Rischia il carcere chi crea un falso profilo su Facebook. Sostituzione di persona (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 23 luglio 2020, n. 22049).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PALLA Stefano – Presidente

Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Rel. Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

YAGUE Gilbert Tugade, nato il 08/11/1976 in Filippine;

avverso la sentenza del 08/11/2019 della Corte di Appello di Messina;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE RICCARDI;

lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Tomaso Epidendio, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;

lette le richieste del difensore, Avv. Anna Scarcella, che ha concluso ribadendo le doglianze proposte e chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 08/11/2019 la Corte di Appello di Messina ha confermato la sentenza del Tribunale di Messina del 01/06/2018, che aveva condannato Yague Gilbert Tugade alla pena condizionalmente sospesa di due mesi e quindici giorni di reclusione per i reati di cui agli artt. 595 e 494 cod. pen., per avere offeso la reputazione di Cadiente Emayl a mezzo internet, creando falsi profili Facebook rappresentati da foto caricaturali della stessa, e inviandole insulti mediante messaggi, così attribuendo un falso nome.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Yague Gilbert Tugade, Avv. Anna Scarcella, deducendo tre motivi di ricorso.

2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 595 cod. pen.: contesta il contenuto offensivo dei messaggi, sostenendo che la traduzione dell’interprete non avesse dimostrato il tenore delle affermazioni contestate, con riferimento all’accusa di prostituirsi; inoltre, il post asseritamente offensivo non proveniva dall’imputato, ma era stato inviato dall’account Mackenzie Cadiente Aleho; mancherebbe, infine, il requisito della divulgazione a più persone, trattandosi di un messaggio privato, visibile dal solo destinatario, e non essendo sufficiente la condivisione di profili di “amici” su Facebook; in ogni caso, sussisterebbe la fattispecie di ingiuria, essendo tali messaggi stati inviati alla stessa persona offesa.

2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 494 cod. pen.: sostiene che non sussista il reato, per la differenza tra l’immagine caricaturale e l’immagine della persona a lei immediatamente riconducibile.

2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 131 bis cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, perché propone doglianze eminentemente di fatto, che sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessinnone, Rv. 207944);

infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono in realtà dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

In particolare, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica – unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata in merito al contenuto offensivo dei messaggi, alla provenienza degli stessi ed alla divulgazione.

Il controllo di legittimità, tuttavia, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.

Pertanto, nel rammentare che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione, ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va al contrario evidenziato che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.

Pacifico che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, dep. 2017, Manduca, Rv. 269090), le doglianze proposte sono altresì manifestamente infondate.

Quanto alla provenienza dei messaggi, è stato accertato, mediante individuazione degli indirizzi IP (Internet Protocol address) – il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (c.d. host) collegato a una rete informatica che utilizza l’Internet Protocol come protocollo di rete per l’instradamento/indirizzamento – che i falsi profili “facebook” erano stati creati dall’imputato, utilizzando due utenze mobili Wind ed una fissa Linkedin a lui intestate, nonché un’utenza fissa Fastweb intestata a Rinaldi Sergio, presso il quale Yague lavorava come domestico.

Quanto al contenuto offensivo dei post pubblicati, il ricorso si limita a contestarlo sulla base di una non consentita rivalutazione della traduzione dell’interprete, peraltro calibrata soltanto sull’accusa di prostituzione, e senza confrontarsi con il contenuto offensivo dei messaggi con cui la persona offesa veniva insultata come “pescivendola”.

Infine, quanto al requisito della divulgazione, che non sussisterebbe in quanto l’agente avrebbe inviato dei ‘messaggi’ privati, visibili al solo destinatario, la doglianza è manifestamente infondata, essendo stato accertato, anche sulla base dell’acquisizione dei c.d. Screenshot, che i messaggi offensivi erano stati divulgati tramite i falsi profili facebook mediante pubblicazione di post visibili ai c.d. “amici” del profilo, e non mediante invio di messaggi privati.

Altrettanto manifestamente infondata è la deduzione con cui si sostiene la configurabilità dell’ingiuria, per essere stati i messaggi inviati direttamente alla persona offesa; oltre a contraddire il tenore del ricorso, che, a p. 3, sostiene che il destinatario del messaggio era la sorella della persona offesa, la sentenza impugnata ha al riguardo chiarito che i post offensivi erano stati pubblicati sui profili della sorella e del figlio della persona offesa.

2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto il reato di sostituzione di persona è integrato da colui che crea ed utilizza un profilo su social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, trattandosi di condotta idonea alla rappresentazione di una identità digitale non corrispondente al soggetto che lo utilizza (Sez. 5, n. 33862 del 08/06/2018, R, non massimata sul punto); secondo quanto precisato da Sez. 5, n. 25774 del 23/04/2014, Sarlo, Rv. 259303, integra il delitto di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen., la condotta di colui che crea ed utilizza un “profilo” su social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un “nickname” di fantasia ed a caratteristiche personali negative, e la descrizione di un profilo poco lusinghiero sul “social network” evidenzia sia il fine di vantaggio, consistente nell’agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo, di cui è abusivamente utilizzata l’immagine).

Ciò posto, non rileva, ai fini dell’integrazione del reato, che, attraverso la sostituzione di persona, sia stata divulgata una “immagine caricaturale” della persona offesa, che rileva ai fini della integrazione, altresì, del reato di diffamazione, essendo sufficiente, per la tipicità del delitto di cui all’art. 494m co. 4 cod. pen., la illegittima sostituzione della propria all’altrui persona, mediante creazione ed utilizzo di un falso profilo facebook.

3. Il terzo motivo, infine, è del tutto generico, limitandosi a contestare il diniego del riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. nonostante l’asserito minimo disvalore sociale della condotta conseguente ad una “divulgazione privata e non pubblica di tali espressioni sui social”;

la doglianza, che sollecita ictu oculi una non consentita rivalutazione del merito, non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, che, oltre ad avere accertato il requisito della divulgazione (di per sé ‘pubblica’), ha negato il riconoscimento dell’art. 131 bis cod. pen. ritenendo, con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità, e dunque insindacabile in sede di legittimità, che non ricorresse la particolare tenuità del danno, in considerazione della persistenza della condotta criminosa per oltre un mese, e della creazione di numerosi profili al solo scopo di arrecare danno alla persona offesa.

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e alla corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma il 06/07/2020.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.