La commissione che i concessionari incaricati per la riscossione pagano a Poste Italiane S.p.a. per l’apertura dei conti non costituisce aiuto di Stato (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 30 settembre 2021, n. 26611).

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

SEZIONE TERZA CIVILE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. SCODITTI Enrico – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25016-2016 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA 97103880585, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) 3, presso lo studio dell’avvocato VITO (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA 13756881002, elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA (OMISSIS) 12, presso lo studio dell’avvocato ALFONSO MARIA (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonché sul ricorso proposto da:

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA 13756881002, elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA (OMISSIS) 12, presso lo studio dell’avvocato ALFONSO MARIA (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA 97103880585, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) 3, presso lo studio dell’avvocato VITO (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3677/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/06/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 26 gennaio 2007 Poste Italiane s.p.a. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Milano Esatri- Esazione Tributi s.p.a. quale Concessionario del servizio riscossione dell’ICI per le Province di Milano, Brescia, Lodi, Pavia e Varese chiedendo l’accertamento del diritto ad applicare una commissione per ciascun versamento effettuato con bollettino postale ICI sui conti correnti postali intestati alla convenuta, con declaratoria dell’entità della predetta commissione nella misura per ciascun bollettino di Euro 0,05 dal 1° aprile 1997, di Euro 0,23 dal 10 giugno 2001 e dal gennaio 2004 in poi nella misura tempo per tempo vigente in base ai Documenti di Sintesi succedutisi, salva comunque la via equitativa, e la condanna al pagamento della predetta commissione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; chiese in via subordinata la condanna al pagamento dell’indennizzo, nell’identica misura, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ..

Si costituì la convenuta proponendo domanda riconvenzionale di condanna generica al risarcimento per abuso di posizione dominante ai sensi degli artt. 3 e 8 legge n. 287 del 1990.

Il Tribunale adito, in parziale accoglimento della domanda, dichiarò che l’attrice aveva diritto ad applicare la commissione pari ad Euro 0,23 dal 10 giugno 2011 e dal gennaio 2004 in poi nella misura tempo per tempo vigente in base ai Documenti di Sintesi succedutisi e dichiarò l’incompetenza per materia in ordine alla domanda riconvenzionale.

Avverso detta sentenza proposero appello principale Equitalia Esatri s.p.a. ed appello incidentale Poste Italiane.

Con sentenza di data 25 settembre 2015 la Corte d’appello di Milano rigettò l’appello principale ed accolse parzialmente quello incidentale, accertando il diritto di Poste Italiane ad ottenere la condanna di Equitalia al pagamento della commissione nella misura di Euro 0,05 per il periodo 10 aprile 1997-31 maggio 2001.

Osservò la corte territoriale che in base all’art. 10, comma 2, d. Igs. n. 504 del 1992 era in facoltà del contribuente versare l’imposta comunale sugli immobili mediante versamento diretto al concessionario della riscossione oppure su apposito conto corrente postale intestato al predetto concessionario, il quale era così obbligato all’apertura del conto, e che in base all’art. 18, comma 2, legge n. 662 del 1996, come affermato da Cass. sez. U. n. 7169 del 2014, Poste Italiane poteva stabilire commissioni a carico dei correntisti postali.

Precisò che se era vero che il concessionario era obbligato all’accensione del conto, l’ente postale non poteva rifiutarsi di adempiere a tale richiesta, la sussistenza di un rapporto monopolista tra ente e concessionario comportando esclusivamente la contrattazione in condizioni di parità, ma non certamente la gratuità della prestazione.

Aggiunse che la nota del 26 marzo 1997 di Poste Italiane, con cui facendo seguito alla lettera di Ascotributi dell’11 marzo 1997 si provvedeva «all’immediato inserimento dei conti di cui trattasi tra quelli esenti», non aveva alcuna efficacia vincolante «essendo stata sottoscritta da un dirigente della società e non dal legale rappresentante della stessa» e che era errato il richiamo all’art. 118 TUB in quanto derogato dall’art. 3, comma 2, d.P.R. n. 144 del 2001 il quale, non richiamando tale disposizione ma limitandosi a fare «salve le disposizioni del CICR emanate ai sensi dell’art. 118 testo unico bancario», disponeva poi la comunicazione ai clienti delle unilaterali variazioni sfavorevoli mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ed avviso ai correntisti, adempimenti eseguiti con la lettera del 27 marzo 2001 e la pubblicazione.

Osservò ancora che con riferimento al periodo 1° aprile 1997-31 maggio 2001 sussisteva la delibera n. 57 del 1999 del Consiglio di amministrazione dell’Ente Poste, con cui si stabiliva la misura della commissione a carico del correntista per ogni bollettino lavorato; e che in base alla comunicazione di Ascotributi dell’11 marzo 1997 a Ente Poste Italiane (“richiesta di esenzione per c/c intestati ai concessionari della riscossione”), avente ad oggetto la delibera, risultava che l’appellante principale fosse stata posta a conoscenza di tale pubblicazione (peraltro la normativa vigente non prevedeva alcun obbligo di comunicazione ai correntisti, né tanto meno la necessità di un apposito accordo circa l’applicazione di commissioni).

Aggiunse che nessuna rilevanza assumeva la circostanza che Poste Italiane fino al 2006 non avesse applicato alcuna commissione, in quanto a fronte delle chiare disposizioni di legge e delle comunicazioni inviate da Poste Italiane a Equitalia era evidente la volontà della prima di non voler riconoscere alla seconda alcun diritto all’esenzione dalle commissioni e che era stata provata l’esistenza di fogli informativi analitici delle condizioni standard applicate alle clientela, che il cliente aveva dichiarato di avere ricevuto, con richiamo nei contratti ai predetti fogli.

Osservò infine, con riferimento all’affermazione del Tribunale secondo cui in difetto di prova riguardo al numero e alla data dei singoli versamenti la domanda con cui era stato chiesto condannarsi genericamente la convenuta al pagamento della commissione non era accoglibile, che il motivo di appello avente ad oggetto la mancata adozione di una condanna generica (per la quale, secondo il motivo, non era necessaria la prova del numero e la data dei bollettini lavorati) era inammissibile perché in sede di conclusioni dell’appello incidentale, e successivamente all’udienza del 17 marzo 2015, non era stata svolta alcuna specifica domanda di condanna generica al pagamento delle commissioni per il periodo accertato in sentenza (mentre era stata espressamente limitata tale domanda al periodo 10 aprile 1997-31 maggio 2001).

Ha proposto ricorso per cassazione Poste Italiane s.p.a. sulla base di cinque motivi e resiste con controricorso la parte intimata.

Successivamente ha proposto ricorso per cassazione Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a. sulla base di cinque motivi e resiste con controricorso la parte intimata.

E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ..

E’ stata presentata memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Previa riunione delle impugnazioni e muovendo dal ricorso proposto da Poste Italiane s.p.a., con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., ed in subordine degli artt. 1362, 1363 e 1364 cod. civ., 306 e 329 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la parte ricorrente che, benché non nuovamente ribadita nelle conclusioni dell’appello incidentale, l’istanza di condanna generica anche per il periodo riconosciuto dal Tribunale era stata espressamente formulata nel corpo dell’atto di appello, risultando anche nelle successive difese.

Con il secondo motivo si denuncia in subordine omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

Osserva il ricorrente che sotto il profilo del vizio motivazionale era stato omesso l’esame dell’istanza di condanna generica nell’appello incidentale.

Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 278 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che nell’originario atto di citazione, dopo che era stato invocato l’accertamento del diritto ad applicare la commissione, nel punto 3) delle conclusioni era stata proposta domanda di condanna in senso chiaramente generico e cioè «al pagamento della predetta commissione nella misura e decorrenza accertata e/o ritenuta per ciascun bollettino», non richiedendosi quindi uno specifico importo complessivo, bensì una condanna (generica) al pagamento di una commissione unitaria per ciascun bollettino.

I motivi dal primo al terzo, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili.

Deve premettersi che, nel regime delle preclusioni introdotte con la I. n. 353 del 1990, è inammissibile il mutamento di una domanda di condanna specifica in domanda di condanna generica, a nulla rilevando che il convenuto vi abbia prestato acquiescenza; pertanto il giudice, in ossequio al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deve liquidare il danno in base agli elementi acquisiti al processo oppure deve rigettare la domanda per difetto di prova, restando altresì esclusa la possibilità di procedere a liquidazione equitativa, che è consentita solo ove il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare e non anche allorché manchi la prova della sua entità (Cass. 9 agosto 2017, n. 19893; 14 febbraio 2014, n. 3437).

La domanda formulata con l’originario atto di citazione, come condivisibilmente ritenuto dal Tribunale (che ha adoperato il termine “genericamente” non nel senso della condanna generica in senso tecnico, ma per il riferimento al pagamento della commissione senza indicazione di uno specifico importo), è una domanda di condanna specifica.

Nel punto 3) del petitum di primo grado, come esposto dalla stessa ricorrente, vi è una espressa istanza di condanna al pagamento della commissione «nella misura e decorrenza accertata e/o ritenuta per ciascun bollettino con le maggiorazioni di interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data di ciascuna operazione ovvero dalla richiesta ovvero, in ulteriore subordine, dalla domanda».

A fronte di tale domanda di condanna specifica, in violazione dell’art. 366 comma 1, n. 6 cod. proc. civ. la ricorrente non ha specificatamente indicato se, entro lo sbarramento delle preclusioni di cui all’art. 183 cod. proc. civ., la domanda di condanna sia stata modificata da generica in specifica.

In mancanza dell’assolvimento di tale onere processuale non è possibile scrutinare la censura relativa all’interpretazione dell’appello incidentale, da parte della corte territoriale, come non contenente una domanda di condanna generica, posto che la mancanza di una tempestiva e rituale modifica della domanda, nei sensi indicati, renderebbe inammissibile il motivo.

Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che il dispositivo di accoglimento della sentenza di appello è interpretabile come pronuncia di condanna generica e che ove fosse interpretabile in senso diverso la pronuncia è da cassare in quanto omessa pronuncia in ordine alla domanda di condanna generica.

Il motivo è inammissibile.

E’ inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso per Cassazione diretto ad ottenere una decisione su questioni meramente ipotetiche, senza che siano investite specifiche statuizioni della sentenza impugnata (Cass. 19 marzo 2008, n. 7394).

Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 2041 e 2042 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che la corte territoriale, invece di dichiarare l’assorbimento, avrebbe dovuto pronunciare in ordine alla domanda di ingiustificato arricchimento.

Il motivo è infondato.

La pronuncia di assorbimento da parte della corte territoriale è corretta, in quanto la domanda relativa al rapporto giuridico che legava le parti del giudizio era stata accolta con riferimento al diritto dedotto in giudizio, sicché non poteva venire in rilievo l’istanza di ingiustificato arricchimento proposta in via subordinata.

Né il nesso di subordinazione è evincibile quanto al rapporto fra asserita istanza di condanna generica e domanda ai sensi dell’art. 2041 cod. civ. facendo chiaramente riferimento il detto nesso alla vicenda sostanziale e non al rimedio processuale.

Passando al ricorso proposto da Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a., con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2033, 1362 e 1366 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che, in base alla nota del 26 marzo 19971, il rapporto fra le parti era stato stabilito come gratuito e che Equitalia aveva fatto affidamento su tale lettera ed il successivo conforme comportamento di Poste, la quale per gli anni dal 1997 al 2001 aveva dato mostra di aderire a tale configurazione del rapporto senza pretendere di applicare alcuna commissione e non applicandola di fatto fino alla fine del 2006.

Aggiunge che Poste, successivamente all’entrata in vigore della disciplina che l’avrebbe abilitata all’applicazione delle commissioni in questione, vi ha rinunciato con la citata lettera.

Il motivo è inammissibile.

Il giudice di merito ha affermato che la nota del 26 marzo 1997 di Poste Italiane, con cui facendo seguito alla lettera di Ascotributi dell’il marzo 1997 si provvedeva «all’immediato inserimento dei conti di cui trattasi tra quelli esenti», non ha alcuna efficacia vincolante «essendo stata sottoscritta da un dirigente della società e non dal legale rappresentante della stessa».

La censura per una parte non attinge la ratio decidendi, e pertanto difetta di decisività, perché non aggredisce il rilievo che la nota non risaliva al legale rappresentante, per l’altro introduce una circostanza di fatto, quale il non aver preteso di applicare la commissione ed il conseguente affidamento che sarebbe stato riposto dalla controparte, non accertata dal giudice di merito e non accertabile quindi nella presente sede di legittimità, da cui la non scrutinabilità del motivo quanto ad eventuali effetti giuridici della detta circostanza fattuale.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2597 cod. civ., 2, commi 18 e 20, legge n. 662 del 1996, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che il giudice di appello non ha accertato se Poste abbia rispettato la parità di trattamento fra i diversi correntisti e che in realtà Poste non ha tenuto conto della caratteristiche del servizio e del volume di traffico realizzato (cfr. art. 2, comma 20, legge n. 662 del 1996), imponendo in modo unilaterale le proprie condizioni senza rispettare quelle che la legge imponeva di verificare.

Il motivo è inammissibile.

Con riferimento alla domanda accolta in primo grado la ricorrente, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., non ha specificatamente indicato se la questione oggetto di censura abbia costituito motivo di appello.

Quanto alla domanda accolta in secondo grado la censura verte su presupposti di fatto non accertati dal giudice di merito.

Lo scrutinio del motivo comporterebbe pertanto un’indagine di merito preclusa nella presente sede di legittimità.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3 e 13 d.P.R. n. 144 del 2001 e 118 d. lgs. n. 385 del 1993, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che l’art. 3, comma 2, d.P.R. n. 144 del 2001 si applica alle variazioni unilaterali delle condizioni contrattuali, mentre nel caso di specie si tratta di introduzione ex novo di una commissione, pacificamente esclusa in precedenza in quanto, come riconosciuto anche da poste con la lettera del 26 marzo 1997, prima della c.d. privatizzazione di Poste il conto corrente in questione non era soggetto ad alcuna commissione.

Aggiunge che Poste è in ogni caso tenuta al rispetto delle norme sulla trasparenza bancaria, tra cui l’art. 118 TUB che in base a tale norma lo jus variandi è ammesso solo a fronte del diritto del cliente a recedere, ma, poiché l’agente della riscossione non può recedere dal contratto pena l’interruzione di un pubblico servizio, non può lo stesso essere soggetto allo jus variandi.

Il motivo è inammissibile.

La censura si basa su due submotivi.

Quanto al primo submotivo, esso presuppone l’efficacia della lettera del 26 marzo 1997, che la decisione di merito ha escluso.

La permanenza di quest’ultima ratio decidendi, alla luce dell’inammissibilità del primo motivo, rende priva di decisività la censura.

Il secondo submotivo è inammissibile per mancato conseguimento dello scopo della critica della sentenza.

La censura non appare comprensibile perché per un verso si afferma che «Poste è in ogni caso vincolata alle norme sulla trasparenza bancaria tra cui l’art. 118 TUB», per l’altro si dice che in base al detto art. 118 lo ius variandi è ammesso solo a fronte del diritto del cliente di recedere dal contratto, ma, posto che l’agente della riscossione non può recedere dal contratto pena l’interruzione di un pubblico servizio (impedendo ai contribuenti di pagare l’ICI mediante bollettino postale), non potrebbe costui essere soggetto allo jus variandi.

Invocando ed escludendo ad un tempo l’applicabilità dell’art. 118 sulla modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, non si comprende se la ricorrente denunci la mancata applicazione dell’art. 118, come sembrerebbe dall’esordio della censura.

In ogni caso va rammentato che nel conto corrente postale in corso, aperto dai concessionari della riscossione ai fini del versamento dell’ICI da parte dei contribuenti secondo il disposto dell’art. 10 del d.lgs. n. 504 del 1992, le Poste Italiane hanno la facoltà, ai sensi dell’art. 2, comma 18, della I. n. 662 del 1996, di stabilire il pagamento di commissioni a carico dei correntisti, purché ne diano comunicazione con le forme previste dall’ordinamento, le quali, a decorrere dalla entrata in vigore del d.P.R. n. 144 del 2001, consistono in quelle previste dall’art. 3, comma 2, del medesimo decreto, e dunque – prima della modifica di tale disposizione ad opera dell’art. 24-bis del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 221 del 2012 – nella pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e nell’invio di avviso ai correntisti (Cass. 21 febbraio 2017, n. 4408), adempimenti che nella specie il giudice di merito ha accertato essere stati eseguiti.

Con il quarto motivo si denuncia in via subordinata violazione e falsa applicazione degli artt. 10 d. Igs. n. 504 del 1992, 2, commi 18, 19 e 20 legge n. 662 del 1996, 1, 3 e 13 d.P.R. n. 144 del 2001, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché violazione degli artt. 107 e 108 TFUE.

Osserva la ricorrente che la commissione obbligatoria richiesta da Poste costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 TFUE e che tale misura doveva essere comunicata alla Commissione.

Aggiunge che il giudice nazionale deve disapplicare le norme interne in contrasto con il diritto comunitario, stante l’efficacia diretta riconosciuta al divieto di dare esecuzione all’aiuto.

Osserva ancora in subordine che il comportamento di Poste di richiesta di pagamento di una commissione, priva di ancoraggio a parametri oggettivi, per ogni versamento effettuato sui conti correnti postali obbligatoriamente aperti dai concessionari della riscossione configura abuso di posizione dominante vietato dall’art. 102 lett. a) TFUE.

Il motivo è infondato.

Va premesso che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che il concessionario della riscossione dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) è tenuto a pagare a Poste Italiane s.p.a. un corrispettivo per l’accensione e la tenuta del conto corrente sul quale i contribuenti possono versare l’imposta, atteso che, pur essendo il concessionario obbligato ad aprire tale conto, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e pur operando, quindi, Poste Italiane in regime di monopolio legale, ai sensi dell’art. 2597 cod. civ., nessuna disposizione afferma la gratuità del servizio (Cass. Sez. U. 26 marzo 2014, n. 7169).

Sulla questione è intervenuta in altra causa pronuncia in via pregiudiziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

L’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di giustizia ha efficacia “ultra partes“, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali che emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito della Comunità (fra le tante, da ultimo, Cass. 3 marzo 2017, n. 5381).

Corte giust. 3 marzo 2021, nelle cause riunite C-434/2019 e C- 435/19, ha affermato che l’articolo 107 TFUE deve essere interpretato nel senso che costituisce un “aiuto di Stato”, ai sensi di detta disposizione, la misura nazionale con la quale i concessionari incaricati della riscossione dell’imposta comunale sugli immobili sono tenuti a disporre di un conto corrente aperto a loro nome presso Poste Italiane SpA per consentire il versamento di detta imposta da parte dei contribuenti e a pagare una commissione per la gestione di detto conto corrente, a condizione che tale misura sia imputabile allo Stato, procuri un vantaggio selettivo a Poste Italiane mediante risorse statali e sia tale da falsare la concorrenza e gli scambi tra gli Stati membri, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare.

In via assorbente rispetto all’apprezzamento della sussistenza delle altre condizioni elencate dalla Corte di giustizia, manca secondo questa Corte, ai fini dell’integrazione dell’aiuto di Stato, la condizione dell’acquisizione del servizio da parte del concessionario mediante non risorse finanziarie proprie, ma mediante risorse statali.

L’acquisizione mediante risorse statali si verificherebbe nell’ipotesi di esistenza di un meccanismo di compensazione integrale dei costi aggiuntivi risultanti dall’obbligo di disporre di un conto corrente aperto presso Poste Italiane.

Per risorse statali si intendono, come precisa il giudice unionale, «tutti gli strumenti pecuniari di cui le autorità pubbliche possono effettivamente servirsi per sostenere imprese, a prescindere dal fatto che tali strumenti appartengano o meno permanentemente al patrimonio dello Stato».

La Corte di giustizia dubita dell’esistenza del meccanismo di compensazione in discorso.

Al riguardo va richiamato il passaggio rilevante della decisione: «50. Certamente, dalle ordinanze di rinvio emerge che, in forza dell’articolo 10, comma 3, del decreto legislativo n. 504/1992, i comuni impositori hanno l’obbligo di pagare una commissione ai concessionari per l’attività di riscossione dell’ICI da loro assicurata.

Tuttavia, se è vero che tali somme sono palesemente di origine pubblica, nulla indica che esse siano destinate a compensare i costi aggiuntivi che possono risultare, per i concessionari, dal loro obbligo di disporre di un conto corrente aperto presso Poste Italiane e che lo Stato garantisca in tal modo la copertura integrale di tali costi aggiuntivi. Spetta al giudice del rinvio appurare una tale circostanza. 51.

Occorre inoltre rilevare che né dalle ordinanze di rinvio né dal fascicolo di cui dispone la Corte emerge che l’eventuale costo aggiuntivo generato dall’obbligo di acquisizione di servizi presso Poste Italiane, di cui trattasi nei procedimenti principali, debba essere integralmente sopportato dai contribuenti o che sia finanziato da un altro tipo di contributo obbligatorio imposto dallo Stato. 52.

Ciò posto, anche se non sembra, prima facie, che le commissioni versate dai concessionari a Poste Italiane, in relazione all’apertura e alla gestione dei conti correnti che essi sono tenuti a possedere presso Poste Italiane, possano essere considerate concesse direttamente o indirettamente mediante risorse statali, spetta al giudice del rinvio verificare tale circostanza, non potendo la Corte effettuare un esame diretto dei fatti relativi alle controversie oggetto dei procedimenti principali».

La commissione che i comuni impositori hanno l’obbligo di pagare ai concessionari per l’attività di riscossione dell’ICI non è destinata a compensare i costi aggiuntivi derivanti, per i concessionari, dall’obbligo di disporre di un conto corrente postale perché la commissione è corrisposta anche per il caso di versamento diretto dell’imposta da parte del contribuente al concessionario.

Va rammentato che l’art. 10, comma 3, d. Igs. n. 504 del 1992 prevede quanto segue: «L’imposta dovuta ai sensi del comma 2 deve essere corrisposta mediante versamento diretto al concessionario della riscossione nella cui circoscrizione è compreso il comune di cui all’articolo 4 ovvero su apposito conto corrente postale intestato al predetto concessionario, con arrotondamento a mille lire per difetto se la frazione non è superiore a 500 lire o per eccesso se è superiore; al fine di agevolare il pagamento, il concessionario invia, per gli anni successivi al 1993, ai contribuenti moduli prestampati per il versamento.

La commissione spettante al concessionario è a carico del comune impositore ed è stabilita nella misura dell’uno per cento delle somme riscosse, con un minimo di euro 1,81 ed un massimo di euro 51,65 per ogni versamento effettuato dal contribuente».

Come si evince chiaramente dalla disposizione citata, la commissione grava sul Comune in misura percentuale sulle somme riscosse, indipendentemente dalle modalità di riscossione, e dunque anche nel caso di versamento diretto al concessionario.

Trattasi quindi di commissione che già sul piano normativo è configurata in modo indipendente dal costo risultante dall’obbligo di disporre di un conto corrente.

In linea ipotetica potrebbe in concreto verificarsi una riscossione esclusivamente mediante versamento diretto, e ciò nondimeno permarrebbe l’obbligo di pagamento al concessionario della commissione.

Trattasi pertanto di commissione che sul piano finanziario esula del tutto dai costi sopportati per la tenuta del conto corrente postale.

Né ai fini dell’integrazione dell’aiuto di Stato può farsi riferimento alla disciplina richiamata da Equitalia Servizi di Riscossione nella memoria ai sensi dell’art. 37- 1- ossia gli artt. 61, comma 3, d.P.R. n. 43 del 1988, 17, comma 1, e 58, comma 2, d. Igs. n. 112 del 1999.

Trattasi della disciplina dei compensi e rimborsi spese spettanti al concessionario del servizio di riscossione dei tributi in modo indifferenziato per tutta l’attività di riscossione senza che possa essere identificabile il nesso di specifica destinazione alla compensazione dei costi aggiuntivi per la riscossione dell’ICI.

Il resto del motivo, vertente sulla denuncia di abuso di posizione dominante vietato dall’art. 102 lett. a) TFUE, è inammissibile per la presenza di giudicato interno in ordine alla dichiarazione del Tribunale di incompetenza sulla domanda riconvenzionale, avente ad oggetto la condanna generica al risarcimento per abuso di posizione dominante.

Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “non costituisce “aiuto di Stato” ai sensi dell’articolo 107 TFUE la misura nazionale con la quale i concessionari incaricati della riscossione dell’imposta comunale sugli immobili sono tenuti a disporre di un conto corrente aperto a loro nome presso Poste Italiane s.p.a., per consentire il versamento di detta imposta da parte dei contribuenti, e a pagare una commissione per la gestione di detto conto corrente, perché la commissione che i comuni impositori hanno l’obbligo di pagare ai concessionari per l’attività di riscossione dell’ICI da loro assicurata non è destinata a compensare i costi aggiuntivi che i concessionari sono tenuti a sopportare per l’obbligo di disporre del conto corrente presso Poste Italiane”.

Con il quinto motivo si denuncia in via subordinata violazione e falsa applicazione degli artt. 10 d. Igs. n. 504 del 1992, 2, commi 18, 19 e 20 legge n. 662 del 1996, 3 d.P.R. n. 144 del 2001, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché l’illegittimità costituzionale del combinato disposto di tali norme per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, nonché 3 e 41 Cost..

Osserva la ricorrente che ove si intenda il diritto sovranazionale non dotato di effetto diretto si impone l’instaurazione dell’incidente di costituzionalità per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. in riferimento agli artt. 102, 106, 107 e 108 TFUE e che, anche a voler prescindere dalla violazione delle dette disposizioni costituzionali, la costrizione del concessionario, obbligato per legge a stipulare un contratto di conto corrente postale, a subire le incondizionate determinazioni di quest’ultima è in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost. e che ad essere in violazione dell’art. 3 Cost. è anche il potere di determinare unilateralmente l’imposizione di una controprestazione anche sotto il profilo del mancato rispetto della parità di condizioni, a parità “di volumi trattati” e di “categorie di clienti”, per avere Poste trattato il concessionario alla stregua di un qualsiasi correntista, senza tener conto delle caratteristiche del rapporto e dei volumi di traffici realizzati.

Aggiunge che mentre un comune correntista può convenire condizioni più favorevoli in ragione dei propri volumi di traffico, al concessionario è impedito dal fatto che non ha possibilità di scelta di apertura del conto.

Il sollevato dubbio di costituzionalità è privo di pregio.

In primo luogo, quanto alla denunciata violazione degli artt. 11 e 117 Cost., la rilevata assenza dell’aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 107 TFUE, in disparte la questione della diretta efficacia del divieto di dare esecuzione all’aiuto, determina la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità.

Con riferimento alla violazione degli ulteriori parametri costituzionali (artt. 3 e 41 Cost.), va evidenziato che per un verso, la questione di legittimità costituzionale non è rilevante per la definizione del giudizio perché muove da un presupposto di fatto, l’avere Poste Italiane trattato il concessionario senza tener conto delle caratteristiche del rapporto e dei volumi di traffici realizzati, non accertato dal giudice di merito, per l’altro è manifestamente infondata, avuto riguardo alla scelta discrezionale del legislatore circa le modalità di versamento dell’imposta da parte dei contribuenti.

La soccombenza di entrambi le ricorrenti determina la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso proposto da Poste Italiane s.p.a. e quello proposto da Equitalia Servizi di Riscossione s.p.a..

Compensa integralmente le spese processuali.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

Così deciso in Roma il giorno 16 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.