In tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 18 novembre 2020, n. 32413).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Presidente –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere –

Dott. PEZZULLO Rosa – Rel. Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta – Consigliere –

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) ALESSIO nato a (OMISSIS) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 14/01/2019 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa ROSA PEZZULLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo l’inammissibilità;

udito il difensore l’avvocato Cesaroni riportandosi ai motivi di ricorso ne chiede l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14.1.2019 la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del locale Tribunale con la quale (OMISSIS) Alessio, in qualità di amministratore della (OMISSIS) s.r.I., dichiarata fallita in data 3.11.2011, è stato condannato, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’ aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione, per i reati di bancarotta fraudolenta documentale, di cui all’art. 216 co. 1 n. 2 L. Fall., e per aver cagionato, per effetto di operazioni dolose, il fallimento della società ex art. 223 co. 2 n. 2 L. Fall., con un debito erariale di oltre 22 milioni di euro.

2. Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore avv. Luigistelio Becheri, articolando due motivi:

2.1. con il primo motivo deduce la ricorrenza dei vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione agli artt. 216 co. 1 n. 2 e 223 co. 2 L. Fall., difettando l’elemento soggettivo dei reati contestati, fondandosi la condanna dell’imputato esclusivamente sulla carica formale rivestita, insufficiente per l’affermazione di penale responsabilità; in particolare, censura l’affermazione della Corte d’appello relativa alla sussistenza di un compenso per l’accettazione della carica, desunta dai giudici di merito in termini meramente congetturali e, comunque, non potrebbe desumersi la partecipazione psicologica dell’imputato ai fatti di cui in imputazione, tenuto conto del titolo di studio posseduto (riconducibile ad un diploma di terza elementare ed allo svolgimento di lavori manuali), nonché delle caratteristiche della società, quale “cartiera”, solo apparentemente attiva, strumentalizzata nell’ambito di cd. frodi carosello; l’imputato è stato del tutto estraneo alle attività gestorie della società che, invece, facevano capo all’amministratore di fatto;

2.2. con il secondo motivo, deduce la ricorrenza del vizio di violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sull’aggravante, alla luce del ruolo ricoperto nella vicenda dall’imputato, inconsapevole delle conseguenze del ruolo rivestito.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso va respinto, siccome privo di fondamento.

1. Con il primo motivo di ricorso la difesa ripropone in sostanza censure già sviluppate in appello riconducibili all’assenza dell’elemento psicologico dei reati in contestazione, rivestendo l’imputato il ruolo di amministratore di diritto della società fallita solo in via formale.

Le deduzioni svolte, oltre che meramente reiterative, sono infondate nei termini di cui si dirà, e non ravvisandosi vizi rilevanti nel percorso logico-argomentativo dei giudici di appello, che hanno ricavato la consapevolezza dell’imputato del ruolo svolto e dell’attività illecita della società da precisi elementi, idonei al fine di dimostrare l’elemento psicologico in capo allo stesso.

1.1. All’uopo va premesso che i giudici d’appello hanno fatto corretta applicazione dei principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo svolga attività illecita, la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore; tuttavia, allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale (arg. ex Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015, Rv. 262767).

Specificamente, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, poi, l’amministratore di diritto risponde di tale reato, anche se sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società fallita (cosiddetta testa di legno), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell’ amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754).

Inoltre, in tema di bancarotta fraudolenta, per integrare il dolo dell’amministratore di diritto è sufficiente la generica consapevolezza che l’amministratore di fatto compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l’elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale (arg. ex Cass. n. 38712/2008 e Sez. 5, Sentenza n. 17670 del 2011).

1.2. Tanto premesso deve rilevarsi come sia il giudice di primo grado- all’esito del giudizio abbreviato- che i giudici d’appello abbiano ricavato la consapevolezza da parte dell’imputato dell’attività illecita svolta dalla società ed, in particolare, dall’amministratore di fatto, non dal ruolo formale rivestito dall’imputato, bensì dalle dichiarazioni da lui stesso rese al curatore circa l’elevato fatturato della società (OMISSIS), la quale, a fronte della sistematica sottrazione agli oneri fiscali, è stata condotta al completo depauperamento e conseguentemente al fallimento.

Sulla piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’amministratore della società è sufficiente richiamare l’indirizzo di questa Corte, secondo cui le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, in quanto il curatore non rientra tra dette categorie di soggetti e la sua attività non è riconducibile alla previsione di cui all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. che concerne le attività ispettive e di vigilanza (Sez. 5, n. 12338 del 30/11/2017, Rv. 272664).

Sulla base, dunque, delle dichiarazioni suddette si ricava -come rilevato dai giudici di merito senza illogicità-che l’imputato non era all’oscuro delle vicende societarie, ma pienamente consapevole di esse, anche laddove ha affermato che la società non aveva un magazzino e che egli conosceva il soggetto che gestiva la contabilità e quantificava il fatturato.

Tale consapevolezza appare pienamente sufficiente ad integrare nei confronti dell’imputato l’elemento psicologico, ossia il dolo generico, dei reati in contestazione (fattispecie della tenuta delle scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, nonché fattispecie del fallimento conseguente ad operazioni dolose).

1.3. Può dunque affermarsi che ove l’imputato, amministratore formale di una società, dimostri di avere contezza – sia pure non nei dettagli – delle attività illecite compiute tramite l’amministratore di fatto dalla società da lui gestita, rivelando al curatore, come nella fattispecie, notizie all’uopo significative, deve ritenersi integrato il dolo generico necessario per la configurabilità dei reati fallimentari a lui ascritti, richiedenti appunto tale elemento psicologico.

1.4. In merito, poi, alla percezione di un compenso da parte dell’imputato per l’attività di amministratore svolta, tale evenienza è stata addotta dalla Corte territoriale in termini di verosimiglianza, e, comunque, non è argomentazione concretamente significativa rispetto a quanto evidenziato in relazione all’elemento psicologico.

2. Manifestamente infondato si presenta il secondo motivo di ricorso circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti.

Ed invero, non merita alcuna censura la valutazione della Corte territoriale che ha ritenuto adeguato l’operato giudizio di equivalenza del primo giudice, specie in considerazione del rilevante passivo (oltre 22 milioni di euro) accumulato dalla società.

Sul punto è sufficiente richiamare i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui in tema di concorso di circostanze, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza. (Sez. 5, n.5579 del 26/09/2013, Rv. 258874).

3. In definitiva il ricorso va respinto ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 24.9.2020.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.