Cacciatore, per abbattere una pispola, usa richiami vietati. Condannato (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 19 febbraio 2020, n. 6518).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA Gastone – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Rel. Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

Dott. Gianni Filippo Reynaud – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Andreoli Gianluca nato a (omissis) il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 23/11/2018 del tribunale di Brescia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Giuseppe Noviello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SECCIA Domenico che ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;

udito il difensore, avv. Carpinelli Eugenio Maurizio, quale sostituto processuale dell’avv. Becheri Luigistelio che ha concluso riportandosi ai motivi del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Il tribunale di Brescia, con sentenza del 23 novembre 2018 condannava Andreoli Gianluca alla pena di euro 1800,00 di ammenda in ordine ai reati ex artt. 81 cpv. cod. pen., 30 comma I lett. b) in relazione agli artt. 2 e 30 lett. h) della L. 157/92, per avere, con più azione esecutive di un medesimo disegno criminoso, esercitato la caccia mediante l’ausilio di un richiamo vietato, consistito in un apparecchio acustico a funzionamento elettromagnetico, abbattendo una pispola.

2. Avverso la sentenza del tribunale di Brescia ha proposto appello, mediante il proprio difensore, trasmesso a questa Suprema Corte per l’eventuale conversione in ricorso per cessazione, Andreoli Gianluca, deducendo un solo motivo di impugnazione.

3. Ha dedotto la mancanza, all’esito dell’istruttoria, innanzitutto degli elementi costitutivi del reato, contestando la possibilità di ricostruire l’elemento oggettivo del reato dalle dichiarazioni dei testi di pg, anche in considerazione delle affermazioni a discarico formulate dall’imputato.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, ha lamentato la mancata considerazione della buona fede del ricorrente alla luce della normativa della regione Lombardia introduttiva di una deroga al divieto di caccia di specie protette, tra cui la pispola.

Ha quindi insistito, stante l’incensuratezza dell’imputato, per la concessione delle circostanze attenuanti generiche in ragione della eccessività della pena imposta, di cui ha chiesto la rideterminazione nel minimo edittale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Premesso che la sentenza impugnata, relativa alla condanna alla sola pena dell’ammenda è suscettibile esclusivamente di ricorso per cassazione ad opera dell’imputato, ex artt. 593 comma 3 cod. proc. pen. e 607 cod. proc. pen., in ordine alla qualificazione dell’appello sub specie di ricorso di legittimità, le SS.UU. di questa Corte hanno ritenuto (sent. n. 16 del 1998, Nexhi, RV 209336) che il precetto di cui all’art. 568 cod. proc. pen., comma 5, deve essere inteso nel senso che la sola erronea attribuzione del nomen juris non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l’interessato, a prescindere dalla qualificazione attribuitagli, abbia effettivamente inteso avvalersi.

Pertanto, il giudice ha il potere-dovere di provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando, rispetto alla formale apparenza, la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridico.

Di converso, posto che la disposizione indicata è finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volontà reale dell’interessato, al giudice non è consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato (ma inammissibilmente proposto dalla parte) con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile: in tale ipotesi, infatti, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica ope iudicis, ma di una infondata pretesa, da sanzionare con l’inammissibilità (cfr. da ultimo Sez. 5 – , n. 55830 del 08/10/2018 Rv. 274624 – 01 Eliseo).

2. Nel caso in esame, con gli atti di impugnazione sono state formulate censure inerenti la configurazione, in fatto, dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato, oltre ad invocarsi l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la rideterminazione, nel minimo edittale, della pena: prospettazioni che, inerendo chiaramente al merito del processo, non consentono di ritenere che l’imputato avesse inteso proporre ricorso per cassazione e solo per mero errore l’avesse denominato come appello.

Cosicché, l’impugnazione non può essere preliminarmente riqualificata in ricorso per cassazione nella presente sede di legittimità, e va pertanto dichiarata inammissibile.

3. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, stabilita equitativamente, di euro duemila, in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 27/11/2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.