Maresciallo della Guardia di Finanza, oltre alla condanna per concussione, subiva la degradazione (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 30 ottobre 2019, n. 44369).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Presidente –

Dott. TRONCI Andrea – rel. Consigliere –

Dott. MOGINI Stefano – Consigliere –

Dott. BASSI Alessandra – Consigliere –

Dott. ROSATI Martino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.M., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 21/02/2018 della CORTE d’APPELLO di REGGIO CALABRIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso, sentita la relazione svolta dal consigliere Dott. Andrea Tronci;

sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Romano Giulio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

sentito il difensore, Avv. Antonio Salvatore Scordo, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Il difensore di fiducia di C.M., all’epoca dei fatti Luogotenente in servizio presso il Nucleo di Polizia Tributaria della G.d.F. di (OMISSIS), impugna tempestivamente la sentenza indicata in epigrafe, con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la statuizione di condanna emessa dal Tribunale dello stesso capoluogo, pur qualificando ai sensi dell’art. 319 quater c.p. – per quanto qui interessa – i fatti di cui ai capi b) e c) della rubrica, ricondotti dal primo giudice all’originaria contestazione di concussione, ed ha per l’effetto rideterminato in anni sei di reclusione la pena a carico dell’imputato, cui applicava altresì la pena militare accessoria della degradazione.

Tanto per avere, in concorso con altro militare separatamente giudicato – id est il maresciallo P.A. – abusando della qualità e dei poteri loro propri, indotto G.G. dapprima a dar loro indebitamente Euro 10.000,00 (capo b)), quindi a promettere l’altrettanto indebita corresponsione dell’ulteriore somma di Euro 20.000,00/30.000,00 (capo c)), in entrambi i casi prefigurando, “dopo avere effettuato – nella qualità sopra descritta – controlli sulla attività commerciale gestita dalla p. o. (…) la possibilità di regolarizzare la posizione tributaria/fiscale” mediante la consegna degli importi sopra indicati, laddove, “in caso di rifiuto, avrebbero concluso la verifica in termini assai pregiudizievoli”.

2. Deduce il legale ricorrente i motivi di doglianza di seguito sintetizzati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1 Violazione di legge e vizio di motivazione, sotto forma di illogicità e travisamento della prova: premesso fondarsi la contestata decisione sulle “dichiarazioni della presunta persona offesa (…), corroborate dalla conversazione tra presenti captata alle ore 19.02 del 17.09.2008”, la Corte distrettuale avrebbe illegittimamente utilizzato il contenuto di detta conversazione, pur in difetto di apposito decreto di autorizzazione ovvero comunque di un provvedimento di proroga del decreto inizialmente adottato, l’uno o l’altro reso necessario dal “verbale di fine ascolto ed attivazione” redatto in data 4 agosto 2008, di cui sarebbe stato travisato il chiaro significato, ritenendolo riferito alle sole intercettazioni disposte all’interno di tre vetture, laddove lo stesso è esplicito nel significare la chiusura delle operazioni anche in rapporto alle conversazioni “da captare mediante sistema di intercettazione audio collocato sulla persona del G.”.

Del che darebbe ulteriore conferma la circostanza, di cui lo stesso giudice d’appello dà atto, relativa all’avvenuta effettuazione delle “prove voce” sulla persona del menzionato G., da ritenersi appunto indicativa dell’avvenuto inizio anche della specifica attività di captazione che qui rileva, che, diversamente opinando, potrebbe essere dilatata a dismisura, “fino a quando l’autorità procedente non ritiene di ricavare elementi utili per le indagini”; come pure l’assenza in atti, con riferimento all’intercettazione fra presenti di cui trattasi, di altri verbali, ad eccezione di quello di fine operazioni del 4 agosto 2008, di cui si è detto in precedenza.

2.2 Violazione di legge ed illogicità della motivazione, “in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 3 e art. 210 c.p.p. ed art. 319 quater c.p.”: ferma, sul piano sostanziale, l’inapplicabilità alla persona offesa delle disposizioni penalmente rilevanti introdotte dalla L. n. 190 del 2012, collocandosi la vicenda per cui è processo in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge testè citata, nondimeno, dal punto di vista processuale, l’astratta rilevanza penale della condotta del G., contemplata dall’ultimo comma del succitato articolo del codice penale, comporterebbe l’applicazione del disposto dell’art. 192 c.p.p., comma 3, con conseguente necessità di riscontri – nella fattispecie assenti, per quanto detto in precedenza – perchè le ricordate dichiarazioni del G. possano assurgere al rango di prova.

2.3 “Motivazione illogica e travisamento della prova, in relazione all’art. 319 quater c.p.”, costituiscono oggetto del terzo profilo di doglianza: nessuna indebita coazione sarebbe stata esercitata nei confronti del più volte menzionato G., in tal senso rilevando “che i verbali stilati nei confronti della presunta persona offesa prevedevano il pagamento di una sanzione nella misura del minimo poichè ciò era previsto dalla legge e non certo poichè sul punto i due accertatori avessero discrezionalità come avevano fatto intendere al G.”.

Non senza aggiungere l’altrettanto erronea affermazione in cui sarebbe incorso il Collegio decidente, quanto alla ritenuta prospettazione, da parte dei militari operanti, di ulteriori controlli a carico della persona offesa, siffatta evenienza essendo esclusa dal passaggio della conversazione del 17.09.2008 a tal fine riprodotto in seno al ricorso.

2.4 “Motivazione illogica e travisamento della prova, in relazione all’art. 319 quater c.p.”, sono altresì dedotti a supporto del quarto profilo di censura, concernente specificamente la conversazione telefonica intercettata alle ore 00.11 del 17.09.2008 fra l’avv. CO.Ca. e la sorella Gi.: detto colloquio sarebbe in realtà avvenuto l’11.11.2008 e del tutto inverosimile sarebbe il significato attribuitogli dai giudici di merito, tenuto conto dello iato temporale rispetto ai fatti per cui è processo.

2.5 Ulteriore profilo di illogicità della motivazione è formalizzato in relazione all’entità della pena inflitta, determinata dalla Corte distrettuale in misura coincidente a quella irrogata dal primo giudice, nonostante la disposta derubricazione nel meno grave reato previsto e punito dall’art. 319 quater c.p., con conseguente violazione del divieto di reformatio in peius.

2.6 Esaurisce il novero delle censure la dedotta violazione di legge in rapporto all’applicazione della pena militare accessoria della degradazione, disposta d’ufficio in assenza d’impugnazione della Pubblica Accusa.

Motivi della decisione

1. L’illustrato ricorso non è in grado di superare il previo e doveroso vaglio di ammissibilità, donde la relativa declaratoria con le connesse statuizioni di legge, nella misura di giustizia specificata in dispositivo quanto alla sanzione a beneficio della Cassa delle Ammende, avuto riguardo al grado di colpa ravvisabile nella proposizione dell’impugnativa di cui trattasi.

2. Il primo motivo di doglianza si palesa inammissibile sotto un duplice profilo: in primo luogo, non è minimamente affrontato il tema della decisività della conversazione di cui si deduce l’inutilizzabilità, rilievo che si coglie in tutta evidenza nel momento in cui è lo stesso ricorso a dare atto – contestandone la rilevanza in termini del tutto generici, oltre che non consentiti perchè involgenti la lettura di fatto del dato di prova – dell’esistenza di altra conversazione valorizzata come elemento di riscontro dell’affidabilità della parola della persona offesa, oggetto di intercettazione telefonica e perciò estranea all’ambito dell’eccezione sollevata, circoscritta alle sole intercettazioni fra presenti.

Non senza aggiungere la manifesta infondatezza dell’affermazione di diritto (di cui altresì al secondo motivo proposto) circa la necessità di elementi di riscontro a supporto delle dichiarazioni della persona offesa, ex art. 192 c.p.p., comma 3, stante l’irrilevanza della valenza penale della sua condotta rispetto ad una norma incriminatrice al tempo inesistente, perchè solo successivamente entrata in vigore (v., ferma la diversità della fattispecie, Sez. 6, sent. n. 28110 del 16.04.2010, Rv. 247773, appunto nel senso della utilizzabilità “erga alios” delle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa del reato di concussione, pur successivamente riqualificato come corruzione impropria susseguente).

Il secondo profilo d’inammissibilità attiene alla genericità della censura: a tale riguardo, premesso che si esula dall’ambito del travisamento, atteso che si è qui in presenza di un dato interpretativo a fronte di due documenti divergenti, il ricorso ignora del tutto di confrontarsi con il secondo di essi, costituito dall’attestazione in data 29 settembre 2008 a firma del Cap. A., significativa del fatto che, per mero errore di trascrizione, nel già citato verbale di fine ascolto del precedente 4 agosto era stato affermato che esso concerneva anche le conversazioni fra presenti. Documento che la pronuncia del primo giudice pone a base del disposto rigetto dell’eccezione già allora sollevata, sulla base di una motivazione che la sentenza impugnata fa propria, pur affermando poi discutibilmente di poterne finanche prescindere.

3. Del secondo motivo si è, di fatto, già detto poc’anzi, là dove è stata rilevata la manifesta infondatezza dell’assunto difensivo, circa la necessità di riscontri alla parola accusatrice del G..

Il ricorrente non pone in discussione l’irrilevanza penale della condotta del predetto G., avuto riguardo all’epoca in cui la stessa si colloca, antecedente all’introduzione nell’ordinamento della norma incriminatrice di cui all’art. 319 quater c.p. Pretende tuttavia, del tutto contraddittoriamente, di applicare il regime valutativo della prova previsto dall’art. 192 c.p.p., comma 3, dimenticando di considerare come esso rinvenga la propria ragion d’essere nello status soggettivo del dichiarante, qui del tutto assente per le già rappresentate ragioni di ordine temporale, che hanno trovato sintomatico riscontro nella non contestata assunzione del citato G. in qualità di teste, in sede di incidente probatorio (v. sentenza di primo grado, pag. 24); non senza richiamare, a supporto ulteriore del convincimento del Collegio – ancorché indiretto – quanto affermato da Sez. 6, sent. n. 38994 del 06.06.2017, Rv. 271080, che ha sancito la piena legittimità delle statuizioni civili adottate a beneficio della persona offesa (“indotta”) nei confronti di imputati pubblici ufficiali, in relazione a condotte da questi ultimi poste in essere in epoca antecedente alla L. n. 190 del 2012, ancorché qualificate ai sensi della più favorevole e sopravvenuta norma di cui all’art. 319 quater c.p., rispetto all’originario addebito di concussione.

4. Intrinsecamente contraddittoria è la doglianza alla base del terzo motivo della proposta impugnazione, a tal fine essendo sufficiente rilevare, per il carattere assorbente suo proprio, che, indipendentemente dall’accertamento circa l’effettiva esistenza di discrezionalità in capo ai finanzieri, è lo stesso ricorso a dare atto che l’imputato ed il suo collega, M.llo P. – quest’ultimo, a sua volta, già autonomamente condannato per i medesimi fatti, pur con sentenza che non risulta allo stato definitiva – avevano fatto intendere al G. di disporne (ivi, pag. 9), come del resto puntualmente rappresentato dai giudici reggini, così esercitando una palese quanto indebita pressione nei suoi riguardi.

5. Quanto alla data del colloquio intercettato svoltosi fra l’avv. CO.Ca. e la sorella Gi. – circostanza inerente al fatto di reato sub b), al pari della precedente – la difesa è nel giusto là dove rileva che l’esatta data di svolgimento della conversazione medesima è quella dell’11 novembre 2008.

Il che è conforme a quanto emerge con chiarezza dalla pronuncia del Tribunale (loc. cit., pag. 33) ed anche da quella della Corte territoriale, dovendosi ricondurre ad un mero refuso la difforme indicazione censurata dal ricorrente, a pag. 6 della sentenza impugnata, posto che, nel successivo sviluppo della motivazione, è detto chiaramente che la conversazione che qui interessa è stata “intercettata poco dopo l’esecuzione custodiale nei confronti dell’imputato” (ibidem, pag. 19); nè potrebbe essere diversamente, essendo stato attivato lo strumento captativo solo a seguito dell’instaurazione del procedimento da ultimo sfociato nella sentenza al vaglio di questo Collegio.

Per contro, è del tutto priva di pregio la censura in esame, nella parte in cui formula un del tutto soggettivo e per di più ipotetico apprezzamento in termini di inverosimiglianza del significato attribuito dalla sentenza alla conversazione stessa, così introducendo un profilo di merito ovviamente precluso nella presente sede di legittimità, a fronte della congrua – e perciò qui incensurabile – interpretazione offerta concordemente dai giudici di merito, alla luce delle riferite (dal G.) modalità di consegna della somma di Euro 10.000,00 in contanti, riposta all’interno di una cassetta di vini recapitata nella sua residenza di (OMISSIS) alla menzionata avv. CO., che il C. aveva indicato come sua cognata (come indirettamente confermato dalla conversazione del 17 settembre 2008 citata dalla pronuncia d’appello, a nulla rilevando l’insussistenza giuridica del vincolo di affinità).

Interpretazione, cioè, per cui l’anzidetta conversazione telefonica dell’11 novembre 2008, inopinatamente intercorsa in orario notturno, “poco dopo l’esecuzione dell’ordinanza custodiale nei confronti dell’imputato”, fra la citata professionista e la sorella, che, preoccupata, la sollecitava – come leggersi ancora nella sentenza impugnata – a “controllare immediatamente se in quel cartone…”, di per sè evocativo della cassetta di vini di cui sopra ed immediatamente inteso dall’interlocutrice nel suo significato, senza necessità di ulteriori precisazioni, “… fosse rimasto qualcosa tra un foglio e l’altro, non può che essere intesa come sintomatica del riferimento ad un “qualcosa suscettibile di essere scoperto dagli inquirenti in occasione di un’eventuale perquisizione”, ossia a “qualche banconota (…) inavvertitamente rimasta all’interno del cartone, che evidentemente si trovava ancora a casa di CO.Ca.” (così pag. 19 della sentenza della Corte reggina).

6. Non ha alcun fondamento neppure la dedotta violazione del divieto di reformatio in peius.

In proposito, alla preliminare constatazione oggettiva per cui il giudizio d’appello non ha visto alcun aggravamento del trattamento sanzionatorio a carico dell’imputato, rimasto invariato rispetto all’esito del primo processo, si aggiunge il rilievo, espressione di un principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per cui la diversità della qualificazione giuridica cui pervenga il giudice d’appello, pur su impugnazione del solo imputato, lo legittima a graduare la pena nel modo che ritenga maggiormente rispondente a giustizia, secondo i criteri indicati dall’art. 133 c.p. – ciò che la Corte distrettuale ha puntualmente fatto – fermo restando in ogni caso l’insuperabile limite segnato dalla pena irrogata al termine del giudizio di primo grado.

7. Manifestamente infondato è anche l’ultimo profilo di doglianza.

Trattandosi di pena accessoria che consegue ex lege, ai sensi dell’art. 33 c.p., comma 1, n. 1 militare di pace, per via dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, qui discendente dall’entità della pena irrogata (pari ad anni 5 e mesi 6 di reclusione, come pena base), la sua mancata applicazione costituisce mero errore materiale, che può essere ovviato anche in sede esecutiva, in conformità all’insegnamento della consolidata giurisprudenza sul punto (cfr., da ultimo, Sez. 5, sent. n. 51390 del 21.06.2018, Rv. 274453; adde, con riferimento alla pena accessoria della degradazione nei confronti di militare in congedo, Sez. 1, sent. n. 1364 del 18.11.2010 – dep. 19.01.2011, Rv. 249423).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2019