (omissis) (omissis).
Quanto ai reati satellite, il giudice di merito, nel calcolare l’incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno di essi, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall’art. 132 cod. pen. (ex multis, Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, Rv. 284005).
Nel caso di specie – come visto – il giudice ha provveduto ad aumentare la pena base di soli due mesi ciascuno per i reati di cui ai capi A), C) e D), così non incorrendo in alcun vizio di motivazione. In merito all’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, considerati i precedenti penali riportati dall’imputato per truffa e per sostituzione di persona, la Corte ha ben evidenziato come non sussistano elementi favorevoli di giudizio, dal momento che anche la produzione di documenti e la collaborazione da parte della difesa non hanno apportato alcun significativo beneficio.
Quanto alla sospensione condizionale della pena, non rileva l’assunto prospettato dalla difesa circa il mancato godimento del medesimo beneficio in altro procedimento, dal momento che la stessa, ai sensi dell’art. 163 cod. pen., non risulterebbe comunque concedibile a fronte della pena applicata.
2. Per questi motivi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 04/02/2025
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2025.