Tentato furto aggravato: l’arresto in flagranza non viola la Costituzione (Corte Costituzionale, Sentenza 22 febbraio 2022, n. 41).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 380, comma 2, lettera e), del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario Firenze, nel procedimento penale a carico di F. H., con ordinanza del 5 marzo 2020, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 5 marzo 2020 iscritta al n. 15 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 380, comma 2, lettera e), del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio di chi è colto in flagranza del delitto di tentato furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall’art. 625, primo comma, numero 2), prima ipotesi, del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen., per contrasto con gli artt. 13 e 3 della Costituzione.

2.– Il giudice a quo ha premesso che il prevenuto è stato arrestato perché colto in flagranza del delitto di tentato furto aggravato dall’uso di violenza sulle cose, commesso all’interno di un supermercato ed avente ad oggetto merce del valore complessivo di euro 119,60.

Gli ufficiali di polizia giudiziaria intervenuti avevano proceduto all’arresto ed il pubblico ministero aveva richiesto la convalida e l’applicazione della misura cautelare del divieto di dimora nella Provincia di Firenze, deducendo la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.

Il giudice per le indagini preliminari ha rilevato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza rispetto al contestato reato di tentato furto aggravato dall’uso di violenza sulle cose e ritenuto la non configurabilità della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità ex art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen.

Il Tribunale ordinario di Firenze ha tuttavia reputato che, per procedere alla convalida dell’arresto, deve valutarsi la legittimità costituzionale dell’art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio per il reato di tentato furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall’art. 625, primo comma, numero 2), prima ipotesi, cod. pen., e sempre che non ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen.

3.– Ad avviso del Tribunale ordinario di Firenze, l’art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen. sarebbe in contrasto con gli artt. 13 e 3 Cost.

3.1.– Quanto al primo parametro, il delitto di tentato furto aggravato per la violenza sulle cose, pur in assenza dell’attenuante ex art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen., non costituirebbe, per il rimettente, un’ipotesi di tale eccezionale gravità da giustificare la previsione dell’arresto obbligatorio, di per sé sottratto alla valutazione della gravità del fatto o della pericolosità del soggetto secondo le concrete circostanze del caso. Nella categoria dei delitti di furto, tentati o consumati, aggravati dalla violenza sulle cose, potrebbero, invero, rientrare anche fatti connotati da una gravità limitata, come nel caso di specie, incapaci di generare alcun pericolo per l’incolumità delle persone e perciò estranei al novero di quei casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati dalla legge, che, ai sensi del terzo comma dell’art. 13 Cost., possono giustificare l’adozione di provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale adottati dall’autorità di pubblica sicurezza.

3.2.– La profonda diversità della gravità delle ipotizzabili fattispecie di furto aggravato dalla violenza sulle cose trasmoda, altresì, secondo il giudice a quo, nella manifesta irragionevolezza, con violazione quindi anche dell’art. 3 Cost.

3.3.– L’ordinanza di rimessione segnala ancora che, per effetto del congiunto operare degli artt. 56, 624 e 625, primo comma, numero 2), cod. pen., la pena massima applicabile per il tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose è di anni quattro di reclusione, sicché, in forza dell’art. 280, comma 2, cod. proc. pen., neppure può essere disposta con riferimento ad esso la custodia cautelare in carcere, e ciò a conferma dell’assenza di un correlato particolare allarme sociale provocato dal delitto in esame.

Né rileva, avverte il Tribunale, la deroga stabilita dall’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., la quale opera unicamente allorché l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’art. 381, comma 2, e dunque non anche nelle ipotesi di tentativo di tali delitti.

Il rimettente sottolinea, ancora, che non appare rispettoso della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost. prescrivere l’obbligatorietà della «misura precautelare provvisoria» dell’arresto in casi in cui non è possibile la sua conversione ope iudicis nella custodia cautelare in carcere, potendo, peraltro, l’arrestato essere condotto provvisoriamente nella casa circondariale, secondo quanto stabilito dall’art. 558, comma 4-bis, e dall’art. 386, comma 4, cod. proc. pen.

3.4.– Un’ulteriore ragione di contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. è, infine, rappresentata dal giudice a quo per l’eventualità in cui sia configurabile per il tentato furto la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., prescrivendosi l’arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria pur quando le modalità della condotta e l’esiguità del danno delineino una offesa di particolare tenuità, il che può verificarsi anche nel caso in cui ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen., di per sé escludente l’obbligatorietà dell’arresto.

3.5.– Il Tribunale ordinario di Firenze ha quindi disposto la liberazione dell’arrestato, essendo impossibile l’osservanza dei termini per la convalida in ragione della sollevazione della questione di legittimità costituzionale.

4.– Ha depositato atto di intervento in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

L’Avvocatura deduce che, in forza della riserva di legge in materia di limitazione della libertà personale, ex art. 13 Cost., il legislatore è l’unico soggetto titolato alle scelte relative ai margini entro i quali, con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, può esser ristretta la libertà personale, nonché alla determinazione dei casi eccezionali di necessità ed urgenza in cui possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale, da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, restando tali scelte legislative sindacabili solo ove siano manifestamente irragionevoli. Non si ravviserebbe alcuna irragionevolezza nella previsione dell’arresto obbligatorio ex art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen., visto il particolare allarme sociale suscitato dalla commissione dei reati riconducibili alle ipotesi criminose ivi contemplate.

La difesa statale sostiene la legittimità della norma censurata anche in considerazione della diversità dei presupposti e delle finalità del provvedimento di convalida dell’arresto rispetto a quello con cui l’autorità giudiziaria applica una misura coercitiva.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, con ordinanza del 5 marzo 2020, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 2021, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 380, comma 2, lettera e), del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio di chi è colto in flagranza del delitto di tentato furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall’art. 625, primo comma, numero 2), prima ipotesi, del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen., per contrasto con gli artt. 13 e 3 della Costituzione.

Il giudice a quo premette che deve procedere alla convalida dell’arresto di persona colta in flagranza del delitto di tentato furto aggravato dall’uso di violenza sulle cose (art. 625, primo comma, numero 2, prima ipotesi, cod. pen.), commesso all’interno di un supermercato ed avente ad oggetto merce di valore tale da non consentire l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen.

1.1.– Quanto al primo parametro evocato, il delitto di tentato furto aggravato per la violenza sulle cose, pur in assenza dell’attenuante ex art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen., non integrerebbe, per il rimettente, un’ipotesi di tale eccezionale gravità da giustificare la previsione dell’arresto obbligatorio. Nella categoria dei delitti di furto, tentati o consumati, aggravati dalla violenza sulle cose, potrebbero, invero, rientrare anche fatti connotati da una gravità limitata, incapaci di generare alcun pericolo per l’incolumità delle persone e perciò estranei al novero di quei casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati dalla legge, che, ai sensi del terzo comma dell’art. 13 Cost., possono giustificare l’adozione di provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale adottati dall’autorità di pubblica sicurezza.

La profonda diversità della gravità delle ipotizzabili fattispecie di furto aggravato dalla violenza sulle cose trasmoderebbe, altresì, secondo il giudice a quo, nella manifesta irragionevolezza, con violazione quindi anche dell’art. 3 Cost.

L’ordinanza di rimessione evidenzia inoltre che, per effetto del combinato degli artt. 56, 624 e 625, primo comma, numero 2), cod. pen., la pena massima applicabile per il tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose è di anni quattro di reclusione, sicché, in forza dell’art. 280, comma 2, cod. proc. pen., neppure può essere disposta con riferimento ad esso la custodia cautelare in carcere, e ciò a conferma dell’assenza di un correlato particolare allarme sociale provocato dal delitto in esame. Non apparirebbe rispettoso della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost. prescrivere l’obbligatorietà della misura precautelare provvisoria dell’arresto in casi in cui non è possibile la sua conversione ope iudicis nella custodia cautelare in carcere.

Un’ulteriore ragione di contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. è, infine, rappresentata dal giudice a quo per l’eventualità in cui sia configurabile per il tentato furto la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., prescrivendosi l’arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria pur quando le modalità della condotta e l’esiguità del danno delineino una offesa di particolare tenuità.

2.– Deve premettersi che l’ordinanza di rimessione riferisce che è stata disposta la liberazione dell’arrestato, essendo impossibile l’osservanza dei termini per la convalida dell’arresto in ragione della proposizione della questione di legittimità costituzionale.

Non di meno, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen., concernenti l’arresto obbligatorio, mantengono rilevanza.

Come già affermato da questa Corte nella sentenza n. 54 del 1993, si deve ritenere che il provvedimento di liberazione dell’arrestato, imposto al Tribunale dall’art. 391, comma 7, ultima parte, cod. proc. pen., il cui termine non poteva essere rispettato in conseguenza del promovimento della questione di legittimità costituzionale, non ha comportato l’esaurimento del procedimento di convalida, permanendo, nonostante la liberazione, l’interesse ad una pronuncia sulla legittimità dell’arresto, il cui esito resta subordinato alla definizione del presente incidente di costituzionalità.

Nello stesso senso, la sentenza n. 137 del 2020 ha affermato che, se il giudice della convalida dell’arresto dubita della legittimità costituzionale delle norme che di tale fase regolano presupposti e condizioni, la mancata convalida nel termine di legge e la conseguente necessità di disporre la liberazione dell’arrestato non possono essere di ostacolo al promovimento della relativa questione di legittimità costituzionale, finendosi altrimenti per creare una “zona franca” per le norme che disciplinano l’arresto in flagranza.

3.– Le questioni sono comunque non fondate, in riferimento ad entrambi gli evocati parametri.

4.– Questa Corte è stata già più volte investita del compito di individuare le finalità cui devono informarsi gli istituti dell’arresto in flagranza e del fermo di indiziato di delitto, alla stregua del contenuto precettivo dell’art. 13 Cost.

Tale disposizione, dopo aver sancito al primo comma l’inviolabilità della libertà personale, al secondo comma stabilisce la regola per le sue limitazioni, non ammettendo «forma alcuna di detenzione, di ispezione o di perquisizione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale», se non nel rispetto della riserva di giurisdizione, e dunque «per atto motivato dell’autorità giudiziaria», nonché della riserva di legge, ovvero «nei soli casi e modi previsti dalla legge».

Al terzo comma dispone, poi, che «[i]n casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

Il fondamento costituzionale della disciplina del codice di rito inerente all’arresto in flagranza ed al fermo di indiziato di delitto risiede, dunque, nel terzo comma dell’art. 13 Cost., il quale, adoperando i canoni della eccezionalità, necessità ed urgenza e tassatività, individua le situazioni contingenti che consentono l’adozione di misure provvisorie restrittive dello status libertatis da parte dell’autorità di polizia, non potendosi attendere l’intervento dell’autorità giudiziaria.

Escluso che il terzo comma dell’art. 13 Cost. operi come fonte di legittimazione degli organi di pubblica sicurezza, in via sostitutiva dell’autorità giudiziaria, le nozioni di necessità ed urgenza da esso dettate sono così state spiegate in funzione dei fini previsti dal sistema costituzionale.

5.– Il codice di procedura penale del 1988 non ha introdotto significativi elementi di novità nel rapporto tra le misure provvisorie di polizia restrittive della libertà personale ed il terzo comma dell’art. 13 Cost., quanto in particolare all’esplicitazione delle finalità delle prime.

Tuttavia, questa Corte, già con la sentenza n. 305 del 1996, pronunciando sulla questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 189, comma 6, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), ove si consente l’arresto dell’utente della strada il quale, in caso di incidente, non presta l’assistenza occorrente alle persone che abbiano subito danno, ha chiarito che tale «misura precautelare provvisoria facoltativa […] può essere adottata solo sulla ragionevole prognosi di una sua trasformazione ope iudicis in una misura cautelare più stabile». La sentenza n. 305 del 1996 correlava, così, teleologicamente la necessità e l’urgenza giustificatrici della misura provvisoria di polizia, in forza del terzo comma dell’art. 13 Cost., alla futura applicabilità di una misura cautelare personale.

Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), inserito dall’art. 13, comma 1, lettera b), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), con cui si prevedeva l’arresto obbligatorio dello straniero colto nella flagranza della contravvenzione di cui all’art. 14, comma 5-ter, del medesimo decreto legislativo, per essersi trattenuto senza giustificato motivo nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale entro il termine di cinque giorni, questa Corte (sentenza n. 223 del 2004) ha evidenziato che la norma censurata prevedeva l’arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale, sanzionato con una pena detentiva (da sei mesi a un anno) di gran lunga inferiore a quella per cui il codice di procedura penale ammette la possibilità di disporre misure coercitive; sicché – attesa l’autonomia tra il giudizio di convalida, volto a verificare ex post la legittimità dell’operato dell’autorità di polizia, e la protrazione dello stato di privazione della libertà personale, per la quale è richiesto un ulteriore e autonomo provvedimento – il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla convalida dell’arresto per il reato di cui al citato art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 1998, doveva comunque disporre l’immediata liberazione dell’arrestato ex art. 391, comma 6, cod. proc. pen., ove non vi avesse già provveduto il pubblico ministero a norma dell’art. 121 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedure penale), posto che per quel reato gli era precluso dalla legge di disporre la custodia cautelare in carcere e, più in generale, qualsiasi misura coercitiva.

Per tali ragioni, la sentenza n. 223 del 2004 di questa Corte ha definito l’arresto obbligatorio previsto dal censurato art. 14, comma 5-quinquies, «privo di qualsiasi sbocco sul terreno processuale», ovvero «misura fine a se stessa, che non potrà mai trasformarsi nella custodia cautelare in carcere, né in qualsiasi altra misura coercitiva, e non trova alcuna copertura costituzionale».

La sentenza n. 223 del 2004 ha in tal modo tracciato le direttrici del sindacato di legittimità costituzionale sulle misure provvisorie di polizia limitative della libertà personale, ai sensi dell’art. 13, terzo comma, Cost.:

1) esse devono connotarsi per la «natura servente rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione»;

2) fra queste, sono da considerare «in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del processo penale»;

3) viene meno la giustificazione costituzionale della restrizione della libertà disposta dall’autorità di polizia ove non si rinvenga «alcun rapporto di strumentalità tra il provvedimento provvisorio di privazione della libertà personale e il procedimento penale avente ad oggetto il reato per cui è stato disposto l’arresto obbligatorio in flagranza»;

4) il che, in particolare, si verifica quando l’arresto «non potrà mai trasformarsi nella custodia cautelare in carcere, né in qualsiasi altra misura coercitiva».

Ancora, la sentenza n. 137 del 2020, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen., ha, fra l’altro, rimarcato che:

1) la facoltà, per il giudice chiamato a convalidare l’arresto, di applicare nei confronti del prevenuto misure cautelari in deroga agli ordinari limiti edittali segnati dagli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen., secondo quanto previsto dall’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., è riconducibile all’esigenza di raccordare funzionalmente la decisione in ordine alla misura precautelare con quella riguardante la salvaguardia di esigenze di natura propriamente cautelare;

2) la determinazione dei casi eccezionali di necessità e urgenza in cui possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale, ai sensi dell’art. 13, terzo comma, Cost., rientra in un ambito caratterizzato dalla discrezionalità legislativa (come già affermato dalla sentenza n. 188 del 1996 e dall’ordinanza n. 187 del 2001), intesa anche quale riflesso specifico della più ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali in materia penale (sentenze n. 31 e n. 20 del 2017, n. 216 del 2016);

3) ferma l’indicata natura servente delle misure restrittive di polizia, rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione (tra cui in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del processo penale), le norme in quell’occasione censurate devono considerarsi non irragionevoli, avendo con esse il legislatore ritenuto di escludere, per alcuni delitti tassativamente elencati ed apprezzati come di particolare allarme sociale, la liberazione dell’arrestato in presenza di specifiche esigenze cautelari che impongano il mantenimento della restrizione della libertà personale.

6.– È da evidenziare altresì che l’originaria formulazione dell’art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen., è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 54 del 1993, per violazione dell’art. 76 Cost., nella parte in cui prevedeva l’arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di furto, consumato o tentato, quando ricorre la circostanza aggravante di cui all’art. 625, primo comma, numero 2), prima ipotesi, cod. pen., ma concorre altresì la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), dello stesso codice.

La sentenza n. 54 del 1993 ha rilevato che la legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), al punto 32 dell’art. 2, aveva fissato i principi direttivi in tema di arresto obbligatorio nella flagranza di reato, indicando quale primo criterio la pena prevista in astratto per il reato commesso (reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni), ed invece affidando al legislatore delegato di attuare un secondo criterio volto a prevedere l’arresto obbligatorio anche in flagranza di altri reati – pur se puniti in misura meno severa –, ma tali per cui l’indicata misura apparisse giustificata da «speciali esigenze di tutela della collettività». Sulla base di tale secondo criterio, il legislatore delegato ha così previsto casi di arresto obbligatorio “eccezionali” nella flagranza di vari reati, tra i quali ha ricompreso anche il delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose.

La Relazione al progetto preliminare del codice, per precisare il significato della locuzione speciali esigenze di tutela della collettività, aveva fatto rinvio alle indicazioni contenute nella sentenza n. 1 del 1980 di questa Corte, la quale, sia pure nel contesto della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), aveva ricondotto tali speciali esigenze ai reati che hanno quali caratteristiche l’uso di armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, la riferibilità ad organizzazioni criminali comuni e politiche, la lesività delle condizioni di base della sicurezza collettiva e dell’ordine democratico.

Rispetto all’alveo di eccezionalità, connotato dal criterio delle “speciali” esigenze di tutela della collettività, in cui il legislatore delegante voleva così confinare la misura precautelare dell’arresto obbligatorio, la sentenza n. 54 del 1993 ha ritenuto che il delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose non fosse coerente, non potendosi avallare la considerazione unitaria che di tale delitto si faceva nella Relazione al progetto preliminare del codice insieme a quelli di rapina e di estorsione, al fine di giustificare l’arresto obbligatorio in ragione della loro estrema diffusione e della considerazione che ne ha la coscienza sociale, anche perché possa ammettersi rispetto ad essi altresì la parallela facoltà di arresto da parte dei privati.

La citata sentenza ha, quindi, reputato estranea al criterio delle “speciali” esigenze di tutela della collettività dettato dal legislatore delegante la fattispecie del furto (consumato o tentato) aggravato dalla violenza sulle cose in relazione al caso in cui esso sia tale da comportare un danno di speciale tenuità, ricorrendo l’attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen., nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, nonché quando sia di speciale tenuità l’evento dannoso o pericoloso nei delitti determinati da motivi di lucro.

7.– Nel quadro degli indicati principi, le questioni sollevate non sono fondate.

7.1.– Il rimettente ha valorizzato la circostanza che per il reato di cui all’art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen., non è consentita, in considerazione del massimo edittale, l’adozione della misura della custodia cautelare in carcere, desumendo da tale rilievo una violazione dei principi di cui all’art. 13 Cost., poiché la misura precautelare provvisoria dell’arresto è obbligatoria in un caso in cui non è possibile la sua conversione ope iudicis nella custodia cautelare in carcere.

Il Tribunale ordinario di Firenze omette, tuttavia, di considerare che, poiché il reato di tentato furto aggravato dall’uso di violenza sulle cose (artt. 56 e 625, primo comma, numero 2, cod. pen.) è punito con la pena della reclusione pari nel massimo a quattro anni, ad esso sono applicabili tutte le misure coercitive (art. 280, comma 1, cod. proc. pen.), compresa quella degli arresti domiciliari (art. 274, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.), con esclusione, quindi, della sola custodia cautelare in carcere.

Tale esclusione, tuttavia, non fa venire meno le condizioni in base alle quali, nella giurisprudenza di questa Corte, la restrizione della libertà personale disposta dall’autorità di pubblica sicurezza è costituzionalmente compatibile, essendo la misura precautelare suscettibile di trasformazione in una misura cautelare coercitiva, ancorché non di tipo carcerario; all’arresto in flagranza, peraltro, consegue, di norma, il giudizio direttissimo (artt. 449, comma 1, e 558, comma 1, cod. proc. pen.) e quindi è possibile pervenire con immediatezza all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato.

7.2.– Quanto al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost., per l’ipotizzata manifesta irragionevolezza della disposizione censurata, appare evidente l’intenzione del rimettente di sindacare la scelta normativa che prevede l’arresto obbligatorio in ipotesi di tentato furto aggravato per la violenza sulle cose, non correlato ad un danno di speciale tenuità, ingerendosi nella valutazione operata dal legislatore, in ragione delle avvertite speciali esigenze di tutela della collettività, con l’elenco dei delitti passibili di arresto obbligatorio dettato dal comma 2 dell’art. 380 cod. proc. pen., chiedendo a questa Corte di affermare che si tratterebbe di fattispecie criminosa non idonea a generare un pericolo per l’incolumità delle persone.

La prospettazione del giudice a quo si colloca ben al di fuori dei criteri guida del sindacato di legittimità costituzionale sulle ipotesi legislative di restrizioni della libertà personale disposte dall’autorità di polizia, secondo le indicazioni contenute essenzialmente nelle sentenze n. 223 del 2004 e n. 305 del 1996; indicazioni che, come si è visto, sono correlate alla natura servente delle misure precautelari rispetto a quelle cautelari personali.

D’altra parte, come evidenziato dalla sentenza n. 137 del 2020, la determinazione dei casi eccezionali di necessità e urgenza in cui possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale, ai sensi dell’art. 13, terzo comma, Cost. – e segnatamente di quelli in cui l’arresto può essere effettuato anche in deroga ai limiti edittali previsti in via generale dall’art. 380, comma 1, cod. proc. pen. – rientra in un ambito caratterizzato dalla discrezionalità legislativa (in tal senso, vedi anche sentenza n. 188 del 1996 e ordinanza n. 187 del 2001), sindacabile – tanto più quando vengano in considerazione scelte legislative limitative della libertà personale – in caso di manifesta irragionevolezza o di arbitrarietà.

Ipotesi, questa, che non ricorre nel caso di specie, tenuto conto che all’arresto obbligatorio potrà procedersi solo quando non ricorra la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità: l’art. 380, comma 2, lettera e), cod. proc. pen., infatti, già di per sé non opera allorché sia possibile desumere ragionevolmente, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico, che, se il reato fosse stato portato a compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima. Eccede, peraltro, dall’ambito del presente giudizio ogni considerazione in ordine alle determinazioni dei giudici comuni quanto alle condizioni di applicabilità dell’attenuante di cui al citato art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen.

7.3.– Le conclusioni raggiunte non sono revocate in dubbio con riguardo alla prospettata irragionevolezza della disposizione censurata, che, nella argomentazione del rimettente, discenderebbe dalla possibile operatività della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. per chi sia imputato del delitto di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, ove non ricorra l’attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen.

L’applicazione dell’esimente della tenuità del fatto, invero, postula una valutazione complessiva e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo; valutazione, questa, riservata al giudice della cognizione all’esito del relativo giudizio ed estranea ai profili che vengono in rilievo in sede di convalida dell’arresto e di successiva, eventuale applicazione di una misura cautelare coercitiva.

8.– Per le considerazioni che precedono, le questioni devono essere dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 380, comma 2, lettera e), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 13 e 3, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Stefano PETITTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 22 febbraio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto Dott. MILANA

Corte Cost., Sentenza 22 febbraio 2022, n. 41 -.