Fatture generiche come prova del reato (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 13 marzo 2020, n. 9958).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. CERRONI Claudio – Rel. Consigliere

Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere

Dott. RAMACCI Luca –  Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Galfetti Alessandro, nato a OMISSIS il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 16/01/2019 della Corte di Appello di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Claudio Cerroni;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Pietro Molino, che ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16 gennaio 2019 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del 18 gennaio 2018 del Tribunale di Como, in forza della quale Alessandro Galfetti, nella qualità di legale rappresentante della soc. coop. a r.l. Punto Lavoro, era stato condannato alla pena di anni due di reclusione per i reati di cui agli artt. 8 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (capi S e T); 61 n. 2 cod. pen., 5 d.lgs. 74 (capo U) in relazione all’anno d’imposta 2010.

2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su tre motivi di impugnazione.

2.1. Col primo motivo il ricorrente ha eccepito l’intervenuta prescrizione dei reati di cui ai primi due capi già all’epoca di celebrazione dell’udienza avanti alla Corte territoriale, stante l’applicabilità della norma di cui all’art. 8 cit. nella versione antecedente alla legge 148 del 2011, dal momento che per il calcolo della prescrizione andava considerata la data dell’ultimo documento emesso per ciascuno periodo di imposta. Per gli anni 2010 e 2011 i reati (tenuto conto che l’ultimo documento emesso risaliva rispettivamente al 31 dicembre 2010 e al 31 maggio 2011) dovevano considerarsi così prescritti rispettivamente al 30 giugno e al 30 novembre 2018.

2.2. Col secondo motivo è stata eccepita la carenza di motivazione circa la prova della responsabilità, né infatti era stata raggiunta la prova in ordine all’inesistenza delle operazioni di cui alle fatture emesse.

2.3. Col terzo motivo è stato osservato che alcunché era stato replicato alla formulata censura relativa alla responsabilità di cui all’art. 5 cit..

3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.

In via del tutto preliminare, peraltro, ed al fine di chiarire i riferimenti non sempre corretti contenuti nei capi d’imputazione siccome riportati nelle epigrafi tanto del Tribunale di Como quanto della Corte milanese (ancorché parte ricorrente nulla abbia mai osservato al riguardo, dimostrando di essere in realtà pienamente consapevole delle contestazioni elevate nei suoi confronti);

il capo S ha riguardo al reato di cui all’art. 8 cit. in relazione alle fatture per operazioni inesistenti emesse nel corso dell’anno 2010, per un ammontare complessivo di euro 6.878.823,79 oltre all’Iva;

il capo T analogamente per l’anno 2011, per un ammontare di euro 377.631,20 in linea capitale;

il capo U, infine, ha ad oggetto il reato di cui all’art. 5, stante l’omissione delle dichiarazioni fiscali relative all’anno 2010 (Iva evasa euro 1.374.704,80 ed euro 248.090,51; Ires euro 341.124,45).

Tutto ciò alla stregua del decreto del 25 marzo 2015 che disponeva il giudizio.

Sempre in via preliminare, osserva la Corte che i motivi di ricorso possono essere esaminati prendendo in considerazione sia la motivazione della sentenza impugnata sia quella della sentenza di primo grado, e ciò in quanto i giudici di merito hanno adottato decisioni e percorsi motivazionali comuni, che possono essere valutati congiuntamente ai fini di una efficace ricostruzione della vicenda processuale e di una migliore comprensione delle censure del ricorrente.

Allorché infatti le sentenze di primo e secondo grado concordino, come in specie, nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (ex plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; cfr. da ult. Sez. 5, n. 40005 del 07/03/2014, Lubrano Di Giunno, Rv. 260303).

4.1. Ciò doverosamente premesso, il primo motivo è manifestamente infondato. Vero è, infatti, che la norma applicabile – pacifiche essendo le ricordate ultime date di emissione delle fatture in contestazione – è quella antecedente alla riforma di cui al decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 ed alla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148.

Ciò in quanto il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è reato istantaneo che si consuma nel momento di emissione della fattura ovvero, ove si abbiano plurimi episodi nel medesimo periodo di imposta, nel momento di emissione dell’ultima di esse, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest’ultimo lo utilizzi (Sez. 3, n. 47459 del 05/07/2018, Melpignano, Rv. 274865; cfr. altresì Sez. 3, n. 25816 del 21/04/2016, De Roia, Rv. 267664).

Le conseguenze, peraltro, non sono quelle pretese da parte ricorrente, atteso che nei confronti del medesimo imputato è stata contestata la recidiva reiterata, specifica ed infra-quinquennale, di cui il primo Giudice – nella sentenza confermata dalla Corte territoriale – ha espressamente ritenuto l’esistenza assumendone l’equivalenza con le concesse attenuanti generiche.

In proposito, infatti, ai fini del computo del termine di prescrizione occorre tener conto della recidiva contestata e ritenuta in sentenza, a nulla rilevando che, nel giudizio di comparazione con circostanze attenuanti, essa sia stata considerata subvalente o equivalente (ad es. Sez. 2, n. 4178 del 05/12/2018, dep. 2019, Amico, Rv. 274899).

D’altronde al riguardo la Corte territoriale (cfr. pag. 13 del provvedimento impugnato) ha evidenziato quali sarebbero stati i termini di prescrizione (rispettivamente, per i tre residui capi, 31 dicembre 2020, 31 maggio 2021, 29 marzo 2022), in realtà applicando una sola volta, ai fini del conteggio, l’aumento di due terzi della pena base di sei anni.

Né il ricorrente ha palesato contestazione alcuna a siffatto conteggio. In ogni caso, a prescindere dalla correttezza del calcolo, adottato secondo le modalità certamente più favorevoli per l’imputato tenuto conto delle norme di cui agli artt. 99 e 161 cod. pen., non vi è dubbio alcuno, contrariamente ai rilievi del ricorrente, che la prescrizione per tali reati di cui ai capi S, T e U (v. supra) non è ancora maturata.

4.2. Per quanto poi concerne il secondo motivo, il Tribunale lariano aveva osservato che tutte le fatture in contestazione dovevano considerarsi false, tanto in virtù delle spontanee dichiarazioni confessorie dell’imputato quanto – soprattutto – per l’evidenziata genericità delle prestazioni ivi indicate, prive di riferimenti puntuali e concreti altresì alle prestazioni da eseguirsi e quant’altro.

Di siffatte considerazioni l’odierno ricorrente non ha tenuto alcuno specifico conto né in sede di appello né, per quanto riguarda il presente giudizio, in sede di ricorso, laddove anzi viene affermato che non sussiste motivazione al riguardo.

Contrariamente a detti rilievi, tra l’altro, il primo Giudice – in ciò espressamente confermato dalla Corte territoriale – ha dato conto delle verifiche compiute e delle acquisizioni documentali, al fine di verificare la fittizietà della documentazione contabile così formata.

4.3. Del tutto infondato è anche il terzo motivo di impugnazione, dal momento che l’atto di appello non contiene alcun espresso riferimento all’ipotesi di cui all’art. 5, sebbene il Tribunale di Como avesse osservato che il Galfetti aveva omesso la presentazione di dichiarazioni fiscali quanto all’anno 2010.

Oltre a ciò, gli stessi riferimenti ivi contenuti all’elemento psicologico sono modulati con riferimento all’ipotesi di utilizzo delle fatture fittizie, e quindi sulla norma di cui all’art. 2 d.lgs. 74 cit., che non risulta comunque tra le residue contestazioni a carico dell’odierno ricorrente. Va da sé che, a fronte di siffatta impugnazione, ben poco la Corte territoriale aveva da aggiungere.

5. La manifesta complessiva infondatezza dell’impugnazione, alla stregua delle considerazioni che precedono, comporta pertanto l’inammissibilità del ricorso.

6. Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 28/11/2019.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.