Respinto l’appello del magistrato contro una sanzione per aver violato i doveri di correttezza in qualità di giudice del tribunale di Milano (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civile, Sentenza 23 marzo 2023, n. 8428).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASSANO Margherita – Presidente Agg. –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15572-2022 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) giusta procura in calce al ricorso;

ricorrente

contro

PROCURATORE GENERALE CORTE CASSAZIONE, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA;

intimati

avverso la sentenza n. 71/2022 del CONSIGLIO SUP. MAGISTRATURA di ROMA, depositata il 21/04/2022;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. ELISABETTA CENICCOLA, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/02/2023 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il Sostituto Procuratore Generale, Dott. ELISABETTA CENICCOLA, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) per la ricorrente.

FATTI DI CAUSA

1. La dott.ssa (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) venne incolpata dei seguenti illeciti disciplinari:

A) dell’illecito disciplinare di cui agli 1 e 2 lett. d) del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, perché, in violazione dei doveri di correttezza, diligenza ed equilibrio, in qualità di Giudice della Sezione V penale del Tribunale di Milano serbava un comportamento gravemente scorretto nei confronti del Presidente di sezione titolare, del Presidente coordinatore, dei componenti del collegio, delle parti e dei loro difensori e dei collaboratori dell’udienza del 19.7.20 nel proc. 111/2018 rg trib.

In particolare, quale componente del collegio, per disposizione tabellare, del processo n. (omissis) rg trib contro (OMISSIS) (OMISSIS) detenuto (per i reati di rapina, estorsione abuso sessuale ed altro), dopo avere partecipato alle udienze istruttorie del (OMISSIS) del tutto intempestivamente, il giorno dell’udienza del (OMISSIS) ancorché il Presidente titolare, dott. (OMISSIS) (OMISSIS) con email delle ore 9,29 le avesse confermato la contitolarità del processo, alle ore 15,00 comunicava al Presidente coordinatore, dott. (OMISSIS), che le era stata accolta l’istanza di astensione per essersi pronunciata nei confronti del compartecipe (OMISSIS) con rito alternativo nel procedimento n. (OMISSIS) (per furto), ancorché ciò non corrispondesse alla realtà dei fatti; l’astensione seduta stante le veniva rigettata per insussistenza del presupposto. Tale vicenda determinava un ritardo nell’inizio dell’udienza, fissata per le ore 14,30 e la successiva sospensione derivante dal suo repentino allontanamento dall’aula tra le ore 16,09 e le ore 16,17 (senza avanzare alcuna richiesta al Presidente).

In (OMISSIS) (OMISSIS) notizia pervenuta il (OMISSIS) a seguito di nota della (OMISSIS).

B) dell’illecito disciplinare di cui agli 1 e 2 lett. d) del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, perché, in violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza ed equilibrio, quale (OMISSIS) teneva un comportamento gravemente scorretto nei confronti della parte offesa, del suo difensore e del Pubblico Ministero.

In particolare, nel processo (OMISSIS) trib. a carico di (OMISSIS) (OMISSIS) per il reato di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate, pochi minuti dopo l’inizio dell’esame, con modalità protetta della persona offesa, (OMISSIS) difesa dall’Avv. (OMISSIS), esame condotto dal P.M., assumendo l’insussistenza della convivenza di fatto, interrompeva l’esame per pronunciare sentenza ex art. 129 c.p.p., intento da cui recedeva solo su insistenza del Pubblico Ministero e del difensore di parte civile. Ripreso l’esame, interrompeva continuamente la deposizione e, quando il Pubblico Ministero chiedeva alla persona offesa, in stato di difficoltà, se avesse bisogno di fermarsi un attimo, alla richiesta di avere un bicchiere d’acqua replicava con comportamento gravemente disattento ai diritti ed alle esigenze della parte escussa: “Non passa l’acqua per i testi, non è previsto“; alla richiesta di verbalizzazione da parte del P.M. dello stato della persona offesa, in lacrime e tremante, rispondeva definendo la richiesta “cose che non è possibile concedere”.

(OMISSIS) (OMISSIS), notizia pervenuta il (OMISSIS) 2020, a seguito di nota della (OMISSIS).

C) dell’illecito disciplinare di cui agli 1 e 2 lett. a), d), ed l) del decreto legislativo (OMISSIS) 2006 n. (OMISSIS), perché, in violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza ed equilibrio, in qualità di (OMISSIS) teneva un comportamento gravemente scorretto nei confronti del Pubblico Ministero, e della persona offesa, (OMISSIS) (OMISSIS) e pronunciava un provvedimento privo di motivazione, arrecando un indebito vantaggio all’imputato.

In particolare, all’udienza del (OMISSIS) 2020, nel processo n. (OMISSIS) trib. a carico di (OMISSIS) (OMISSIS) detenuto in custodia cautelare per il reato di stalking (recidivo specifico, reiterato ed infraquinquennale), subito dopo l’ammissione delle prove, sollecitava le parti a formulare una richiesta sul mantenimento della misura cautelare e disponeva la revoca della misura in atto, sul presupposto che l’imputato era detenuto dal (OMISSIS) 2020, motivandola con l’impossibilità di procedere all’istruttoria dibattimentale per assenza del difensore di fiducia dell’imputata e mancata comparizione dei testi, ovvero con grave violazione di legge, per motivi estranei alla gravità indiziaria ed alle esigenze cautelari, che solo l’avrebbero potuta consentire.

(OMISSIS) (OMISSIS), notizia pervenuta il (OMISSIS) 2020, a seguito di nota della (OMISSIS).

Con sentenza del 21/04/2022 n. 71 la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura dichiarava la dott.ssa (OMISSIS) responsabile dell’illecito di cui al capo B) e degli illeciti di cui all’art. 2 lett. a) ed l) di cui al capo C) e l’ha condannata alla sanzione disciplinare della censura.

La sentenza evidenziava che il procedimento disciplinare aveva tratto origine dall’iniziativa della Procura Generale presso la Corte di Cassazione, in data 19 febbraio 2021, con la quale erano stati contestati alla dott.ssa (omissis) gli illeciti disciplinari di cui all’incolpazione, e ciò a seguito dell’invio di tre note di cui una del (OMISSIS) e le altre due del (OMISSIS) (OMISSIS).

La Sezione Disciplinare, dopo avere richiamato la nozione di “grave scorrettezza”, quale delineata nella giurisprudenza di legittimità, reputava però insussistente l’illecito di cui al capo A).

Dall’esame degli atti emergeva, infatti, che il Presidente coordinatore del settore penale del (OMISSIS) in precedenza, aveva accolto in un diverso procedimento nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS) la richiesta di astensione della dott.ssa (OMISSIS) quanto la stessa aveva in precedenza emesso sentenza di patteggiamento nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS) coimputato di (OMISSIS) per il delitto di furto aggravato.

Successivamente l’incolpata aveva ritenuto che tale situazione di incompatibilità potesse ravvisarsi anche nel diverso procedimento nel quale era stata formulata l’incolpazione sempre nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS).

La nota della dott.ssa (OMISSIS) depositata alle ore 15 del giorno di udienza il (OMISSIS) 2018), con la quale veniva avanzata richiesta di autorizzazione all’astensione, veniva respinta dal coordinatore, che riteneva insussistenti situazioni di incompatibilità ex art. 34 cod.proc.pen.

Ancorché la richiesta fosse intempestiva, oltre che erronea nei presupposti, non risultava che l’incolpata avesse comunicato circostanze non corrispondenti alla realtà dei fatti, ne’ si poteva escludere che fosse incorsa in errore sull’esistenza di una situazione di incompatibilità.

Quanto poi alla condotta di allontanamento dall’aula di udienza per circa otto minuti senza darne avviso al Presidente del Collegio, la sentenza escludeva la configurabilità di scorrettezza, atteso il breve lasso di tempo dell’allontanamento senza preavviso ai colleghi, e lo stato di salute del magistrato, affetto da un’intolleranza alimentare confermata da un certificato medico. Sussisteva, quindi, il fondato dubbio che la dott.ssa (OMISSIS) si fosse allontanata per urgenti necessità personali.

In relazione all’illecito di cui al capo B), contenente due distinti profili di addebito, pur se avvenuti nel corso della medesima udienza dibattimentale del (OMISSIS) 2019 nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS) imputato per i reati di maltrattamento in famiglia e lesioni aggravate in danno di (OMISSIS), la sentenza osservava che il primo profilo concerneva la manifestata intenzione di pronunciare subito sentenza assolutoria ex art. 129 c.p.p. per il reato di maltrattamenti in famiglia, senza concludere l’esame della persona offesa, subito dopo che la teste aveva dichiarato che con il fidanzato (OMISSIS) non vi era una convivenza di fatto.

Il secondo profilo riguardava, invece, le modalità di conduzione dell’audizione della persona offesa, in evidente stato di difficoltà emotiva.

Grazie all’ascolto della fonoregistrazione dell’udienza dibattimentale del (OMISSIS) 2019 (oggetto di fedele trascrizione), la Sezione Disciplinare aveva ricostruito il clima in cui si era svolta l’udienza.

Emergeva che effettivamente la dott.ssa (OMISSIS) dopo la dichiarazione della persona offesa di non essere convivente di fatto di (OMISSIS) aveva affermato di volere pronunciare sentenza assolutoria ex art. 129 c.p.p., da intendersi, molto probabilmente, riferita al solo delitto di cui all’art. 572 c.p. tanto premesso, la Sezione Disciplinare evidenziava che, se in astratto il giudice può ritenere sussistenti le condizioni per emettere una sentenza ex art. 129 c.p.p., tuttavia nel caso di specie la condotta della dott.ssa (OMISSIS) appariva quantomeno singolare, atteso che la persona offesa era chiamata a testimoniare su entrambe le imputazioni, per uan delle quali non rilevava lo stato di convivenza, e pertanto, sarebbe stato opportuno far terminare la testimonianza per eventualmente procedere all’esito allo stralcio del delitto di lesioni aggravate per il quale non vi erano i presupposti di una sentenza assolutoria ex art. 129 c.p.p.

Tuttavia, l’anticipazione della volontà di definire il procedimento ex art. 129 c.p.p. su un solo capo d’imputazione, ad avviso della Sezione Disciplinare, rientrava comunque nelle scelte rimesse al libero convincimento del giudice, su cui non è ammesso il sindacato disciplinare.

Diversa conclusione doveva, invece, essere assunta quanto alle modalità di conduzione dell’esame della persona offesa costituita parte civile.

Considerato che al giudice spetta il compito di assicurare non solo il regolare svolgimento dell’udienza dal punto di vista dell’osservanza delle norme processuali, ma anche il rispetto della dignità dei soggetti coinvolti nei singoli processi, garantendo che il contributo dei testimoni alla ricerca della verità processuale avvenga in un clima di serenità e di fiducia nei confronti dell’organo giudicante, tra le norme da rispettare si impone il dovere di correttezza da parte del giudice nei confronti delle parti processuali.

Nel caso di specie era emerso che la persona offesa, durante la sua audizione, precisamente quando stava per descrivere alcune condotte violente dell’imputato in suo danno, aveva accusato un momento di forte disagio emotivo, manifestatosi in un’evidente difficoltà a proseguire l’esame testimoniale.

L’audizione della fonoregistrazione evidenziava questa situazione: la teste aveva iniziato a sospirare profondamente, aveva mutato il tono della voce che si era incrinato, come se la donna fosse in procinto di scoppiare in lacrime, tant’è che il pubblico ministero si era preoccupato di chiedere al giudice un po’ d’acqua per la testimone e aveva chiesto di dare atto a verbale che “la teste piange e trema in questo momento”.

Secondo la sentenza, la dott.ssa (OMISSIS) non poteva non aver percepito anche essa che in quel momento la teste stava per piangere ed era molto turbata e che quindi vi sarebbe stata la necessità di interrompere per qualche minuto l’audizione.

Di fronte alle evidenti difficoltà della persona offesa, la decisione della dott.ssa (OMISSIS) di proseguire l’esame testimoniale, si era caratterizzata in negativo per l’atteggiamento insofferente e per le espressioni quasi scontrose nei confronti sia del pubblico ministero sia della teste. Era stata così impedita di fatto anche una momentanea sospensione dell’esame stesso, esigenza non infrequente nei processi per reati sessuali o maltrattamenti.

Significativa in tal senso appariva la frase pronunciata dall’incolpata che, rivolta al P.M., il quale aveva chiesto un po’ d’acqua per la testimone ed un momento di pausa, aveva detto: ” Mi scusi pubblico ministero ma sta continuando a chiedere cose che non è possibile concedere. Già le sto consentendo di andare avanti con l’esame quando ho già espresso il mio pensiero, no ?”.

Poteva quindi affermarsi che l’incolpata aveva condotto l’udienza senza tenere in nessuna considerazione le difficoltà manifestate dalla persona offesa, ignorando del tutto le corrette modalità di audizione dei soggetti cosiddetti “fragili o deboli“, oggetto di insegnamento nei corsi di formazione professionale riservati ai magistrati. Inoltre, si riscontrava anche un atteggiamento di malcelato fastidio per il processo da svolgere, messo in luce dai toni irritati nei confronti del pubblico ministero che cercava di tranquillizzare la persona offesa la quale manifestava forte agitazione. Tale assunto trovava conferma nelle stesse dichiarazioni difensive rese dalla dott.ssa (OMISSIS) dalle quali risultava confermato che essa nutriva la convinzione che il processo poteva essere concluso con sentenza ex art. 129 c.p.p. e che la testimone non era pienamente attendibile.

Avuto riguardo alla gravità della scorrettezza, da parametrare all’entità della lesione del bene giuridico protetto, con tali condotte la dottoressa (OMISSIS) aveva leso la fiducia e il prestigio di cui il giudice deve godere.

Quanto, infine, agli illeciti di cui al capo C), la sentenza del pari riteneva che la dott.ssa (OMISSIS) ne fosse responsabile, non essendo configurabile solo l’ipotesi di cui alla lett. d) dell’art. 2 del decreto legislativo n. 109 del 2006.

Infatti, dalle prove raccolte emergeva che l’incolpata dettò a voce al cancelliere di udienza il contenuto dell’ordinanza di revoca della misura cautelare detentiva applicata in precedenza all’imputato (OMISSIS)(OMISSIS) preferendo operare in tal modo anziché scrivere l’ordinanza in camera di consiglio o addirittura riservarsi sull’istanza di revoca per poi depositarla fuori udienza.

Nel provvedimento dettato, dopo le conclusioni delle parti, si legge quanto segue: “Il Giudice, rilevato che l’imputato è ristretto in custodia cautelare dal 2 (OMISSIS) 2020 e che in questa data non è stato possibile celebrare il processo per mancata comparizione del suo difensore di fiducia e per assenza di testi (impossibilitati a comparire come da giustificazioni inviate), rinvia il processo all’udienza del (OMISSIS) 2021, come meglio sopra specificato e revoca la misura cautelare della custodia in carcere per l’imputato”.

Emergeva altresì che il verbale era privo di sottoscrizione da parte del giudice e riportava solo la firma del cancelliere d’udienza.

Il provvedimento di revoca della misura cautelare non conteneva alcuna motivazione in ordine alla gravità indiziaria e neppure relativamente alla permanenza delle esigenze cautelari (anche solo per affermare ad esempio che esse erano scemate in ragione del tempo trascorso) e ciò in quanto l’indicazione della data di emissione della misura non era connessa ad alcuna argomentazione successiva sulla permanenza delle esigenze cautelari.

La revoca della custodia cautelare era stata immediatamente impugnata dal pubblico ministero proprio in ragione della mancanza di motivazione sotto ogni profilo.

Per giustificare la sua condotta, l’incolpata aveva riferito che l’udienza era molto disturbata anche mentre lei dettava il provvedimento al cancelliere, e che il verbale non le era stato sottoposto, perché altrimenti si sarebbe “…accorta che l’ordinanza risultava motivata esclusivamente sul decorso del tempo…” e perciò andava integrata.

Ricorreva quindi l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. 109/2006, essendo mancata una motivazione, anche solo in forma succinta. In particolare, la ratio dell’illecito in esame non investe solo l’aspetto formale dell’inosservanza delle norme processuali, ma inerisce alla sostanza delle motivazione rese dai giudici, ossia consentire alle parti di comprendere le ragioni osta a base di un determinato provvedimento, che nella specie, era rimasto del tutto oscuro, diventando così un “immotivato comando” di scarcerazione.

Ai fini dell’integrazione dell’illecito di cui alla lettera l) dell’art. 2 è estranea la considerazione del pregiudizio che dalla omessa motivazione (invece richiesta dalla legge) possa essere derivata dalla parte, giacché la possibile mancanza di pregiudizio non incide sulla rilevanza dell’illecito disciplinare quando il comportamento del magistrato medesimo risulti comunque idoneo, secondo la valutazione del giudice di merito, ad arrecare discredito all’ordine giudiziario.

Ciò privava di rilievo la deduzione difensiva secondo cui la revoca della misura cautelare detentiva non comportava alcun effettivo pregiudizio alla persona offesa in quanto rimaneva in vigore un’altra misura cautelare, e precisamente il divieto di avvicinamento alla persona offesa, emessa nei confronti dello stesso imputato.

Quanto all’altro illecito contestato, previsto dalla lett. a) dell’art. 2 citato, la condotta della dott.ssa (OMISSIS) che non aveva motivato il provvedimento di revoca dettato a verbale e non aveva neppure successivamente verificato il contenuto del provvedimento, aveva arrecato un indebito vantaggio alla parte.

Rilevava a tal fine la circostanza che, come riferito nell’atto di impugnazione del provvedimento de quo da parte del PM, l’imputato, due giorni dopo la sua scarcerazione, era stato nuovamente arrestato in flagranza per il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., sempre in danno del fratello.

Da ciò era dato concludere che il provvedimento di revoca della misura cautelare aveva procurato senza dubbio un indebito vantaggio all’imputato che, in forza di esso, era stato scarcerato.

E’ vero che il capo di incolpazione non menzionava l’ingiusto danno arrecato alla persona offesa, ma trattasi di circostanza che, seppure estranea alla contestazione disciplinare, era utile per comprendere l’elevata gravità della condotta negligente che poteva produrre effetti ancor più pericolosi per la persona offesa.

Essendo unico il fatto storico da sanzionare (l’emissione di un solo provvedimento privo di motivazione), e pur potendo tale condotta in astratto integrare sia l’illecito di cui alla lett. l) sia quello di cui alla lett. d), tuttavia la grave scorrettezza sia consistita nell’adozione di un provvedimento giudiziario privo di motivazione o con motivazione apparente, integrava una fattispecie speciale, rispetto all’ipotesi di cui alla lett. d).

Avuto riguardo alle condotte illecite per le quali era stata ravvisata la responsabilità disciplinare, la sentenza escludeva che fosse applicabile la scriminante di cui all’art. 3 bis del D.lgs. 109/2006, stante la gravità riscontrata, atteso che nella considerazione delle parti presenti ai due distinti processi penali l’immagine professionale e il prestigio dell’incolpata erano risultati gravemente compromessi.

Quanto al trattamento sanzionatorio la Sezione Disciplinare reputava congrua la condanna alla censura, e ciò in considerazione del fatto che si trattava di due specifici episodi a fronte di centinaia di processi celebrati dalla dott. (OMISSIS) negli anni 2018/2020.

2. Avverso la sentenza disciplinare è stato proposto ricorso per cassazione da (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) sulla base di tre motivi.

3. Gli intimati non hanno svolto difese in questa sede.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia, ex 606, co. 1, lett. c), c.p.p., l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di decadenza, ed in particolare l’inosservanza del disposto dell’art. 15 co. 1, del D. Lgs. n. 109/2006, nella parte in cui dispone che l’azione disciplinare sia promossa entro un anno dalla notizia del fatto da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.

Deduce la ricorrente che quanto al capo di incolpazione sub B), la notizia del fatto era pervenuta in data 13 febbraio 2020 a seguito di nota della Presidenza del Tribunale di Milano, ma che l’azione disciplinare è stata promossa solo in data (omissis) 2021 (ultime due righe di pag. 3 della sentenza gravata), il che imponeva il proscioglimento per l’improcedibilità dell’azione disciplinare a seguito di decadenza della Procura Generale dall’esercizio della relativa azione.

Il Collegio ritiene che, in applicazione del principio della ragione più liquida, possa pervenirsi alla decisione nel merito del motivo in esame, attesa la sua infondatezza, senza la necessità di dover approfondire la questione posta dalla requisitoria del Pubblico Ministero circa la asserita inammissibilità della deduzione, solo in sede di legittimità, dell’intervenuta  decadenza dell’azione disciplinare per il decorso del tempo.

Il motivo è privo di fondamento, in quanto non tiene conto delle previsioni di cui all’art. 103 del D.L. n. 18/2020, convertito nella legge n. 27/2020, che al primo comma prevede che:

1. Ai fini del computo dei termini ordinatori o perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di procedimenti amministrativi su istanza di parte o d’ufficio, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, non si tiene conto del periodo compreso tra la medesima data e quella del 15 aprile 2020. Le pubbliche amministrazioni adottano ogni misura organizzativa idonea ad assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei procedimenti, con priorità per quelli da considerare urgenti, anche sulla base di motivate istanze degli interessati. Sono prorogati o differiti, per il tempo corrispondente, i termini di formazione della volontà conclusiva dell’amministrazione nelle forme del silenzio significativo previste dall’ordinamento.

Il successivo quinto comma dispone poi che:

5. I termini dei procedimenti disciplinari del personale delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi inclusi quelli del personale di cui all’articolo 3, del medesimo decreto legislativo, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, sono sospesi fino alla data del 15 aprile 2020.

Il termine di cui al primo comma è stato poi prorogato alla data del 15 maggio 2020, a norma dell’articolo 37, comma 1, del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla Legge 5 giugno 2020, n. 40, analogamente al termine di cui al quinto comma, mentre il solo termine di cui al primo comma a norma dell’articolo 41, comma 1, del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77, è stato prorogato al 30 novembre 2020.

La norma che è stata emanata al fine di assicurare il contenimento del rischio epidemiologico, scaturente dalla recente diffusione della pandemia da Covid-19, ha per l’appunto previsto una sospensione anche dei termini dei procedimenti disciplinari riguardanti i magistrati, come si ricava dal riferimento al personale di cui all’art. 3 del D. Lgs.165/2001.

A fronte dell’obiezione secondo cui il comma 5 dell’art. 103 fa riferimento solo a procedimenti disciplinari pendenti o iniziati in data successiva al 23 febbraio 2020 – il che presuppone che sia intervenuta la richiesta di indagini rivolta dal Ministero della Giustizia al PG presso la Corte di Cassazione ovvero la comunicazione data da quest’ultimo al CSM, ex artt. 14, co. 3, e 15, co. 3, del D. Lgs. n. 109/2006, con conseguente inapplicabilità della previsione de qua ove alla notizia di illecito pervenuta dal Tribunale di Milano non sia effettivamente seguito alla data di entrata in vigore della norma uno degli atti menzionati – può però replicarsi osservando che la vicenda disciplinare ha inizio proprio nel momento in cui la notizia del fatto disciplinarmente rilevante è acquisita dal Ministero della Giustizia o dal Procuratore Generale, poiché è da tale momento che decorre, come ricordato anche dalla ricorrente, il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione disciplinare (art. 14 cpv. del D. Lgs. n. 109/2006).

Ma anche a voler reputare che la vicenda oggetto di causa fosse ancora in una fase cd. pre-disciplinare, con connotazione ancora spiccatamente amministrativa, ancorché non risulti invocabile la sospensione dei termini di cui al comma 5 dell’art. 103, risulterebbe in ogni caso applicabile la generale sospensione del comma 1 del medesimo articolo che fa riferimento alla neutralizzazione del periodo contemplato dalla norma per tutti i termini ordinatori o perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di procedimenti amministrativi su istanza di parte o d’ufficio pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o successivamente iniziati. Ciò comporta che al termine di un anno decorrente dalla ricezione della notizia dell’illecito (3 febbraio 2020), deve aggiungersi il periodo previsto dalla norma, con la conclusione che l’avvenuta promozione dell’azione disciplinare in data 19 febbraio 2021, ha impedito la decadenza annuale, dovendo intendersi il relativo termine incrementato del periodo compreso tra la data del 23 febbraio 2020 e quella del 30 novembre 2020.

2. Il secondo motivo lamenta l’inosservanza del disposto dell’art. 2, co. 2, del D. Lgs. n. 109/2006, quanto all’insindacabilità in sede disciplinare dell’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove, con conseguente erronea applicazione, relativa alla responsabilità di cui al capo di incolpazione sub B) e C), del disposto di cui alla lett. d) (relativamente all’addebito di cui al capo B), e di cui alle lettere a) ed l) del co. 1 dell’art. 2 del D. Lgs. n. 109/2006 (relativamente al capo di incolpazione sub C), con erronea applicazione della legge sorretta da motivazione carente, contraddittoria e manifestamente illogica, vizio che risulta dallo stesso testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo.

Quanto alla condanna per la violazione dell’illecito di cui al capo B, si assume che il carattere elastico della fattispecie sia stato erroneamente invocato dal giudice disciplinare.

Si contesta la violazione dell’obbligo del giudice di assicurare il regolare svolgimento dell’udienza nel rispetto della dignità dei soggetti coinvolti, e si lamenta che la sentenza impugnata non abbia adeguatamente spiegato perché non sarebbe stata assicurata la dignità della persona offesa in sede di audizione.

In sostanza si addebiterebbe alla dott.ssa (OMISSIS) solo di avere negato dell’acqua alla teste, scelta dettata esclusivamente dalla finalità di non interrompere la sua escussione, peraltro protrattasi per ben ottanta minuti.

Ogni intervento della ricorrente è stato connotato dall’utilizzo di espressioni di scusa per l’eventuale interruzione, così come del pari deve escludersi che il suo atteggiamento nei confronti del pubblico ministero sia stato idoneo a determinare una scorrettezza.

Non è sindacabile la scelta di voler immediatamente procedere all’emissione di sentenza di proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p., ma deve considerarsi che comunque è stata assicurata l’audizione della persona offesa, essendo del tutto legittimo condurre tale audizione senza dare adito al sospetto di una forma di indulgenza nei confronti della stessa.

Né, inoltre, è imputabile alla ricorrente l’omessa menzione nel verbale riassuntivo dell’udienza dello stato di agitazione della teste, in quanto, oltre a trattarsi della persona offesa, tale condizione psicologica sarebbe in ogni caso emersa dalla trascrizione della fonoregistrazione.

Con un secondo punto sviluppato all’interno del medesimo motivo, la ricorrente, quanto ai fatti di cui al capo di incolpazione sub C), lamenta che le sarebbe stato erroneamente imputato, nel provvedimento che disponeva la scarcerazione dell’imputato, di non avere motivato sulla gravità indiziaria dei fatti, senza considerare che, pur essendo ormai consentito al giudice del dibattimento di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ove chiamato a pronunciarsi sulle misure cautelari applicate all’imputato, di norma tale valutazione non viene compiuta in sede dibattimentale, onde prevenire l’accusa di avere anticipato l’esito dell’imminente giudizio di merito.

Alcuna motivazione sulla gravità indiziaria poteva quindi essere pretesa, mentre, quanto alle esigenze cautelari, si deduce che sarebbe erronea l’affermazione secondo cui il provvedimento risulterebbe del tutto privo di motivazione.

Il richiamo alla data di applicazione della misura cautelare non può che voler significare un giudizio anche in ordine alla permanenza delle originarie esigenze che avevano suggerito l’adozione della misura custodiale.

Trattasi di motivazione sommaria, ma che non consente di affermare che sia del tutto carente.

Non sono quindi pertinenti i precedenti giurisprudenziali richiamati nella sentenza impugnata, così come risulta essere un fuor d’opera il richiamo al vantaggio o al danno arrecato alle parti, facendo richiamo a vicende successive alla scarcerazione, occorrendo arrestare il giudizio alla situazione esistente al momento dell’adozione del provvedimento oggetto di contestazione.

Infine, si invoca l’applicazione del principio di specialità anche in relazione al concorso tra le lett. a) ed l), in quanto l’indebito vantaggio dell’imputato non deriva dal difetto di motivazione, ma caso mai dalla tipologia del provvedimento adottato

3.1. In relazione alla censura che investe la condanna emessa per l’illecito di cui al capo B), la Corte ritiene che la stessa si risolve, pur a fronte della formale affermazione del difensore di non volere accedere a tale esito, in una sostanziale richiesta di rivalutazione del merito, in contrasto con quanto operato dalla Sezione Disciplinare, con motivazione logica e coerente, del tutto immune dalle critiche mosse in ricorso.

Il giudice disciplinare, pur prendendo atto delle deduzioni difensive della ricorrente, che appaiono sostanzialmente reiterate in questa sede, ha però rilevato che le modalità di conduzione dell’udienza, ed in particolare dell’escussione della persona offesa, erano del tutto anomale, in contrasto con il canone generale secondo cui occorre garantire che lo svolgimento dell’udienza avvenga in un clima di serenità e di fiducia nei confronti del giudice, il quale deve rifuggire da ogni atteggiamento che possa far dubitare della sua imparzialità.

In particolare, ove la vicenda oggetto di causa sia relativa a procedimenti che vedano coinvolti soggetti potenzialmente fragili o deboli, come nel caso di asserita commissione di atti di violenza in danno di una donna, secondo quanto ormai ribadito anche nell’ambito dell’attività deputata alla formazione dei magistrati, la conduzione dell’interrogatorio della persona offesa deve avvenire con modalità tali da contemperare l’accertamento dei fatti con l’esigenza di andare incontro a quelle difficoltà che, proprio in ragione della tipologia degli episodi suscettibili di essere richiamati alla memoria, la persona offesa potrebbe incontrare nel ricordare e narrare, rievocando per l’appunto fatti in grado di incidere profondamente sulla sua sensibilità.

La sentenza impugnata, ritenuta di per sé non idonea a determinare la responsabilità disciplinare della dott.ssa (OMISSIS) la manifestata intenzione di addivenire ad un’immediata pronuncia ex art. 129 c.p.p. per il reato di maltrattamenti in famiglia (e ciò sebbene si procedesse anche per il reato di lesioni dolose aggravate), ha però soffermato la sua attenzione proprio sulle modalità di conduzione dell’udienza, ritenute in totale contrasto con le regole sia processuali che deontologiche che presiedono all’attività del giudice.

In tal senso è stato ritenuto essenziale l’ascolto della fonoregistrazione dell’udienza dibattimentale del 2 maggio, , sebbene la sua trascrizione testuale sia avvenuta in maniera fedele, idonea a consentire la ricostruzione dei fatti.

La riproduzione audio dell’udienza traduce in termini immediati le difficoltà incontrate dalla persona offesa nel corso della deposizione, il mutamento del tono della voce, accompagnato da profondi sospiri, il sopravvenire di una crisi di pianto, circostanze queste emerse allorché la teste era stata chiamata a ricordare le condotte violente asseritamente poste in essere in suo danno dall’imputato.

A fronte della comprensibile richiesta del pubblico ministero di offrire  dell’acqua  alla  teste,  anche  al  fine  di smorzare la tensione del momento, la dott.ssa (OMISSIS) si è rifiutata sia di dare seguito alla richiesta del pubblico ministero di verbalizzare una sommaria descrizione delle condizioni in cui versava la teste (“piange e trema in questo momento”), ma ha altresì rifiutato che potesse esserle offerta dell’acqua, assumendo che fosse una richiesta che non poteva essere assentita.

La sentenza ha altresì aggiunto che tale atteggiamento volto a negare un momento di pausa al teste, in un momento di evidente difficoltà, era da correlare al complessivo atteggiamento tenuto dal giudice durante tutto il corso dell’udienza, connotato da una generale insofferenza per la prosecuzione del processo (che intendeva definire in limine con la pronuncia ex art. 129 c.p.c.), e con l’assunzione di toni irritati anche nei confronti del pubblico ministero, che invece, resosi conto delle condizioni psicologiche del teste, intendeva assicurare il ripristino, per quanto possibile, delle condizioni di serenità reputate necessarie per la prosecuzione dell’escussione.

A fronte di tale quadro probatorio, che, come detto, si fonda anche e soprattutto sul riscontro della fonoregistrazione dell’udienza, in grado di trasmettere all’ascoltatore anche le sfumature verbali ed il reale tenore delle espressioni adottate, la ricorrente si limita a richiamare il contenuto delle trascrizioni della stessa udienza, sottolineando come i suoi vari interventi fossero sovente preceduti da espressioni di scusa o da forme verbali di cortesia.

Tuttavia non può ignorarsi che anche il rispetto di forme di continenza verbale o l’adozione di espressioni che evochino regole di correttezza formale non possono elidere quanto è emerso a seguito dell’audizione della fonoregistrazione, che ha denotato come fosse ben diverso l’atteggiamento sostanziale tenuto dall’incolpata, che ha conservato per tutto il tempo riservato all’audizione della teste un atteggiamento di malcelato fastidio, come appunto verificato dal giudice disciplinare, in quanto convinta (come poi confermato anche dalle dichiarazioni rese in sede di istruttoria disciplinare) dell’atteggiamento artificioso e teatrale della teste.

Ed, infatti, ove anche tali dubbi fossero corrisposti ad un’effettiva inattendibilità della teste, ciò non esimeva dal dover condurre la sua escussione in ottemperanza alle regole deontologiche e processuali che impongono il rispetto delle parti e dei soggetti a vario titolo coinvolti nel processo, e l’osservanza dell’immagine di terzietà ed imparzialità durante la celebrazione del processo.

Deve, quindi, reputarsi che sia incensurabile l’accertamento operato in sentenza che ha ritenuto che l’atteggiamento di diffidenza nei confronti della teste e di scarsa attenzione alle difficoltà dalla stessa incontrate nel corso della deposizione, unitamente al contegno serbato nei confronti del rappresentate dell’accusa, di cui sono state disattese le richieste volte a meglio illustrare il reale andamento dell’audizione, nonché a fornire ausilio alla teste, abbiano integrato l’illecito disciplinare di cui al capo di incolpazione.

La decisione impugnata ha correttamente fatto richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che ha appunto ritenuto che la nozione di “grave scorrettezza” contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, nel rendere sanzionabili disciplinarmente i comportamenti del magistrato nei confronti delle parti, dei difensori, di altri magistrati e di chiunque abbia con esso rapporti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ha carattere “elastico”.

Per l’effetto, in funzione del giudizio di sussunzione dei fatti accertati nella norma che tipizza il predetto illecito, il giudice disciplinare deve attingere sia ai principi che la disposizione (anche implicitamente) richiama, sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, così da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione che, come tale, è suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico sociale in cui deve trovare operatività (Cass. S.U. n. 29823/2020; conf. Cass. S.U. n. 31058/2019).

Peraltro, la stessa giurisprudenza di questa Corte – e ciò in risposta all’asserzione di parte ricorrente secondo cui il precedente del 2020 sopra riportato farebbe riferimento a vicende svoltesi al di fuori dell’udienza e con l’utilizzo di espressioni evidentemente lesive della dignità dei soggetti cui erano rivolte – ha ritenuto che risponda dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, il magistrato che, contravvenendo ai doveri di correttezza, equilibrio e rispetto della persona, individuati dall’art. 1 del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006, quali precondizioni essenziali di un corretto esercizio della giurisdizione, si abbandoni, in udienza, a comportamenti indicativi di scarso controllo della propria impulsività e di aggressività verbale, assumendo così un contegno che, per essere tenuto in pubblico e davanti ad estranei all’ordine giudiziario, assume, anche per il pregiudizio arrecato all’immagine di una giurisdizione esercitata in termini di equilibrio e terzietà, quel carattere di oggettiva gravità richiesto per la sussistenza dell’illecito (Cass. S.U. n. 20588/2013, che ha sanzionato in via disciplinare il P.M. che – nel corso di un procedimento a carico di prevenuto arrestato in flagranza di reato – aveva criticato platealmente i provvedimenti del giudice, mantenendo un atteggiamento di contestazione verso il medesimo, nonostante il suo invito a rimandare alla fine dell’udienza ogni discussione).

3.2. Quanto alla articolazione del motivo che investe la correttezza della sanzione relativa al capo di incolpazione sub C), ad avviso del Collegio deve ritenersi che lo stesso sia del pari privo di fondamento.

Ancorché possa concordarsi con la difesa della ricorrente circa la superfluità di una specifica motivazione in merito alla ricorrenza dei gravi indizi di colpevolezza, essendosi ormai nella fase dibattimentale, e dovendo quindi escludersi la necessità, ai fini dell’adozione del provvedimento di revoca della misura cautelare, di una motivazione anche in ordine a tale profilo, tuttavia deve reputarsi che, sia pur limitatamente alla permanenza delle esigenze cautelari, la motivazione dell’ordinanza resa in udienza sia meramente apparente e quindi sostanzialmente assente, il che rende legittima la contestazione dell’illecito di cui all’art. 2, co. 1, lett. l).

Questa Corte, anche di recente, ha ribadito che integra l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, il comportamento di un magistrato di sorveglianza che – per negare ad una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare l’autorizzazione ad allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza – abbia adottato un provvedimento la cui motivazione consiste nella sola declamazione dell’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 284, comma 3, c.p.p., richiamato dall’art. 47 ter della legge n. 354 del 1974, privando così la richiedente della possibilità di cogliere la ragione della decisione, destinata a risolversi nell’espressione di un immotivato diniego (Cass. S.U. n. 3780/2021).

Tali principi inducono a ritenere, in maniera analoga, ed in relazione alla fattispecie in esame, che sia sostanzialmente priva di motivazione la revoca della misura disposta con il solo richiamo alla data di applicazione della stessa, ma senza alcuna concreta verifica dell’incidenza del decorso del tempo sulla permanenza delle esigenze cautelari.

Non può accedersi alla tesi difensiva secondo cui il solo richiamo alla data di applicazione della misura restrittiva valga anche a fornire una motivazione esistente (sebbene in parte lacunosa), circa le ragioni dell’emissione del provvedimento di revoca, essendo quello cronologico un dato obiettivo che di per sé solo non consente di inferire anche la necessaria incidenza sul permanere delle esigenze sottese alla misura cautelare.

Giova a tal fine richiamare quanto precisato in motivazione da Cass. n. 3780/2021 citata, a mente della quale ” la mancanza della motivazione assurge a illecito disciplinare non per le sue conseguenze processuali, ma in quanto lesiva di un valore fondamentale della giurisdizione, la cui legittimazione è strettamente connessa alla trasparenza delle decisioni ed alla conoscibilità delle ragioni che hanno condotto il giudice ad assumere una determinata decisione.

Attraverso la motivazione è possibile verificare se il giudice abbia applicato la legge in conformità all’obbligo esclusivo di soggezione ad essa, posto dall’art. 101 Cost., comma 2″.

Peraltro, deve evidenziarsi che il decorso del tempo è di per sé ritenuto idoneo ad incidere sul permanere della misura cautelare solo nel caso della maturazione dei termini di fase o dei termini massimi.

Ove però, come nella fattispecie, non emerga che il termine della misura sia già esaurito, il potere del giudice di revocare la stessa e di disporre la scarcerazione dell’imputato, necessita anche di una specifica valutazione in ordine all’incidenza del tempo sulla permanenza delle esigenze cautelari.

Tale valutazione nella specie risulta del tutto omessa, sicché il solo riferimento alla data cui risale l’applicazione della misura, in ragione della natura del provvedimento emesso, costituisce una motivazione apparente, inidonea ad assolvere all’obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziari, come sopra ribadito.

Queste considerazioni consentono di disattendere anche le ulteriori deduzioni difensive della ricorrente, la quale censura la sentenza gravata per non avere ravvisato il principio di specialità anche in relazione al rapporto tra l’ipotesi dell’illecito di cui alla lett. l) e quella di cui alla lett. a), e per non avere ricondotto la condotta contestata alla sola fattispecie di cui alla lett. l), e cioè all’assenza di motivazione.

In particolare, una volta escluso il concorso con la fattispecie della grave scorrettezza di cui alla lett. d), dovrebbe escludersi che il vantaggio arrecato all’imputato per effetto dell’adozione del provvedimento di scarcerazione consegua alla carenza di motivazione, occorrendo piuttosto dimostrare che non sarebbe stato possibile emettere il provvedimento di revoca della misura cautelare, quale che sia l’ipotetica motivazione, poiché solo in tal caso sarebbe possibile affermare che il comportamento adottato abbia arrecato un indebito vantaggio.

La giurisprudenza di questa Corte si è occupata in numerose occasioni della figura di illecito di cui alla lett. a), ed ha messo in luce come si tratti di un illecito c.d. di evento, nel senso che la consumazione non si esaurisce con la semplice condotta tipica, essendo invece necessario il verificarsi dell’ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti (si vedano, tra le altre, le sentenze Cass. 15 febbraio 2011, n. 3669, Cass. 22 aprile 2013, n. 9691, e Cass. 27 novembre 2013, n. 26548).

È stato poi affermato che tale illecito sussiste anche qualora la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza e laboriosità sia stata colposa e l’evento di danno o di vantaggio non sia stato previsto o voluto (Cass. sentenza 12 marzo 2015, n. 4953).

Non sussiste il rapporto di specialità tra la lett. c) e la lett. a) dell’articolo 2.

Premesso che in base all’art. 2, comma 1, lettera a), costituiscono illecito disciplinare funzionale «fatto salvo quanto previsto dalle lettere b), c), g) e m), i comportamenti che, violando i doveri di cui all’articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti», il Collegio osserva che il provvedimento privo di motivazione, ovvero con motivazione meramente apparente, integra anche la violazione dei doveri di cui all’art. 1 della legge n. 109/2006, e ciò in quanto rientra tra i doveri di correttezza, diligenza, e laboriosità, richiamati dall’art. 1 citato, anche quello di assumere provvedimenti motivati.

Ciò consente di affermare che ove dalla condotta di inosservanza dell’obbligo di motivazione derivi anche un indebito vantaggio (nella specie l’avvenuta scarcerazione dell’imputato, a seguito di un provvedimento evidentemente illegittimo), sussista il concorso tra le due fattispecie sanzionatorie in esame (Cass. S.U. n. 3780/2021).

Sul punto occorre richiamare anche Cass. S.U. n. 2610/2021 che ha escluso il rapporto di specialità tra le fattispecie di illecito disciplinare previste, rispettivamente, dalle lettere a) e g) dell’art. 2, comma 1, del lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, evidenziando che possono sussistere sia gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile che non arrecano danno ingiusto o indebito vantaggio ad una delle parti, ma che comunque compromettono il bene giuridico (l’immagine del magistrato) a tutela del quale è diretta la previsione di ogni illecito disciplinare di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, sia, simmetricamente, violazioni dei doveri imposti al magistrato che non si traducono in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile ma arrecano, tuttavia, ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti.

Qualora l’unica condotta del magistrato ricada nella sfera di applicazione di entrambe le norme, qualora la violazione dell’obbligo di motivazione procura un indebito vantaggio alla parte, ben può ricorrere un’ipotesi di concorso formale di illeciti disciplinari, tutti astrattamente sanzionabili.

Né, infine, coglie nel segno l’affermazione della ricorrente secondo cui la valutazione del giudice disciplinare contrasterebbe con il principio di insindacabilità in sede disciplinare dell’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove.

L’insindacabilità del provvedimento giurisdizionale in sede disciplinare viene, infatti, meno nei casi in cui sia stato adottato sulla base di una macroscopica violazione dell’obbligo di motivazione (Cass. S.U. n. 11586/2019; Cass. S.U. n. 33328/2018; Cass. S.U. n. 7379/2013), poiché in tal caso l’intervento disciplinare ha per oggetto, non già il risultato dell’attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell’esercizio della sua funzione.

4. Il terzo motivo, riportato sub 4, a pag. 13 del ricorso, infine, lamenta che in ogni caso si imporrebbe una rivalutazione circa la scarsa rilevanza dei fatti, anche per effetto dell’auspicato annullamento di una delle condotte reputate disciplinarmente rilevanti, e ciò in quanto la caducazione di un illecito è destinata a riverberarsi anche sul giudizio globale circa la compromissione dell’immagine del magistrato a seguito delle condotte per le quali è stata emessa condanna in sede disciplinare.

Il motivo non è fondato, e ciò sia in ragione del fatto che i precedenti motivi di ricorso sono stati rigettati, restando quindi confermata la responsabilità disciplinare, come accertata dalla Sezione Disciplinare, sia in ragione del principio per cui l’applicazione o la negazione dell’esimente di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 compete alla valutazione del giudice disciplinare, soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (conf. ex multis Cass. S.U. n. 17327/2017).

La censura in esame peraltro non attinge la motivazione della sentenza impugnata per negare la ricorrenza della detta esimente. Il provvedimento impugnato ha, infatti sottolineato che entrambe le condotte per le quali è stata sanzionata non potevano essere considerate di scarsa rilevanza, in quanto lesive dell’immagine professionale e del prestigio dell’incolpata. Inoltre, la ricorrente si limita a sostenere che il giudizio reso al riguardo avrebbe dovuto essere riformulato, ove, a seguito dell’accoglimento del ricorso, fosse venuta meno anche una sola delle due incolpazioni. Come detto questa ipotesi non ricorre nel caso in esame, in cui le censure difensive sono state respinte.

5. Il ricorso è pertanto

6. Nulla a disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.

7. Ancorché il ricorso sia rigettato, non sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 21 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.