Pausa caffè ed omessa timbratura: valutabile la tenuità del fatto (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 29 luglio 2021, n. 29674).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni – Presidente

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Rel. Consigliere

Dott. ANDRONIO Alessandro Mari – Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

(OMISSIS) NICOLA nato a SAN CIPRIANO D’AVERSA il 15/11/19xx;

(OMISSIS) ETTORE nato a SAN CIPRIANO D’AVERSA il 13/11/19xx;

avverso la sentenza del 30/09/2020 della CORTE APPELLO di NAPOLI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Alessio SCARCELLA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Luigi CUOMO che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi;

udito, per entrambi i ricorrenti, il difensore presente, avv. UMBERTO (OMISSIS), in sostituzione degli avvocati GIOVANNI (OMISSIS) e GIUSEPPE (OMISSIS), che, nel riportarsi ai motivi, ha insistito nell’accoglimento dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 30.09.2020, la Corte d’appello di Napoli, ha confermato integralmente la sentenza del Tribunale monocratico di Napoli Nord 20.02.2018, appellata dal (OMISSIS) Nicola e dal (OMISSIS) Ettore, con la quale gli attuali ricorrenti sono stati condannati alla pena di anni 1 mesi 1 di reclusione in ordine al reato di cui al D.Igs. n. 150 del 2009, art. 55-quinquies e all’art. 61 n. 9 c.p. ed Euro 500,00 di multa previo riconoscimento della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno di Euro 2500,00 in favore del Comune di San Cipriano di Aversa ex art. 55 comma 2 D.Igs. n. 150 del 2009, in relazione a fatti contestati come commessi nel settembre del 2013, secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nel capo di imputazione.

2. Contro la sentenza hanno proposto separati ricorsi per cassazione i difensori di fiducia dei ricorrenti, iscritti all’Albo speciale previsto dall’art. 613 c.p.p., articolando complessivamente otto motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.

2.1. Deduce la difesa del (OMISSIS), con il primo dei quattro motivi, violazione di legge processuale e vizio motivazionale in relazione all’art. 55 quinquies, D.Igs. n. 150 del 2009.

In sintesi, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia fornito una motivazione carente ed in violazione della disposizione normativa di cui sopra, mediante una lettura distonica rispetto ai principi definiti dal legislatore e meramente ripropositiva delle motivazione fornita dal primo giudice.

In particolare, prosegue il ricorso, la Corte di appello ha qualificato erroneamente la condotta dell’imputato poiché l’unicità del comportamento dello stesso e l’assenza dal posto di lavoro del tutto occasionale e momentanea non avrebbero consentito di sussumere la fattispecie concreta nella fattispecie astratta di cui al reato contestato.

Il ricorso poi prosegue nell’individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 55 quinquies D.Igs. n. 150 del 2009 e si sofferma in particolare sulla definizione di modalità fraudolente sostenendo che non vi è stato da parte del ricorrente alcun atto che potesse assumere tale natura, né sotto il profilo soggettivo né sotto quello oggettivo, identificandosi le stesse in quelle condotte che abbiano avuto la concreta capacità di incidere sulla effettiva prestazione lavorativa.

In sostanza, ritiene che la condotta addebitata all’imputato non rientrerebbe nel perimetro normativo indicato dalla suindicata norma di legge e in nessuna delle fattispecie prese in considerazione dalla detta disposizione.

Secondo la prospettazione difensiva, l’eccessiva ampiezza della formula legislativa utilizzata per descrivere la condotta incriminata contrasta con il principio di tassatività e comporta l’obbligo per l’interprete di una lettura costituzionalmente orientata; in particolare l’espressione “con altre modalità fraudolente” utilizzata nella seconda parte della disposizione dovrebbe essere interpretata per analogia con la prima e principale modalità di condotta, e cioè l’alterazione del sistema di rilevamento della presenza, sicché la condotta posta in essere dal ricorrente non denota alcuna particolare modalità esecutiva da cui desumere una fraudolenza in quanto lo stesso, dopo aver timbrato il badge ed essersi intrattenuto nell’ufficio, usciva per recarsi nel bar antistante la casa comunale per bere un caffè per poi rientrare in ufficio.

Si tratta quindi di un’assenza occasionale, isolata e di pochi minuti che non può, anche solo in astratto, aver leso alcun bene giuridico.

2.2. Deduce la difesa del (OMISSIS), con il secondo dei quattro motivi, violazione di legge processuale e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 131 bis c.p.

In sintesi, lamenta che la Corte d’appello non ha riconosciuto la causa di non punibilità nonostante la condotta del ricorrente sia inidonea a superare la soglia minima di punibilità, limitandosi ad escludere sulla base della futilità dei motivi che hanno indotto il ricorrente ad allontanarsi dal luogo del lavoro.

In particolare, sostiene che il comportamento del ricorrente sia assolutamente marginale, occasionale, avvenuto ad inizio mattinata e senza determinare alcuna interruzione del servizio pubblico offerto né alcun danno, in quanto l’allontanamento è durato pochi minuti.

La Corte quindi ha negato il riconoscimento della causa di non punibilità sulla base di un elemento, la futilità, del tutto indimostrato.

2.3. Deduce la difesa del (OMISSIS), con il terzo dei quattro motivi, vizio di legge processuale in relazione al riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61 n.9 c.p.

In sintesi, il ricorrente si duole per aver la Corte di appello riconosciuto l’aggravante di cui sopra qualificando erroneamente il fatto e riconducendo erroneamente la condotta del (OMISSIS) nell’alveo delle attività legate all’esercizio di una pubblica funzione o di un pubblico servizio.

Sul punto, sostiene che non sussiste alcun nesso tra la qualifica di Pubblico Ufficiale e la condotta attuata dal ricorrente in quanto essa è del tutto estranea dall’esercizio di funzione pubblica o dai doveri inerenti la qualifica di Pubblico Ufficiale, limitandosi la stessa ad una attività relativa alla attestazione della presenza in ufficio.

2.4. Deduce la difesa del (OMISSIS), con l’ultimo motivo, violazione di legge processuale e vizio di motivazione in ordine agli artt. 133 e 62 bis c.p.

In sintesi, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello nella dosimetria e nella determinazione della pena finale, non ha tenuto conto di alcuni elementi e di alcune circostanze che avrebbero imposto il riconoscimento delle attenuanti generiche nella massima espansione ovvero l’incensuratezza del (OMISSIS) e la minima gravità del fatto.

3. Può quindi procedersi all’illustrazione dei motivi di ricorso proposti da (OMISSIS) Ettore.

3.1. Deduce la difesa del (OMISSIS), con il primo dei quattro motivi, violazione di legge processuale e vizio motivazionale in relazione all’art. 55 quinquies D.Igs. n. 150 del 2009.

In sintesi, il ricorrente osserva che la Corte di appello ha erroneamente ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui sopra.

Ad avviso della difesa dalla condotta del (OMISSIS) non si può desumere alcuna modalità fraudolenta in quanto è certamente da escludere che vi sia stata una alterazione dei sistemi di rilevamento e che vi sia stato un ricorso ad altre modalità fraudolente tali da essere potenzialmente idonei a trarre in inganno la amministrazione.

La difesa precisa che il (OMISSIS), nel corso dell’esame dibattimentale, ha spiegato il suo comportamento, ossia è uscito dall’ufficio solo per recarsi nella tabaccheria di un vicinissimo esercizio commerciale, il tutto per pochi minuti, e proprio l’esiguità del tempo necessario all’espletamento di tale necessità lo aveva indotto ad allontanarsi senza richiedere una preventiva autorizzazione.

Pertanto, alcuno strumento fraudolento è stato utilizzato dal ricorrente che, peraltro, al momento del controllo, era regolarmente in possesso del badge personale.

Parimenti errata, ad avviso della difesa, è la sentenza nella parte in cui ha ritenuto la sussistenza del danno, in quanto il (OMISSIS) si è assentato per pochi minuti, e nell’ufficio era comunque presente un altro collega, con la conseguenza che il servizio dell’ufficio non si è mai interrotto risultano agli atti elementi da cui desumere che gli utenti abbiano subito qualche forma di disagio.

Infine, prosegue la difesa, non sussiste neanche l’elemento soggettivo del dolo generico poiché non emerge in alcun modo la consapevolezza del (OMISSIS) di porre in essere una condotta antigiuridica.

3.2. Deduce la difesa del (OMISSIS), con il secondo dei quattro motivi, violazione di legge processuale e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 131 bis c.p.

In sintesi, sostiene che la motivazione con la quale la Corte di appello ha disatteso la censura sollevata dalla difesa coi motivi di appello in ordine all’art. 131 bis è generica, apodittica e lacunosa.

In particolare, i giudici territoriali, si sono limitati ad evidenziare la gravità della condotta senza valutare ulteriori elementi favorevoli al ricorrente quali la sua incensuratezza e sul corretto comportamento processuale.

3.3. Deduce la difesa del (OMISSIS), con il terzo dei quattro motivi, vizio di motivazione in ordine agli artt. 133 e 62 bis c.p.

In sintesi, si duole per aver la Corte d’appello, con motivazione illogica e carente, negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed irrogato una pena eccessiva senza prendere in considerazione l’ottimo comportamento processuale dell’imputato, la sua incensuratezza e la presenza di un fatto-reato di modesta entità, limitandosi a richiamare la mancata manifestazione di segni di resipiscenza da parte dell’imputato.

3.4. Deduce la difesa del (OMISSIS), con l’ultimo dei quattro motivi, violazione di legge processuale e vizio motivazionale in relazione all’art. 55 comma 2 D.Lgs. n. 150 del 2009.

In sintesi, lamenta che la Corte di appello ha erroneamente ritenuto sussistenti le condizioni legittimanti l’applicazione della disposizione concernente il pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno.

Sul punto osserva che non sono stati valutati elementi obiettivi: la mancata interruzione del servizio non ha arrecato alcun danno all’Ente; l’assenza di danno di immagine per l’Ente; la mancata richiesta, da parte dell’Ente, di un risarcimento dei danni.

Entrambi i giudici di merito quindi avrebbero dovuto spiegare, con motivazione analitica, i parametri utilizzati per la quantificazione del danno.

Infine, rileva un ulteriore vizio di motivazione della sentenza in relazione alla condizione posta al beneficio della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 163 c.p.

4. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta del 4/05/2021, ha chiesto a questa Corte di dichiarare inammissibili i ricorsi, conclusioni ribadite all’udienza odierna.

In particolare, rileva il PG che gli imputati (dipendenti comunali di San Cipriano D’Aversa) deducono violazione di legge e vizio di motivazione per l’insussistenza degli elementi costitutivi del reato ipotizzato, atteso che si sarebbero allontanati per un breve periodo dalla sede di servizio, per cui l’assenza sarebbe del tutto occasionale e momentanea, senza possibilità di integrare il comportamento contestato in relazione alla fattispecie astratta.

La norma incriminatrice sanziona la condotta del lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia.

Tale disposizione non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta falsamente la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a priori predeterminate dal legislatore.

La fattispecie di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.

Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto in contestazione si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici dipendenti di un comportamento fraudolento consistente nell’irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze (ex plurimis Sez. 3, n. 45696 del 2015; Sez. 3, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume in punto di rispetto degli orari di lavoro e dell’espletamento in concreto delle proprie mansioni, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l’Amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.

Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha specificato che “i due imputati avevano fatto ingresso presso l’Ente ed avevano attestato la loro presenza timbrando il badge personale: poi si erano assentati dal luogo di lavoro, senza nuovamente timbrare il badge di modo che essi risultavano ancora presenti, laddove erano invece uno al bar, l’altro presso il tabaccaio.

Pertanto, la omessa timbratura è una modalità che ha consentito agli imputati di portarsi al di fuori del posto di servizio senza che il datore di lavoro ne potesse avere conoscenza e, dunque, integra pienamente una modalità fraudolenta, che ha tratto in inganno l’ente datore di lavoro.

I ricorrenti, inoltre, ricorda il PG, deducono vizio di motivazione sulla mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., pur in presenza di un fatto di attenuato allarme sociale e di contenuto impatto economico.

Il beneficio è stato motivatamente negato, anche ai fini del riconoscimento delle attenuati generiche, essendo stato violato il principale dovere di un dipendente e, cioè, la presenza sul luogo di lavoro, avendo gli imputati agito con noncuranza verso l’utenza e tendendo a sminuire le conseguenze dell’azione commessa.

La condotta contestata non può affatto ritenersi di limitato impatto, anche economico per il datore di lavoro, incidendo sull’organizzazione dell’ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il datore di lavoro al suo dipendente.

Per quanto riguarda, infine, l’illegittima contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 9, c.p. va rilevato per il PG che si tratta di questione inammissibile, perché proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione e non nei precedenti gradi di merito.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi, trattati in presenza con discussione orale ai sensi ex art 23, comma 8, del D.L. n. 137/2020, sono fondati, limitatamente all’applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis, c.p., dovendo essere rigettati nel resto i ricorsi.

2. Occorre in premessa evidenziare che la sentenza di appello deve essere considerata a tutti gli effetti una c.d. “doppia conforme” in punto di affermazione della penale responsabilità della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i seguenti parametri: la sentenza di appello ripetutamente si richiama alla decisione del Tribunale; entrambe le sentenze di merito adottano gli stessi criteri nella valutazione delle prove (Sez. III, n. 44418 del 16/07/2013).

La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (tra le tante, Sez. VI, n. 22445 del 08/05/2009; Sez. V, n. 25559 del 15/06/2012).

Sulla base di questi principi vanno esaminati gli odierni ricorsi.

3. Seguendo l’ordine logico e sistematico imposto dalla articolazione dei motivi, si reputa opportuno illustrare congiuntamente il primo motivo del (OMISSIS) e il primo motivo del (OMISSIS) in quanto attinenti entrambi alla responsabilità penale degli imputati.

Entrambi i motivi infatti, pur se formalmente distinti in relazione agli episodi criminosi o ad alcune questioni dedotte, sono relativi al vizio della motivazione e al vizio di violazione di legge circa la configurabilità della loro condotta nella fattispecie di cui all’art. 55-quinquies, d.lgs. n. 150/2009.

4. Entrambi i motivi sono infondati.

4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre individuare il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall’art. 55-quinquies, D.Lgs. n.165/2001.

La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in particolare, l’ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei profili di concorrenza con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall’altro, delle conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le violazioni non siano state reiterate e ripetute ma limitate.

Al riguardo, la norma evidenzia in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non richiede continuità o abitualità. In generale, il delitto di “false attestazioni o certificazioni” si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che consista nell’irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata dall’art. 640, co. 2, n. 1, c. p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all’Amministrazione poiché al primo comma del citato art. 55-quinquies è espressamente previsto “fermo quanto previsto dal Codice penale” (Sez. III, n. 45698 del 27/10/ 2015).

Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha rigettato le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di essersi allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all’uscita, non sarebbero riconducibili all’art. 55-quinquies citato, non essendovi stata un’alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze e non essendo ricomprese nelle altre modalità fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere interpretate restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di registrazione.

Ed infatti, la condotta contemplata dal D.Igs. n. 165 del 2001, art. 55- quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta falsamente la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a priori predeterminate dal legislatore.

Non sussiste alcun contrasto con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all’art. 25 Cost., in quanto l’enunciazione della condotta del reato, pur descritta genericamente, consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato delle parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non specifiche, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa.

Né è legittimo fare ricorso all’interpretazione analogica con le modalità indicate da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di interpretazione letterale per attribuire alla norma un significato univoco.

4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell’art. 55-quater che tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1 bis, con una integrazione effettuata con D.Igs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione circa il rispetto dell’orario di lavoro.

La fattispecie disciplinare di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.

Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di legittimità in sede civile (Sez. lav., n.24574 del 01//12/2016) precisando che a prescindere dall’intervento riformatore dell’art. 55 quater cit., la ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione intesa come manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n. 17637/2016, 17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n.257508 del 14/12/2016).

Pertanto, la formulazione del D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1, lett. a) ed anche la sua “ratto” (potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo), inducono ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.

Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto dall’art. 55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici dipendenti di un comportamento fraudolento consistente nell’irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l’amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.

4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato di cui all’art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall’art. 55-quinquies (sul rapporto tra l’art. 640 cpv. c.p. e il D.Igs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies: Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del 27/10/2015; Id., n.45947 del 10/10/2019).

In sintesi, è stato sottolineato che l’illecito descritto al D.Igs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies, diversamente dalla truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente pubblico della presenza in servizio attraverso un’alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze.

Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di prevenire o contrastare, nell’interesse della funzionalità dell’ufficio pubblico, le condotte assenteistiche.

Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità amministrativa e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche il danno non patrimoniale (ad es. quello all’immagine subito dall’amministrazione stessa).

Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale si sia concretizzato nell’irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, possa costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa.

Il legislatore quindi pone l’attenzione sulle modalità esplicative del comportamento illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia l’induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito dall’agente i quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 55-quinquies prefato.

4.4. Orbene, nel caso in esame, del tutto priva di pregio risulta la censura mossa nei ricorsi.

Nell’analizzare i vari profili di doglianza sollevati con i primi due motivi, occorre partire dalla doglianza relativa all’assenza delle modalità fraudolente, riconosciute dai giudici di merito.

Dalle due decisioni di merito (doppia conforme) emerge infatti che nella fattispecie dedotta in giudizio, consistita nel non aver, i ricorrenti, timbrato il badge all’uscita dopo essersi allontanati da luogo del lavoro, per risultare falsamente in servizio laddove invece il (OMISSIS) si era recato al bar e il (OMISSIS) presso il tabaccaio, ricorre l’ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente.

Il tribunale monocratico in primo luogo sottolinea che agli imputati è stato contestato di aver, il giorno 30 settembre 2013, attestato falsamente la loro presenza negli uffici della Casa Comunale, ove prestavano servizio, mentre i Carabinieri ne constavano l’assenza.

Vengono valorizzati, a fondamento dell’impugnata sentenza, gli esiti dell’istruttoria dibattimentale:

– la testimonianza del maresciallo capo (OMISSIS) Antonio il quale aveva riferito di essersi recato presso la Casa Comunale alle ore 8.40. con due squadre e, una volta giunti all’interno degli uffici comunali, un agente si recava al piano terra ove era posizionato il badge marcatempo mentre altri agenti procedevano alla verifica dell’elenco dei presenti e constatavano l’effettiva presenza.

Da tali verifiche risultavano assenti gli odierni ricorrenti, ovvero il (OMISSIS) e il (OMISSIS), nonostante dagli elenchi acquisiti risultasse che fossero entrati in servizio il (OMISSIS) alle ore 8.09 e il (OMISSIS) alle ore 7.57.

Il dato inconfutabile era che il badge non segnava alcuna uscita dei ricorrenti dopo l’arrivo in servizio, né risultava alcun permesso scritto che ne autorizzasse l’allontanamento né risultava alcuna anomalia del funzionamento della macchinetta marcatempo.

Inoltre, dalla testimonianza risulta che il (OMISSIS) venne avvisato dell’arrivo dei ricorrenti alle ore 8.50;

– La testimonianza del (OMISSIS) Claudio che aveva confermato quanto dichiarato dal teste (OMISSIS) ovvero che i due ricorrenti facevano ingresso presso gli uffici alle ore 8.50, entrambi identificati a mezzo di documenti personali;

– La testimonianza del (OMISSIS) Gianluca che aveva dichiarato di essere giunto presso la seconda sede dell’ufficio tecnico alle ore 8.50 e di aver verificato gli elenchi di presenza e riscontrato l’effettiva presenza fisica di entrambi i ricorrenti in quell’ora (8.50);

– La testimonianza del teste della difesa (OMISSIS) Nicola che aveva dichiarato che il (OMISSIS) la mattina del controlli si fosse allontanato dal luogo di lavoro per recarsi presso la tabaccheria sita non oltre trenta metri dalla Casa Comunale, e che il (OMISSIS) fosse tornato mentre i carabinieri stavano effettuando i controlli e che “proprio per voler essere larghi” non fossero trascorsi oltre quindici minuti tra l’allontanamento e il rientro.

5. Orbene, le assenze dei ricorrenti sono state analizzate dalla sentenza di primo grado, con motivazione adeguata, non contraddittoria e priva di manifeste illogicità, che ha rilevato, peraltro, come il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) non avessero negato il fatto loro contestato nella sua materialità.

Ed invero, il (OMISSIS) aveva riferito di essere uscito per comprare le sigarette e, considerata la vicinanza del luogo, non aveva pensato di chiedere alcuna autorizzazione per l’allontanamento ma anzi, si riteneva sfortunato in quanto, in trentasei anni di servizio, non fosse mai successa una cosa simile e che l’allontanamento fosse durato al massimo una decina di minuti.

Quanto al (OMISSIS) il tribunale asserisce che lo stesso aveva riferito di es- sere uscito dall’ufficio verso le ore 8.20-8.25 per recarsi a bere un caffè presso un bar che costituiva un “appendice” della Casa Comunale, di aver chiesto ad un collega, che considerava il suo capo ufficio, di potersi allontanare, che fossero trascorsi 7 o 8 minuti tra la sua uscita e l’arrivo dei Carabinieri.

Peraltro, lo stesso riteneva giustificato il suo allontanamento stante l’assenza di distributori automatici all’interno della Casa comunale e la possibilità, garantita dal contratto, di usufruire di dieci minuti di pausa caffè.

Infine, aveva riferito che tale allontanamento costituiva una “prassi”, che solo se vi fosse la necessità di restare fuori più tempo, si chiedeva il permesso e si timbrava il badge e che, anche in altre occasioni e in altri luoghi, i dipendenti non timbravano il badge all’uscita per andare a prendere il caffè.

6. Ebbene, alla luce di tali risultanze istruttorie è stata contestata la fattispecie di cui all’art. 55-quinquies citato, aggravata dalla violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio svolto.

A pag. 5 della sentenza si legge infatti che, sulla base delle precise e convergenti dichiarazioni rese dagli operanti di P.G., risulta pacifica la circostanza che gli imputati non erano presenti nei rispettivi uffici quando i Carabinieri effettuavano l’accesso e le dovute verifiche.

Circostanze fattuali che gli stessi ricorrenti non hanno negato e che hanno cercato di giustificare.

Inoltre, l’allontanamento degli imputati non era in alcun modo autorizzato in quanto il teste (OMISSIS) aveva riferito con precisione che non risultava alcun permesso né sussisteva alcun malfunzionamento della macchina marcatempo, né i due imputati avevano riferito qualcosa di diverso ma anzi, avevano minimizzato la gravità del fatto, adducendo giustificazioni come la vicinanza della tabaccheria e del bar e l’uscita “necessitata” per l’assenza dei distributori automatici.

7. Tutto ciò premesso, dopo aver individuato il perimetro di applicabilità della fattispecie contestata, il primo giudice, a pag. 6, ai fini della configurabilità della fattispecie e della condanna oltre ogni ragionevole dubbio e al fine di superare le tesi difensive, esamina la possibile sussistenza dell’elemento oggettivo, ovvero il profilo della condotta degli imputati valutando se la stessa possa rientrare nelle cosiddette modalità fraudolente.

Su questo punto, si afferma che l’omissione delle timbratura in uscita integra certamente un’altra modalità fraudolenta in quanto realizza un indebito utilizzo del badge che nel caso in esame, attesta una situazione di fatto, ossia la presenza in ufficio, differente da quella reale e dunque di natura fraudolenta.

Viene sottolineato, peraltro, che questo è sufficiente in quanto il reato contestato è di mera condotta e che a nulla rileva l’effettiva durata dell’assenza.

Infatti, se da un lato è certa la loro assenza al momento dei controlli da parte dei Carabinieri, dall’altro è incerto il momento dell’uscita dal luogo del lavoro, ovvero subito dopo il loro ingresso o prima dell’arrivo della P.G.

Tuttavia, si precisa che tale lacuna non incide sulla sussistenza del reato, in quanto è stata provata la falsa attestazione della presenza e non è richiesta per tale fattispecie la produzione di un danno patrimoniale economicamente apprezzabile.

D’altro canto, la Corte d’appello, richiamando integralmente la sentenza del giudice di prime cure, nel disattendere le tesi difensive, sottolinea come sia inconferente la circostanza sollevata dai ricorrenti, ed in particolare dedotta dal (OMISSIS), ovvero la presenza in ufficio di un altro collega.

Tale circostanza non può essere considerata idonea a mutare la valutazione della condotta ascritta agli imputati poiché non è stata dimostrata e la norma di riferimento pretende la presenza del dipendente sul luogo del lavoro.

L’assenza del dipendente ha quindi comportato che l’Ente fosse sfornito di unità lavorativa e tale utenza è stata servita da personale ridotto rispetto al previsto (pagg. 2-3 sentenza impugnata).

Inoltre, con riferimento alla posizione del (OMISSIS), la Corte territoriale osserva che l’accertamento dei fatti non è avvenuto tramite elaborazione di immagini di timbratura dei badge ma mediante accertamenti personali svolti da diverse pattuglie dei CC dislocate nei vari luoghi e uffici e che l’arrivo dei due imputati è stato accertato alle ore 8.50.

Trattasi quindi di un accertamento dei fatti avvenuto non tramite presunzioni bensì tramite un approfondito e puntuale accertamento (pag. 3 della sentenza impugnata).

8. Quanto all’elemento soggettivo del reato, la Corte di appello fornisce ampia risposta ai motivi di gravame proposti dagli imputati sul punto.

Di conseguenza, le censure di omessa motivazione anche su tale punto sono infondate.

In tema di elemento soggettivo del reato, va ricordato che é sufficiente il dolo generico, e cioè la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione (Sez. III, n. 30862 del 14/05/2015; Sez. V, n. 12547 del 08/11/2018).

Nella specie, il tribunale valutando la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo generico richiesto dalla fattispecie o eventuali cause giustificative, ha escluso la circostanza che entrambi gli imputati non fossero a conoscenza dell’obbligo di utilizzare il badge ad ogni uscita e che non fosse emersa alcuna causa di giustificazione tale da scriminare il fatto.

Quanto poi alla posizione del Caterino, nessun rilievo ha assunto la circo- stanza sollevata in ordine alla “pausa caffè” considerato che la stessa non integra uno stato di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa o permesso implicano necessariamente che l’allontanamento non solo deve essere autorizzato ma deve trovare traccia nell’utilizzo del badge che segna l’uscita del dipendente, circostanza questa non verificatasi nel caso de quo.

Pertanto, è stata ritenuta irrilevante l’escussione del teste e collega Di (OMISSIS) Luigi, considerato dal (OMISSIS) capo ufficio, al quale aveva chiesto l’autorizzazione per andare a pendere il caffè.

L’allontanamento dal luogo di lavoro deve infatti trovare corrispondenza nell’utilizzo del badge con la conseguenza che qualunque autorizzazione verbale non esclude il reato contestato né può essere suscettibile di essere valutata a carico di chi l’abbia rilasciata.

Nello stesso senso, si colloca la motivazione della Corte di appello che ha ritenuto infondata la questione relativa all’elemento soggettivo ovvero alla inconsapevolezza degli imputati, non essendo in dubbio che gli stessi fossero perfettamente a conoscenza del dovere di essere in ufficio e che si fossero allontanati dal luogo di lavoro coscientemente e volontariamente. Del resto, la norma richiede il dolo generico.

Infine, anche in ordine alla posizione del (OMISSIS), valgono le stesse considerazioni svolte nei confronti del (OMISSIS).

Il primo giudice infatti osserva che la futilità del motivo, l’essersi allontanato per recarsi in tabaccheria, certamente non toglie alcuna rilevanza penale al fatto né è in grado di escludere il profilo psicologico del reato.

Nessun rilievo di assenza del dolo può dunque conseguire alla luce della condotta riscontrata.

9. Tanto precisato, va rilevato che non è mai stato contestato che il giorno del fatto il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), negli intervalli temporali compresi tra le timbrature in ingresso (ore 8.09 e 7.57) e in uscita (non timbrata) si fossero allontanati dal lavoro senza alcuna autorizzazione e senza che risultasse alcuna timbratura intermedia che attestasse il loro allontanamento dal luogo di lavoro.

Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sul fatto che, dal punto di vista oggettivo, il comportamento contestato agli odierni ricorrenti è sussumibile entro la fattispecie astratta prevista dalla disposizione sopra richiamata.

Attraverso la mancata segnalazione dell’uscita nel sistema di rilevazione della presenza in servizio, da effettuarsi attraverso il sistema di “timbratura”, risulta, infatti, attestata falsamente, e con l’elusione del sistema di rilevamento, una circostanza non vera e cioè la presenza in servizio dei due ricorrenti.

Inoltre, la maggiore o minore ampiezza della falsità, della divergenza, cioè, tra la prestazione lavorativa reale e quella apparente, che secondo i ricorrenti si traduce in una differenza di soli al massimo quindici minuti, non ha incidenza.

Anche una falsità di siffatta dimensione, infatti, è suscettibile di apprezzamento penale perché altera l’originario valore probatorio del documento che diviene rappresentativo di una verità diversa, nei rapporti interni, tra ente pubblico e dipendente che deve sempre rispettare specifici doveri di lealtà e di buona amministra- zione, sanzionabili anche in via disciplinare, indipendentemente dal tempo sottratto al lavoro.

In ogni caso, è stato accertato dalle verifiche della P.G. che i ricorrenti sono rientrati alle ore 8.50 ma la durata dell’allontanamento non è desumibile con certezza in quanto, come correttamente osservato ai giudici di merito, non c’è certezza sull’ora effettiva dell’uscita quindi nella specie potrebbe trattarsi di 5, 10, 15 minuti o un’ora, e in questo clima di incertezza l’unico dato inconfutabile è l’arrivo dei ricorrenti accertato alle ore 8.50, non essendo stato dimostrata o allegata dalla difesa alcuna prova dell’effettiva durata.

In conclusione, non sussiste né la violazione di legge dedotta né il vizio di motivazione, e la sentenza risulta immune dalle doglianze sollevate con i ricorsi e i ricorrenti non si confrontano con la motivazione suddetta, ma reiterano i motivi dell’appello senza alcun apprezzabile elemento di novità critica.

10. Vanno trattati congiuntamente anche il secondo motivo del (OMISSIS) e il secondo motivo del (OMISSIS), in quanto entrambi afferiscono al tema del mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p., motivi, come anticipato, da ritenersi invece fondati.

10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.

È stato affermato che la clausola generale di “non punibilità per particolare tenuità del fatto” prevista dall’art. 131-bis c.p. è applicabile solamente nei casi nei quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia stata del tutto episodica e, comunque, l’offesa sia di particolare tenuità (Sez. II, n. 38997 del 27/08/2018).

In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o reiterazione del comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di non punibilità.

In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è possibile applicare l’esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve entità, è configurabile e sanzionabile la condotta con l’applicazione della pena prevista per il delitto di “false attestazioni o certificazioni”.

Si rammenta poi che l’art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 c.p., comma 1, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

Sul punto, deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reiterazione della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 5/04/2017), in quanto viene a configurarsi una ipotesi di “comportamento abituale” ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).

Tuttavia, in ipotesi di reitera- zione non sono mancate decisioni nelle quali l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate.

Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell’articolo summenzionato dell’inciso “anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità”.

In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”, di applicare l’art. 131-bis c.p., all’esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).

Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l’incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, con- temporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).

Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis c.p. ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/6/2018; Sez. VI, n. 55107 del 8/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., comma 1, ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).

10.2. Nel caso di specie, il primo giudice, analizzando l’ultimo profilo ovvero, se si possa riconoscere la sussistenza della causa di non punibilità ex art.131 bis c.p., osserva che non sussistono i presupposti per la sua applicabilità. In particolare, tra gli elementi ostativi viene dato rilievo alla futilità dei motivi per cui gli autori hanno agito in quanto, l’allontanamento non autorizzato e non attestato integra una condotta grave, posta in essere in violazione dei basilari doveri d’ufficio e di lealtà di un dipendente verso la P.A.; dall’altro, tale condotta si sottolinea essere idonea ad incrementare un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare un danno all’immagine della Casa Comunale.

Inoltre, la futilità del motivo viene desunta dal fatto che l’allontanamento si è reso necessario per assecondare bisogni di vita del tutto accessori ed infine, dalle dichiarazioni del (OMISSIS) risulta che tale allontanamento non era occasionale ma anzi era una prassi, una consuetudine mattutina, radicata e addirittura abituale.

La Corte di Appello poi, richiamando e rimandando alla motivazione del giudice di prime cure che aveva affrontato la questione, ha rigettato la richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p. ritenendola inammissibile anche perché non erano avanzate, da parte delle difese, critiche all’iter logico seguito dalla sentenza, ma i motivi di appello si limitavano a riproporre la questione.

In ogni caso, ha posto l’accento sulla gravità delle condotte poiché gli imputati hanno violato il principale dovere del dipendente e cioè essere presente al lavoro, agendo con noncuranza verso l’utenza e cercando di sminuire la condotta stessa. Condotta che, ad avviso dei giudici, è stata posta in essere per motivazioni trascurabili e del tutto ingiustificabili.

10.3. La Corte territoriale, in particolare, ha escluso il riconoscimento della causa di esclusione della punibilità ex art. 131-bis c.p. con argomentazioni non condivise dal Collegio.

Ed infatti, è stato valorizzato sia il complessivo disvalore della condotta, la sua gravità in rapporto alla conseguente lesione cagionata all’amministrazione (danno all’immagine e disservizio), nonché il diffuso malumore verso la categoria dei dipendenti pubblici, sia l’aspetto della abitualità della condotta che (quanto al (OMISSIS)) nel caso in esame, è stata desunta dalle dichiarazioni di entrambi gli imputati in quanto il (OMISSIS) aveva dichiarato “di essere stato sfortunato perché non gli era mai capitata una cosa del genere in trentasei anni di servizio” e il (OMISSIS) aveva dichiarato “che la sua condotta era una prassi che aveva attuato non solo nell’ufficio della Casa Comunale ma anche in altri uffici”.

Ne conseguirebbe, per i giudici territoriali, che i relativi abusi non erano isolati ma frequenti.

10.4. Diversamente, osserva il Collegio, non può anzitutto attribuirsi rilievo agli argomenti da cui è stato tratto il convincimento che non si trattasse di condotte occasionali dei due ricorrenti.

Ed infatti, esclusa dalla stessa consecutio logica della frase valorizzata dai giudici di merito la non occasionalità della condotta del Serao (il quale aveva dichiarato “di essere stato sfortunato perché non gli era mai capitata una cosa del genere in trentasei anni di servizio”), atteso che da tale affermazione non può essere tratto alcun argomento a sostegno della circostanza che si trattasse cdi condotta non occasionale, in quanto costituiva al più espressione di disappunto o dispiacere del ricorrente per essere incappato in una situa- zione di quel tipo nel corso della sua vita lavorativa.

Analogamente, quanto alla valorizzazione della frase del (OMISSIS) (il quale aveva dichiarato “che la sua con- dotta era una prassi che aveva attuato non solo nell’ufficio della Casa Comunale ma anche in altri uffici”), non può alla stessa essere attribuito carattere ostativo al riconoscimento del carattere non occasionale della condotta, inquadrandosi, per i esplicito riconoscimento dello stesso ricorrente, in una sorta affidamento dipendente dalla prassi o dalla tolleranza dei superiori che, in quanto tale, pur non escludendo – per le ragioni dianzi illustrate – il dolo del reato oggetto di contesta- zione, può essere comunque valorizzato al fine dell’attenuazione della rimprovevolezza complessiva della condotta tenuta in riferimento all’unicità della violazione accertata presso l’amministrazione comunale di appartenenza.

10.5. Né, si noti, ha pregio la tesi seguita dai giudici di merito che, tra gli elementi ostativi, hanno attribuito rilievo alla futilità dei motivi per cui gli autori hanno agito, in questo modo ritenendo in sostanza configurabile nel caso in esame l’ipotesi ostativa di cui all’art. 131-bis, comma secondo, cod. pen., secondo cui “l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili”.

Il riferimento alla futilità del motivo, per come interpretato dai giudici di merito (pur essendo sostenuto da autorevole dottrina, secondo cui le presunzioni di non tenuità del fatto previste dal comma secondo, possono “essere apprezzate e ritenute dal giudice anche se non vi è stata formale contestazione, così come la formale contestazione da parte del pubblico ministero deve passare dal vaglio del giudice”), è tuttavia errato in quanto, ai fini della configurabilità della presunzione di non tenuità del fatto prevista dal comma secondo, è pur sempre necessario che sussista la contestazione, quantomeno in fatto, della corrispondente aggravante prevista dall’art. 61, comma primo n. 1, cod. pen. (l’avere agito per motivi abietti o futili).

Se, del resto, così non fosse si attribuirebbe al giudice il potere, destinato a sfociare nell’arbitrio in assenza di una formale contestazione dell’ipotesi aggravata, di ritenere di non particolare tenuità qualsivoglia condotta che, sulla base di parametri diversi da quello normativo indicato, seppur fondati sul prudente apprezzamento, risulti espressione, in virtù dell’apprezzamento soggettivo e personale del giudice, come ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, cod. pen.

Detto altrimenti, seguendo in tal senso l’opinione di autorevole dottrina, “per una scelta di politica criminale del legislatore, l’offesa non può essere ritenuta tenue né quando dal contegno illecito siano derivate la morte o le lesioni gravissime della persona, né quando la condotta criminosa sia stata posta in essere in presenza di quelle peculiari circostanze indicate dalla norma – ovvero per motivi abietti o futili, o con crudeltà, o con sevizia, o per aver profittato della minorata difesa della vittima – che normalmente costituiscono delle semplici circostanze aggravanti comuni del reato”.

Il che, dunque, avvalora la tesi, seguita dal Collegio, secondo cui, operando la presunzione in esame sul piano della colpevolezza, è necessario che di esse vi sia contestazione, quantomeno in fatto, al fine di consentire al reo di esplicare in maniera piena il proprio diritto di difesa.

La circostanza è infatti di natura soggettiva e si riferisce all’abiezione o alla futilità dei motivi, e soggiace pertanto alla regola dettata dall’art. 59, comma secondo, cod. pen. (Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa).

E, sotto tale profilo, la circostanza che la condotta si inquadrasse, per esplicito riconoscimento dello stesso ricorrente (OMISSIS), in una sorta i affidamento dipendente dalla prassi o dalla tolleranza dei superiori, lascia intendere che l’agente abbia evidentemente agito per un errato apprezzamento della situazione di fatto, fondato su una falsa, ma ragionevole e non pretestuosa, rappresentazione della realtà, ritenendo dunque di agire per un movente che non sarebbe obiettivamente futile se l’errore non si fosse verificato.

In tale ipotesi, infatti, il movente, inteso come effettiva causa psichica della condotta, non può ritenersi futile, poiché l’errore non dipende da incapacità introspettiva dell’agente o da un irragionevole processo psicologico di autogiustificazione che nasconde un impulso profondo a delinquere del tutto sproporzionato rispetto al reato commesso, sebbene da una falsa rappresentazione delle condizioni nelle quali l’agente ha operato.

In questo caso, la causa determinante del reato non è costituita, prevalentemente od esclusivamente, dall’istinto criminale dell’agente, talché viene meno la ragione dell’aggravante.

10.6. L’impugnata sentenza dev’essere, pertanto, sul punto, annullata, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, altra sezione, al fine di valutare la sussistenza o meno, nel caso di specie, della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.

11. Vanno trattati congiuntamente anche il quarto motivo del (OMISSIS) e il terzo del (OMISSIS) in quanto entrambi afferiscono al trattamento sanzionatorio e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, motivi anch’essi manifestamente infondati.

11.1. Quanto al preteso obbligo del giudice penale di tener conto di tutti i fattori attenuanti, trattasi di doglianze che non hanno pregio.

Sul punto, è sufficiente richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo cui la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato.(Sez. VI, n. 42688 del 24/09/2008).

Non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (tra le tante, Sez. III, n. 28535 del 19/03/2014).

11.2. Le censure appaiono manifestamente infondate anche con riferimento al giudizio di comparazione tra circostanze e l’entità della pena inflitta.

Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora, come nella fattispecie, non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. III, n. 26908 del 16/06/2004; Sez. V, n. 5582 del 30/09/2013) e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (SS.UU, n. 10713 del 25/02/2010; Sez. II, n. 31543 del 08/06/2017).

Del resto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte ammette la cd. motivazione implicita (Sez. 21 III n. 26191 del 28/03/2019) o con formule sintetiche (del tipo “si ritiene congrua” (Sez. II , n. 36104 del 27/04/2017).

11.3. La sentenza impugnata ha esaustivamente motivato sul trattamento sanzionatorio, facendo buon governo della legge penale e dando sostanzialmente conto delle ragioni che hanno guidato, nel rispetto del principio di proporzionalità, l’esercizio del potere discrezionale ex art. 132 c.p. della Corte di merito, ciò anche in relazione al diniego delle circostanze attenuanti.

Nella sentenza, inoltre, è stata ritenuta corretta la decisione del Tribunale di escludere la concessione delle attenuanti generiche, non sussistendo alcun elemento da valorizzare a tal fine, poiché entrambi gli imputati non avevano manifestato alcun segno di resipiscenza ma avevano cercato di sminuire la gravità dei loro comportamenti e di darne una giustificazione, circostanza dalla quale è stata desunta l’assenza di presa di coscienza del reato commesso.

Infine, prosegue la motivazione, non sono emersi elementi specifici che avrebbero potuto fondare la richiesta avanzata dalle difese.

Quanto alla dosimetria della pena, la Corte di appello ha motivatamente affermato che la pena principale, applicata dal Tribunale, si discosta in maniera lievissima dal minimo edittale (nella specie, la pena irrogata è pari ad 1 anno ed 1 mese di reclusione ed euro 500,00 di multa a fronte di un minimo previsto di 1 anno di reclusione ed euro 400,00 di multa) e ha tenuto conto dei parametri di cui all’art. 133 c.p., ovvero della gravità della condotta e dell’intensità del dolo, sicché la pena deve ritenersi pienamente congrua rispetto al disvalore del fatto.

Tali argomentazioni, congrue ed immuni da vizi logici evidenti, sfuggono al sindacato della Cassazione.

12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell’interesse del (OMISSIS).

12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.

Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del (OMISSIS), ovvero l’allontanarsi dal luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all’uscita, integra la violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 3/06/2005; Sez. II, n.22972 del 16/02/2018).

Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla citata pronuncia n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di servizio, agisce come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente esercitata.

Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di ciascun dipendente, non ha fatto venir meno l’aggravante dell’art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con finalità fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro in realtà inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione, risulta essere stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in “palese violazione di precise direttive superiori”.

La medesima condotta ha comunque integrato la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico servizio, la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.

Del resto, si è affermato che l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito al di fuori dell’ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013) e non essendo necessaria l’esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n.20870 del 30/04/2009; Sez. V, n.50586 del 07/11/2013; Id. n.13057 del 28/10/2015; Sez. III,n.24979 del 22/12/2017; Sez. V, n.9102 del 16/10/2019; Sez. III,n.17386 del 28/01/2021).

Inoltre, tra le circostanze concernenti le “qualità personali” del colpevole rientra certamente quella dell’aver commesso il fatto con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all’art. 61 c.p., n. 9, che é di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico ufficiale, ma perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità dell’azione, con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai sensi dell’art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53.687 del 25/11/2014).

12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo commesso attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale ha abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante rapporto pubblicistico: si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.

In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal (OMISSIS) non risulta essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la doglianza, non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità.

12.3. A ciò, occorre inoltre aggiungere come il motivo sia in parte qua anche aspecifico.

Sotto tale aspetto, é il caso di ricordare che quando le doglianze non risultano formulate tra i motivi di appello, circostanza evincibile anche dal riepilogo degli stessi riportato nel testo della sentenza impugnata (v. pag. 2 e del provvedimento impugnato che analiticamente enuncia i motivi di appello), il ricorrente, se ritiene incompleto o comunque non corretto il predetto riepilogo, ha il dovere processuale, avuto riguardo a quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 3, ultima parte, ed in virtù dell’onere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, imposto dall’art. 581, comma 1, lett. c), stesso codice, di contestare specificamente nel ricorso per cassazione l’incompletezza o l’erronea indicazione dei motivi di impugnazione proposti contro la prima sentenza, e ciò in quanto la tempestiva deduzione della violazione di legge come motivo di appello costituisce requisito che legittima la riproposizione della doglianza in cassazione e, pertanto, di ciò il ricorso, con la dovuta specificità, deve darne conto (tra le tante: Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017 – dep. 28/06/2017, Rv. 270627).

Si tratta di un orientamento del tutto condivisibile, dovendosi considerare che incorre nel vizio di difetto di pronuncia il giudice di appello che ometta di esaminare una questione espressamente prospettatagli nei motivi d’impugnazione oppure una questione che possa ritenersi allo stesso tacitamente devoluta, se ed in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente proposte, costituendone l’antecedente logico-giuridico.

Nel caso di specie, da un lato, non risulta che, con l’atto di appello, la questione sia stata proposta e, dall’altro, il ricorrente non ha assolutamente contestato che, nel testo della sentenza impugnata, sia stato omesso il contenuto di un motivo di ricorso devoluto e non esaminato, con la conseguenza che il motivo di gravame é, in parte qua, inammissibile perché, oltre ad essere nuovo, é anche generico.

Da qui, dunque, la complessiva infondatezza del motivo.

13. Infine, deve procedersi ad esaminare il residuo motivo di ricorso proposto nell’interesse del (OMISSIS).

13.1. Si tratta del quarto ed ultimo motivo, che presta parimenti il fianco al giudizio di inammissibilità.

13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche significativi riflessi patrimoniali. Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni indebitamente erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte fraudolente di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano all’Amministra- zione un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che investe l’autorevolezza e la credibilità dell’Amministrazione Pubblica, in generale, e dell’Ente interessato.

Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che l’atte- stazione falsa di presenza in servizio lede l’immagine dell’Amministrazione ed ha determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla gravità o dalla reiterazione della condotta.

La giurisprudenza contabile ha rilevato che l’art. 55-quinquies, D.Igs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di danno all’immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale diretta a determinare l’importo della lesione erariale, consistente nella condotta del di- pendente pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l’interruzione della prestazione attraverso il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in servizio (Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 6/03/2019; Corte dei conti, Sez. giurisd. Abruzzo, n. 110 del 6/09/2018).

Si è precisato che il legislatore ha inteso prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno dell’assenteismo pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette assenteistiche sono causa di lesione all’immagine” (Corte dei conti, n. 163 del 17/05/2018).

In proposito, la nozione di danno all’immagine deve essere considerata unitaria e, in ogni caso, espressiva di un’effettiva compromissione della reputazione dell’Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell’opinione dei consociati in merito alla correttezza dell’operato delle Pubbliche Amministrazioni.

Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento nell’art. 55-quinquies, comma 2 sopracitato, in forza del quale “Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno d’immagine di cui all’art. 55 quater, comma 3-quater”.

Avendo il ricorrente commesso l’illecito di cui all’art. 55-quinquies, il medesimo è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro omettendo di timbrare il badge all’uscita.

13.3. Quanto poi alla questione della subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento del risarcimento del danno, pur consapevole che sulla questione esiste un contrasto giurisprudenziale, ritiene questo Collegio di aderire a quell’orientamento — maggiormente aderente alla ratio sottesa alla norma penale – secondo cui l’istituto della sospensione condizionale della pena è ispirato a criteri che trascendono la limitata sfera dell’interesse particolare dell’imputato e, quindi, il giudice, nel subordinare il beneficio al pagamento della somma accordata a titolo di risarcimento danni, non è tenuto a compiere alcuna indagine sulle condizioni economiche dell’imputato.

Peraltro, il soggetto interessato può, in sede di esecuzione, allegare la comprovata assoluta impossibilità dell’adempimento spettando poi al Giudice valutare l’attendibilità e la rilevanza dell’impedimento dedotto (In senso conforme: Sez. III, n. 3197 del 13/11/2008; Sez. III, n. 38345 del 25/06/2013: Sez. V, n.15800 del 17/11/2015; Sez. II, n. 26221 del 11/06/2015; In senso difforme: Sez. II, n. 22342 del 15/02/2013; Sez. V, n. 21557 del 02/02/2015; Sez. V n. 11299 del 09/12/2019; Sez. VI n. 1867 del 06/10/2020).

In ogni caso, è stata fatta corretta applicazione, nel caso in esame, dei principi indicati in quanto il primo giudice ha motivato in relazione alla decisione di subordinare, ai sensi dell’art. 165 c.p., comma 1, la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno, trattandosi di statuizione che, a differenza di quella di cui all’art. 165 c.p., comma 2, non è imposta dalla legge, ma è frutto dell’esercizio del potere discrezionale del giudice.

Ed invero, a pag. 9 della sentenza, si legge che nei confronti di tutti gli imputati la sospensione condizionale della pena deve essere subordinata al pagamento del risarcimento del danno, essendo state escluse difficoltà economiche dei ricorrenti di adempiere in concreto al pagamento del risarcimento del danno.

Da qui la manifesta infondatezza del motivo.

14. In definitiva, la sentenza merita riforma unicamente sul punto relativo all’apprezzamento della sussistenza o meno della causa di non punibilità dell’articolo 131-bis c.p., dovendosi, nel resto, rigettare i ricorsi, con conseguente definitività dell’affermazione di responsabilità di entrambi i ricorrenti ex articolo 624 p.p..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’articolo 131-bis, c.p., con rinvio per nuovo giudizio su tale punto ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli.

Rigetta nel resto i ricorsi e dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità dei ricorrenti.

In Roma, il 3/06/2021.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.