Servizi telefonici: illegittima la fatturazione a 28 giorni (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 15 febbraio 2024, n. 4182).

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

DANILO SESTINI                                          Presidente

PASQUALINA ANNA PIERA CONDELLO   Consigliere

ANTONELLA PELLECCHIA                          Consigliere

PAOLO PORRECA                                        Consigliere Rel.

MARILENA GORGONI                                 Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 961/2023 R.G. proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA (omissis) (omissis), 47, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (omissis) (omissis), (omissis) (omissis), (omissis) (omissis);

-ricorrente-

contro

ASSOCIAZIONE MOVIMENTO CONSUMATORI, elettivamente domiciliata in ROMA VIA (omissis) 39/A,, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende;

-controricorrente-

avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 3881/2022 depositata il 09/12/2022.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/12/2023 dal Consigliere PAOLO PORRECA.

Rilevato che

Telecom s.p.a., ora Tim s.p.a., ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 3881 del 2022 della Corte di appello di Milano esponendo, per quanto qui ancora importa, che:

– era stata convenuta in giudizio, prima cautelare poi di pieno merito, dall’Associazione Movimento Consumatori, AMC, per ottenere l’inibitoria dall’utilizzo e dall’applicazione, nei contratti di telefonia fissa, e servizi offerti in abbinamento, di clausole volte a stabilire la cadenza periodica, per i pagamenti da parte dell’utenza, di 4 settimane invece che mensile, con accertamento della correlata illiceità e conseguente obbligo di restituzione a richiesta del consumatore, informativa di questi ultimi, e obblighi di pubblicità della decisione;

– il Tribunale, davanti al quale come in fase di cautela aveva resistito la deducente, aveva accolto la domanda d’inibitoria accertando, in particolare, la natura di pratica commerciale scorretta e ingannevole a far data dal 1° aprile 2017, prevedendo l’avviso agli utenti sin dalla prima fatturazione successiva alla pubblicazione della sentenza, e stabilendo l’obbligazione di pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo negli adempimenti;

– la Corte di appello aveva disatteso il gravame, osservando, in particolare, che:

la cadenza mensile costituiva, per fatto notorio, un uso a mente dell’art. 1562, secondo comma, cod. civ.; la variazione adottata incideva negativamente in modo apprezzabile sulle possibilità di adeguata valutazione del corrispettivo richiesto e sulla possibilità di sua comparazione, integrando una pratica commerciale scorretta contraria alla diligenza professionale vincolante il somministrante e lesiva dei diritti dei consumatori;

pertanto, l’illiceità sussisteva già prima dell’entrata in vigore dell’art. 19-quinquesdecies del d.l. n. 148 del 2017, quale convertito, secondo cui i contratti di fornitura in parola «prevedono la cadenza di rinnovo delle offerte e della fatturazione dei servizi, ad esclusione di quelli promozionali a carattere temporaneo di durata inferiore a un mese e non rinnovabile, su base mensile o di multipli del mese» e «gli operatori…si adeguano alle disposizioni» in questione «entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione»;

la medesima illiceità non dipendeva quindi dalla delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, AGCOM, n. 121/17/Cons, con cui era stato pure imposto ai somministranti di settore, per i servizi di telefonia fissa, il rimborso correlato ai giorni erosi dalla nuova cadenza fatturata, peraltro in modo legittimamente conformativo degli obblighi negoziali quale confermato dalla norma primaria ricordata, sicché non sussisteva la necessità di sospensione pregiudiziale del giudizio in attesa di quello d’impugnazione davanti al giudice amministrativo;

non sussisteva l’eccessiva gravosità dell’obbligo, imposto a Tim, di avviso anche i clienti receduti con raccomandata, posto che si trattava della diretta conseguenza della condotta illecita della società stessa;

resiste con controricorso l’Associazione Movimento Consumatori;

le parti hanno depositato memorie;

Rilevato che

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1562, secondo comma, cod. civ., dell’art. 12 , preleggi, delle norme consumeristiche di cui agli artt. 2, comma 2, lett. c),c-bis ed e), c od. c ons., 18, 19, 20, 21, 48 e 49 , co d. c ons., delle norme in materia di comunicazioni elettroniche di cui agli artt. 70 e 71, cod. com. elet., dell’art. 112, cod. proc. civ., poiché la Corte di appello:

avrebbe erroneamente affermato l’illegittimità delle clausole contemplanti un periodo di fatturazione a 28 giorni nel periodo sino al 23 giugno 2017, individuando un uso commerciale senza le sufficienti basi di chiarezza, con compressione della libera iniziativa economica, laddove, al contrario, era già ampiamente implementato un uso opposto, tenuto conto che la stessa AGCOM aveva escluso la necessità di una cadenza mensile nella telefonia mobile e Tim era stato l’ultimo operatore a introdurre tale tempo di fatturazione;

avrebbe erroneamente obliterato che l’uso in parola era comunque operativo solo in mancanza di specifica pattuizione;

avrebbe erroneamente mancato di considerare che nessuna norma prevedeva un vincolo sulla durata della obbligazione periodica contrattuale in oggetto, potendo solo individuarsene uno di compiuta comunicazione al consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto;

avrebbe erroneamente omesso di valutare che l’operatore aveva il diritto di modificare le condizioni di servizio una volta assicurato il diritto di recesso all’utente, come accaduto;

avrebbe omesso ogni motivazione in merito al rigetto del terzo motivo di appello di Tim nella parte riguardante l’assenza di una pratica commerciale scorretta quale infatti non sanzionata né da AGCOM né dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, AGCM;

con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 295, cod. proc. civ., oltre che dell’art. 111, secondo comma, Cost., espressione del principio di economia processuale, poiché la Corte di appello avrebbe erroneamente omesso di sospendere il giudizio in attesa della definizione dei giudizi amministrativi pendenti avanti al Consiglio di Stato aventi ad oggetto l’impugnativa della delibera 121/17/Cons, citata, dopo il rigetto del T.A.R. Lazio in prima istanza, anche tenuto conto del fatto che il giudice amministrativo aveva formulato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea perché chiarisse se la normativa unionale ostasse a una normativa nazionale che permettesse all’autorità regolatoria d’imporre una cadenza mensile per le obbligazioni di pagamento del servizio, atteso che, in caso di avallo della delibera, essendo tenuta Tim anche ai rimborsi, sarebbe venuto meno l’interesse alle domande del presente giudizio, mentre, in caso di annullamento del provvedimento, la pretesa di AMC non avrebbe più avuto il necessario sostengo, in particolare dal 23 giugno 2017, laddove, per il tempo precedente, a nulla poteva essere ritenuta vincolata in ragione di quanto dedotto con la prima censura;

con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 20 e 21, Direttiva n. 2002/22/CE, degli artt. 70 e 71, 13, comma 6, lett. b) e d) , cod. com. elet., dell’art. 2, comma 12, lett. h) e l), legge n. 481 del 1995, dell’art. 19 – quinquiesdecies, d.l. n. 148 del 2017, quale convertito, poiché la Corte di appello avrebbe errato affermando la sussistenza di un potere dell’AGCOM di regolare imperativamente i contratti di telefonia, incidendo sul contenuto economico degli stessi, potendo solo intervenire per riequilibrare le asimmetrie informative ma non il sinallagma negoziale, laddove la sopravvenuta norma del 2017 non potrebbe confermare l’esistenza del vincolo temporale in discussione attesa la sua altrimenti svuotata portata innovativa;

con il quarto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 140, comma 1, lett. b), cod. cons., poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che, ferme le assorbenti violazione di cui alle precedenti censure, stabilendo l’obbligo di comunicazione con raccomandata ai clienti receduti, che si era dimostrato nelle fasi di merito comportare un esborso di plurimi milioni di euro in relazione alla platea degli utenti, finiva per violarsi il previsto principio di proporzionalità, sconfinando inoltre nella tutela di diritti individuali e non collettivi, potendo comunque prevedersi, nel caso, l’invio di un’informativa per posta elettronica almeno per coloro che l’avessero comunicata, evitando anche prevedibili oneri materiali per i consumatori;

Considerato che

i primi tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per connessione, sono complessivamente infondati;

va subito detto che, all’esito del ricordato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato, si è pronunciata la Corte di giustizia dell’Unione europea con sentenza 8 giugno 2023, in causa C- 468/2020;

in tale arresto, per ciò che rileva, si è osservato che:

a) «il potere di disciplinare la cadenza di rinnovo delle offerte commerciali e quella di fatturazione dei servizi di telefonia può rientrare, in linea di principio, tra quelli di cui devono disporre le autorità nazionali regolatorie al fine di poter svolgere le funzioni e conseguire gli obiettivi assegnati dalla direttiva quadro» di settore;

b) pur spetta ndo al giudice nazionale competente stabilire se ed entro quali limiti la delibera in questione soddisfi i requisiti di proporzionalità nel raggiungimento degli obiettivi e di rispetto della parità di trattamento, «alla luce delle informazioni fornite dal giudice del rinvio, risulta, anzitutto, che l’esercizio da parte dell’AGCOM del potere, attribuito dal diritto italiano, di imporre una cadenza minima tanto per il rinnovo delle offerte commerciali quanto per la fatturazione dei servizi di comunicazione elettronica è idoneo a rimediare alle criticità rilevate da quest’ultima in occasione della consultazione pubblica che ha preceduto la delibera in questione. Infatti, la fissazione di una cadenza uniforme consente agli utenti finali di comparare le diverse offerte commerciali e di avere piena conoscenza degli oneri finanziari derivanti dai contratti loro proposti, di evitare di creare la parvenza di prezzi meno elevati derivante da un calcolo effettuato sulla base di un dato temporale inferiore a quello consolidato nella prassi, nonché di controllare la spesa generata dal servizio ricevuto, in particolare per quanto riguarda i servizi di telefonia mobile in Italia, i quali sono per la maggior parte servizi prepagati. La normativa nazionale di cui al procedimento principale appare quindi idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito»;

c) «misure alternative quali la predisposizione di guide interattive o di un motore di calcolo volto a comparare le offerte commerciali sulla base del medesimo parametro temporale potrebbero apparire inefficaci tenuto conto del considerevole numero di utenti in Italia che non possiedono smartphone o che non utilizzano Internet. Inoltre, l’imposizione di un obbligo di pubblicare la proiezione del prezzo anche su base mensile potrebbe nuocere alla protezione dei consumatori, in quanto un siffatto obbligo rischierebbe di ingenerare confusione sul contenuto effettivo delle clausole contrattuali relative alla cadenza di fatturazione»; d)«infine, le misure oggetto della delibera in questione non sembrano arrecare un pregiudizio eccessivo ai diritti e agli interessi degli operatori di servizi di telefonia, in quanto non pregiudicano…in particolare, la loro libertà di fissare il prezzo dei loro servizi e di proporre offerte commerciali con una cadenza superiore a quattro settimane. Di conseguenza, tali misure non sembrano causare inconvenienti sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti»;

ciò posto, la ragione decisoria dirimente che regge la decisione di secondo grado la quale così risponde a quanto necessario alla stessa, non incisa dalle censure in scrutinio, è quella correlata all’accertamento, per fatto notorio, non solo di un uso negoziale relativo alla cadenza mensile dei pagamenti, quanto di una condotta contrattuale scorretta, tale constatata non ai fini di una sanzione di competenza dell’autorità amministrativa, bensì nella prospettiva civilistica della lesione del diritto del consumatore alla trasparenza informativa funzionale all’idoneo apprezzamento dei costi così come alla loro comparabilità non distorta da una condotta in tal senso ingiustificata, già espressione dei generali principi di correttezza e buona fede nel regime dei contratti;

a tale riguardo, non è immaginabile che la nozione di consumatore avveduto possa essere, per ciò solo, fatta corrispondere all’astratto «homo oeconomicus» perfettamente vigile e analitico oltre che razionale, posto altrimenti ne verrebbe svuotato il fine ultimo della protezione che la legge gli assegna, imponendo quella trasparenza non dissimulativa e che compensi le asimmetrie informative negoziali oggettivamente sussistenti rispetto al complessivo mercato, parallelamente alla differenza di capacità gestoria dei correlati dati, riferibile alle parti negoziali coinvolte e parimenti presupposta dagli stessi accertamenti svolti nel giudizio;

in questa chiave l’uso negoziale individuato, sebbene drogabile dalle parti, diviene indice di quella correttezza contrattuale, che deve ritenersi limitativa di uno “ius variandi” (pacificamente) esercitato, nei suddetti termini, senza trattativa effettiva bensì lasciando alla singola controparte solo il diritto di recesso;

in ogni caso va rimarcato che la ricorrente ha criticato l’individuazione dell’uso facendo riferimento proprio alla delibera AGCOM che però ammetteva una cadenza di 28 giorni per la telefonia mobile e non fissa quale quella di cui si discute (peraltro, sulle differenze tra i due servizi v. Corte di giustizia C-468/20, cit., punto 69), e indicando di aver solo affermato di essere stato l’ultimo operatore a introdurre la cadenza riferendosi, con ciò, alla convergente condotta degli altri operatori riguardo alla sola vicenda in esame, ovvero non offrendo alcun elemento univoco per rovesciare, anche in termini di modalità sussuntiva, il processo cognitivo svolto sul punto dal Collegio di merito (cfr., Cass., 31/08/2020, n. 18101), fermo il principio per cui il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione un’inesatta nozione del notorio stesso, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza se non insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto a indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, l’inveridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso cassatorio (Cass., 22/05/2019, n. 13715);

analogamente, risulta in questo contesto evidente che la sopravvenuta norma primaria del 2017, ricordata nei contenuti in parte narrativa, possa agevolmente essere ritenuta non esclusivamente innovativa, per evincersene l’inesistenza di ogni vincolo pregresso, bensì almeno “parte qua” ricognitiva delle obbligazioni ricostruite, in coerenza con la normativa unionale e in chiave preventiva rispetto al possibile contenzioso;

coerentemente a quanto (si è visto) osservato dalla Corte di giustizia nell’arresto del giugno 2023 citato (punto 67), le obbligazioni ricostruite non risultano lesive dei diritti e interessi degli operatori di servizi di telefonia «in quanto non pregiudicano…la loro libertà di fissare il prezzo dei loro servizi e di proporre offerte commerciali con una cadenza superiore a quattro settimane»;

in altre parole, tutte le censure diffusamente rivolte in ricorso all’impossibilità di legittimare un intervento eteronomo sul contenuto economico del contratto si scontrano con l’evidenza data dalla persistente libertà di regolare in via negoziale il prezzo ovvero l’offerta di servizio, senza però una condotta ovvero con una modalità contraria agli obblighi di correttezza e buona fede, quale sopra focalizzata; ne deriva ulteriormente l’infondatezza della censura riferita all’art. 295, cod. proc. civ., essendo evidente che si tratta di giudizio tra diversi soggetti e con diverso oggetto, concernente la legittimità dei provvedimenti adottati dall’autorità regolatoria nei confronti degli operatori di telefonia, mentre il presente giudizio ha riguardo alle obbligazioni tra le parti contrattuali, pur nella prospettiva collettiva introdotta dall’associazione originariamente attrice;

ne discende anche la legittima decorrenza degli obblighi statuita a prescindere dalla decorrenza della delibera AGCOM (23 giugno 2017) e invece riferita all’incontestato inizio della condotta dell’operatore (1° aprile 2017);

il quarto motivo è infondato;

in primo luogo, non sussiste la protestata alterazione della domanda regolata dall’art. 140, cod. cons., poiché l’obbligo di comunicazione ai singoli utenti è il portato della descritta tutela collettiva cui come tale partecipa il consumatore coinvolto, non venendo in questione un profilo esclusivamente individuale come potrebbe essere, in ipotesi, quello risarcitorio connesso; quanto, poi, alla pretesa violazione del principio di proporzionalità, i costi sono stati innanzi tutto rapportati alla platea coinvolta dalla condotta scorretta dell’operatore che, quindi, non può logicamente opporre proprio gli effetti di quella, che, invece, la statuizione è volta a compensare non in chiave risarcitoria ma funzionalmente all’accoglimento della domanda in parola;

d’altro canto, le alternative prospettate in ottica sussuntiva, quale l’utilizzo della posta ordinaria, si traducono, a ben vedere, nel tentativo di rivedere un giudizio discrezionale proprio quindi del giudice di merito a fronte dell’incomparabilità, in concreto, con la scelta della posta elettronica poiché: non è dato sapere (v. anche a pag. 43 del ricorso, compresa la nota 81) se sia stato accertato quanti utenti abbiano comunicato alla controparte contrattuale un indirizzo telematico, così da sostanziare il raffronto sui costi;

non risulta comunque direttamente comparabile l’assicurazione offerta, e sottesa alla valutazione del giudice di merito, dalla residenza fisica ovvero dalle risultanze anagrafiche, anche in termini di gestione della funzionalità della posta elettronica (si pensi alle ipotesi della mancata ricezione per casella piena);

spese secondo soccombenza;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali di parte controricorrente, liquidate in euro 7.200,00, oltre a 200,00 euro per esborsi, 15% di spese forfettarie e accessori legali.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, la Corte da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, se dovuto e nella misura dovuta, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14/12/2023.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.